martedì 26 agosto 2025

Paesaggi dell’io, cromatismi della cura: L’opera pittorica di Anthony Hurd tra astrazione emotiva e visibilità queer




1. Introduzione: una poetica della presenza

Anthony Hurd (n. 1985), artista queer statunitense nato nella Bay Area e oggi attivo tra Albuquerque e Los Angeles, ha costruito una traiettoria artistica che si distingue per l’intensità espressiva del colore, la forza affettiva delle immagini e una decisa attenzione al tema della rappresentazione. Pittore autodidatta nella pratica ma formato ufficialmente presso il California College of the Arts (BFA, 2009), Hurd emerge nel panorama dell’arte contemporanea americana con una voce autonoma, capace di coniugare introspezione emotiva e tensione politica.

La sua opera si sviluppa a partire da un’astrazione densa e psicologicamente stratificata, per poi evolvere verso una figurazione queer lirica e dichiarativa. Questo passaggio — tutt’altro che lineare — è frutto di una ricerca personale e di un’urgenza di visibilità che ha radici profonde nell’esperienza biografica e collettiva dell’essere queer in America. In un’intervista rivelatrice, l’artista ha affermato: *«I paint what I needed to see growing up»*¹.



2. Gli “Inner Landscapes”: astrazione come cartografia affettiva

Le prime opere di Hurd, da lui stesso indicate come “inner landscapes”, rappresentano tentativi di traduzione emotiva attraverso forme non referenziali: vortici, curve, masse di colore, linee spezzate, gradienti cromatici che evocano instabilità, mutamento, moltiplicazione. In questa prima fase, il linguaggio pittorico attinge a un’espressività interiore non mediata, dove il gesto astratto si fa equivalente della tensione psichica.

Il legame con l’espressionismo astratto americano è evidente, ma Hurd ne sovverte l’epica muscolare e virilista, riscrivendola in chiave vulnerabile e soggettiva. I suoi dipinti non hanno la monumentalità di un Pollock, bensì la densità emotiva di Joan Mitchell o le liriche cromatiche di Helen Frankenthaler. Allo stesso tempo, la sua pratica si avvicina a quanto Julia Kristeva ha chiamato il “semiotico” — una forma prelinguistica di comunicazione radicata nel corpo e nell’affettività².

La materia pittorica — prevalentemente acrilico, spesso stratificato con precisione — diventa così superficie emotiva, quasi cutanea, sulla quale il soggetto inscrive il proprio vissuto. L’assenza di figura non è privazione, ma scelta strategica: si evita la semplificazione dell’identità a favore di una rappresentazione complessa della coscienza, dove ogni elemento della composizione concorre alla costruzione di un paesaggio mentale.


3. La svolta figurativa: dichiarazioni visive e relazionali

A partire dal 2022, Hurd inizia a introdurre figure riconoscibili nelle sue opere. Il passaggio si consolida con la mostra personale Verified (Brand Library & Art Center, Glendale, 2023), che segna un momento chiave nella sua carriera. In questa nuova fase, il soggetto queer diviene protagonista della scena pittorica: volti, corpi, mani, coppie, animali simbolici, paesaggi naturali vengono rappresentati con una nuova intensità visiva.

La figurazione non tradisce l’astrazione precedente, ma la ingloba, la sfuma, ne eredita la forza affettiva. L’uso del colore resta centrale, ma assume una funzione ulteriormente narrativa. Il gesto non è più solo introspezione: è presa di parola, apparizione, affermazione. I titoli delle opere di questo periodo — Love Is A Protest, Refuge, We Are All Worthy of Love — hanno la funzione di dichiarazioni poetiche e politiche. Il corpo queer, spesso marginalizzato o escluso dall’iconografia canonica, viene qui non solo rappresentato, ma celebrato³.

In questo senso, la pittura di Hurd si inserisce nella linea di una figurazione queer contemporanea che include artisti come Salman Toor, Louis Fratino, Shona McAndrew o Doron Langberg, accomunati dalla volontà di riscrivere un immaginario visivo in cui corpi, affetti e desideri queer non siano né eccezionali né trasgressivi, ma semplicemente reali e presenti.


4. Natura, comunità e utopia visiva

Un tratto distintivo della fase figurativa di Hurd è la presenza costante della natura: cieli stellati, alberi, lune, campi fioriti, colline. La natura non è mai sfondo passivo, ma partecipe, materna, viva. Le figure umane — spesso nude, spesso accoccolate l’una all’altra — vi sono immerse in maniera quasi osmotica. Questa compenetrazione tra corpo e paesaggio può essere letta come un ritorno al “romanticismo queer”: un’estetica in cui l’intimità e la vulnerabilità diventano forme di bellezza e resistenza.

In tale visione, il paesaggio assume la funzione di spazio utopico, come teorizzato da José Esteban Muñoz nel suo Cruising Utopia⁴. La pittura diviene un luogo in cui ciò che è negato nella realtà può esistere: la coppia queer che si abbraccia in pubblico, il corpo non conforme che si espone senza paura, la comunità affettiva che si riconosce nello sguardo dell’altro.

Queste immagini, lungi dall’essere idealizzate, sono radicalmente politiche: come afferma bell hooks, *“love is an act of will, the intention to nurture one’s own or another’s spiritual growth”*⁵. Nella visione di Hurd, l’amore — sia romantico, che familiare, che comunitario — non è mai banale, ma pratica trasformativa. E la pittura ne diventa testimone.


5. Tra digitale e pittura: un’estetica dell’ibrido

Pur essendo pittore tradizionale per formazione e pratica, Hurd utilizza strumenti digitali — AI generativa, software di composizione — come parte del processo creativo. Questo non ne fa un “artista digitale”, ma un autore consapevole della complessità mediale dell’immagine contemporanea. Le bozze digitali, infatti, vengono poi trasposte in pittura acrilica su tela o su legno, con una cura che restituisce alla materia la sua forza tattile.

Questa tensione tra virtuale e reale, tra idea e corpo, tra schermo e superficie, si riflette nella composizione: figure nitide e colori saturi si mescolano a sfondi eterei, nebulosi, attraversati da luci oniriche. Il risultato è un’estetica dell’ibrido, dove si incontrano pittura, illustrazione, grafica, spiritualità e desiderio. In questo senso, Hurd contribuisce a una rinegoziazione del medium pittorico nel XXI secolo, senza nostalgie e senza rotture: piuttosto, con una visione fluida e inclusiva del fare arte.


6. Conclusioni: per una semantica queer dell’affetto

Anthony Hurd è tra gli artisti contemporanei che meglio incarnano una “semantica queer dell’affetto”, in cui il linguaggio visivo si mette al servizio della cura, della memoria e dell’immaginazione politica. La sua pittura non si limita a rappresentare soggetti queer, ma li mette in relazione, li riconosce, li ama. Essa parla della fatica di esistere e della gioia possibile, del trauma e della guarigione, della solitudine e della tenerezza.

Il valore della sua opera risiede proprio in questa capacità di tenere insieme vulnerabilità e visione, intimità e gesto pubblico, individualità e appartenenza. In un mondo ancora segnato da cancellazioni simboliche e violenze materiali, le tele di Hurd offrono non tanto una risposta, quanto un gesto: quello di chi, dopo il silenzio, si fa vedere, si lascia guardare, e — senza gridare — resta.


Note

  1. Intervista a Anthony Hurd, Painting Through Big Emotions: Celebrating Queer Representation and Learning to Be Happy, MakersPlace, giugno 2023: https://rare.makersplace.com/2023/06/19/painting-through-big-emotions-celebrating-queer-representation
  2. Kristeva, Julia. La révolution du langage poétique. Paris: Seuil, 1974.
  3. Vedi ad esempio le opere Love Is A Protest e Celebrating Existence, esposte a Thinkspace Projects, Los Angeles, giugno 2025.
  4. Muñoz, José Esteban. Cruising Utopia: The Then and There of Queer Futurity. NYU Press, 2009.
  5. hooks, bell. All About Love: New Visions. William Morrow, 2000.

Bibliografia essenziale

  • Ahmed, Sara. The Cultural Politics of Emotion. Edinburgh University Press, 2004.
  • Butler, Judith. Giving an Account of Oneself. Fordham University Press, 2005.
  • Jones, Amelia. Seeing Differently: A History and Theory of Identification and the Visual Arts. Routledge, 2012.
  • Lorde, Audre. Sister Outsider. Crossing Press, 1984.
  • Reckitt, Helena (ed.). Art and Feminism. Phaidon Press, 2001.
  • Taylor, Marvin J. (ed.). The Queer Art of Failure. Duke University Press, 2011.


Chris & Don: A Love Story




Christopher Isherwood nacque in Inghilterra nel 1904, in una famiglia che custodiva con fierezza il proprio retaggio militare e aristocratico. Suo padre cadde durante la Prima guerra mondiale, e quell’assenza si trasformò presto in un’ombra che segnò il giovane Christopher: gli eroi che morivano in trincea, osannati come martiri dell’impero, apparivano ai suoi occhi meno come esempi di coraggio e più come vittime di una catastrofe insensata. Cresciuto in un ambiente di disciplina, di aspettative e di obblighi, cominciò a intuire che la sua strada sarebbe stata quella della fuga, della ribellione, del racconto di sé come alternativa a una vita preconfezionata. Cambridge lo accolse solo per un tempo breve e distratto: non sopportava la rigidità accademica e preferì abbandonare l’università, primo segnale di una insofferenza che lo avrebbe accompagnato sempre. La scrittura e l’esperienza vissuta sarebbero state i suoi veri maestri.

Il destino volle che nel 1925 si riallacciasse a un compagno intravisto anni prima, Wystan Hugh Auden. Allora entrambi erano giovani, ma Auden portava già in sé la forza del poeta che sarebbe diventato. Fra loro nacque un rapporto ambiguo e fertile: amici, amanti occasionali, ma soprattutto complici in una stagione di esplorazione letteraria e umana. Auden gli affidava le proprie poesie in cerca di giudizio e di guida, mentre Isherwood ricambiava offrendo uno sguardo critico e un incoraggiamento costante. L’incontro con Auden fu decisivo perché lo introdusse a un mondo di giovani scrittori come Stephen Spender, animati dal desiderio di rompere con il passato, di sperimentare, di dare voce a un tempo nuovo. Erano gli anni in cui l’Inghilterra, pur scossa dalla guerra appena finita, restava aggrappata alle proprie convenzioni: quel piccolo circolo di poeti e narratori rappresentava una scintilla di irrequietezza.

Nel 1928 Isherwood pubblicò il suo primo romanzo, "All the Conspirators", storia antieroica di un giovane sconfitto dalla madre. Era un racconto che affondava direttamente nella sua esperienza, specchio del conflitto mai risolto con la figura materna. Lo stile, ancora vicino al pastiche modernista, mescolava influenze di Joyce e Virginia Woolf, ma lasciava intravedere una chiarezza narrativa che lo avrebbe distinto dai suoi contemporanei. La scrittura era già per lui uno strumento di liberazione: raccontare significava spezzare catene. In quello stesso anno, tuttavia, tentò un percorso diverso, iscrivendosi a medicina a Londra. Durò poco. L’esperimento fu interrotto quasi subito, e il richiamo di Auden, che lo invitava a Berlino, risultò irresistibile. Con quel viaggio cominciò una nuova vita.

Berlino alla fine degli anni Venti era un caleidoscopio. La Repubblica di Weimar viveva un periodo fragile e febbrile: l’inflazione, le tensioni politiche, i fermenti culturali, le avanguardie artistiche, i cabaret. Per Isherwood la città apparve come un paradiso di libertà sessuale. Egli stesso non ne fece mistero: era arrivato in cerca di ragazzi, e li trovò. Fra loro Heinz, che divenne il suo primo grande amore, un ragazzo fragile, bellissimo, la cui storia personale si sarebbe intrecciata tragicamente con la violenza crescente del nazismo. Berlino era, per lui, non solo un luogo di piaceri ma una scuola di vita. Frequentò ambienti clandestini, osservò il sottobosco della prostituzione maschile, partecipò a feste, relazioni, avventure. Ma non si limitò a vivere: scrisse, testimoniò, annotò. Nei suoi libri successivi, e nei commenti che lasciò agli editori, riconobbe in opere come "Der Puppenjunge" la verità di quel mondo che egli stesso aveva attraversato.

In quegli anni incontrò persone destinate a diventare icone letterarie attraverso la sua penna. Jean Ross, giovane aspirante cantante inglese, fu il modello da cui nacque la figura di Sally Bowles, con il suo trucco marcato e la sua sfrontata leggerezza. Gerald Hamilton, avventuriero ambiguo, divenne Mr. Norris, protagonista di un romanzo in cui la Berlino degli anni Trenta emergeva in tutta la sua ambivalenza. Le pagine di Isherwood, a partire da "Mr. Norris Changes Trains" (1935) fino a "Goodbye to Berlin" (1939), fissarono un’epoca che stava per svanire. Il crepuscolo della Repubblica di Weimar, con i suoi cabaret scintillanti e le sue ombre minacciose, sopravvive oggi soprattutto attraverso lo sguardo di Isherwood. Da quelle pagine nasceranno adattamenti teatrali e cinematografici: il dramma "I Am a Camera", poi il musical "Cabaret" e il film di Bob Fosse. Pochi scrittori videro la propria esperienza personale diventare, decenni dopo, un mito culturale di portata mondiale.

Nel 1931, durante un ritorno a Londra, avvenne un incontro decisivo: quello con E. M. Forster. Già autore di romanzi celebri, Forster riconobbe in Isherwood un talento da sostenere. Fra i due nacque un legame profondo, fatto di confidenze e di incoraggiamento. Forster, che aveva scritto "Maurice" ma lo teneva nel cassetto per paura dello scandalo, vedeva nel giovane Christopher la possibilità di una libertà che lui stesso non aveva osato vivere. Il secondo romanzo di Isherwood, "The Memorial" (1932), con il suo tema del conflitto fra madre e figlio, fu scritto proprio in quel periodo, con il sostegno morale del suo nuovo mentore.

Gli anni berlinesi furono anche segnati da un primo incontro con il cinema. Tornato a Londra, Isherwood collaborò con il regista Berthold Viertel, esperienza che divenne la base del romanzo "Prater Violet" (1945). Fu allora che cominciò a intuire come la scrittura potesse nutrirsi di più mondi: narrativa, cinema, teatro, diario. Intanto la situazione politica in Germania si faceva sempre più minacciosa. Con l’ascesa di Hitler, Berlino non era più la città della libertà, ma un luogo che si preparava alla persecuzione e alla guerra.

Nel 1939 Isherwood lasciò l’Europa e si trasferì negli Stati Uniti, stabilendosi a Hollywood. Qui cominciò una nuova stagione. A Los Angeles entrò in contatto con Gerald Heard, carismatico intellettuale che lo introdusse a un circolo di pensatori e artisti: Aldous Huxley, Bertrand Russell, Jiddu Krishnamurti. Grazie a loro si avvicinò al Vedanta, alla spiritualità indiana e all’insegnamento di Swami Prabhavananda. Per Isherwood, che aveva vissuto la vita come immersione radicale nella realtà, la spiritualità fu una nuova forma di ricerca, non un rifugio evasivo. Continuò a scrivere con la stessa limpidezza, ma arricchito da uno sguardo più ampio. La sua vita californiana lo mise in contatto con figure come Igor Stravinsky e Ray Bradbury. Con quest’ultimo l’incontro fu del tutto casuale, in una libreria di Los Angeles: un gesto di incoraggiamento da parte di Isherwood contribuì ad avviare la carriera dello scrittore di fantascienza, che gli restò grato.

Il 14 febbraio 1953, giorno di San Valentino, Isherwood incontrò sulla spiaggia di Santa Monica Don Bachardy, diciottenne, lui già quarantanovenne. La loro relazione, per molti scandalosa, si trasformò in un legame che durò fino alla fine della vita di Isherwood. All’inizio Bachardy fu giudicato con malizia, considerato da alcuni una sorta di “prostituta bambina”. Ma gli anni dimostrarono il contrario: la loro fu una storia d’amore autentica, che resistette al tempo e agli sguardi malevoli. Bachardy divenne un artista autonomo, un ritrattista di grande talento, autore di opere che raffigurarono celebrità e personalità pubbliche, fra cui il governatore Jerry Brown. I suoi ritratti più celebri restano forse quelli di Isherwood negli ultimi anni: volti scavati, intensi, che non nascondono nulla della malattia e del tempo che passa. Erano un atto di amore e di verità.

Negli stessi anni Isherwood insegnò scrittura creativa al Los Angeles State College. Non era un docente accademico nel senso classico: incoraggiava i giovani a scrivere di sé, a non aver paura di trasformare la vita in letteratura. Continuava a credere che l’esperienza fosse la vera materia dello scrittore. "The World in the Evening" (1954) nacque in quel periodo, scritto con la collaborazione pratica di Bachardy, che ne batté a macchina il manoscritto.

Isherwood morì nel 1986, a Santa Monica. Aveva attraversato gran parte del Novecento, trasformando la sua esistenza in un racconto che univa l’Europa e l’America, la vita privata e la grande storia, la sessualità e la spiritualità, la ribellione e la ricerca di armonia. La sua memoria sopravvive in una targa a Berlino, nella casa di Schöneberg dove aveva vissuto, ma soprattutto nei libri che hanno ispirato intere generazioni. E sopravvive anche nell’immagine di lui e di Bachardy, due uomini che, nonostante i pregiudizi, seppero vivere insieme tutta una vita, documentata con tenerezza nel film "Chris and Don".

Christopher Isherwood resta una figura luminosa e complessa: scrittore capace di guardare il mondo con occhi limpidi, cronista di epoche che stavano crollando, ma soprattutto uomo che trasformò la propria vita in un laboratorio di verità. Nei suoi romanzi, nei suoi diari, nelle sue confessioni, si percepisce sempre una tensione fra il desiderio e il tempo, fra l’individuo e la società. Non cercò mai di travestire la realtà, ma di dirla, anche quando sembrava scandalosa. Così ha lasciato un’eredità che non appartiene solo alla letteratura, ma alla storia della libertà.


lunedì 25 agosto 2025

Sul filo del cabaret: Isherwood, Sally Bowles e la fluidità queer tra storia e contemporaneità

Addio a Berlino, prima di essere una testimonianza storica, è un esperimento letterario unico: Christopher Isherwood decide di raccontare non tanto la propria vita, quanto un mondo che gli scorre davanti agli occhi e che, al momento stesso in cui lo osserva, è già un relitto in formazione. Non c’è linearità narrativa, non c’è un vero intreccio romanzesco, ma piuttosto un insieme di frammenti, di schizzi dal vivo, di personaggi che appaiono e scompaiono come se il narratore li catturasse solo nell’attimo in cui la vita li porta sulla sua strada. È una scrittura di superficie che, proprio perché non cerca di approfondire psicologie o biografie, restituisce con più forza l’immediatezza di un’atmosfera irripetibile. In questo senso, Isherwood diventa davvero “una macchina fotografica”, come lui stesso si definisce: registra, fissa, cattura volti e scene senza aggiungere troppa interpretazione, ma lasciando che sia il lettore a intuire ciò che si nasconde sotto quella patina di vitalità e leggerezza.

Eppure, proprio questa leggerezza porta con sé un peso enorme. Ogni personaggio che incontriamo – dalla celebre Sally Bowles, che diventerà il simbolo stesso di questo universo, fino alle figure minori di gigolò, piccoli truffatori, famiglie borghesi in crisi o proletari schiacciati dalla miseria – vive come se il futuro non esistesse. Ci si lascia trascinare dal piacere, dalla festa, dalla seduzione, o anche solo dalla lotta quotidiana per sopravvivere, ma sempre con l’impressione che tutto sia provvisorio, che nulla possa durare. La Berlino di Isherwood è infatti una città-limite, un luogo che sta già scivolando verso la catastrofe, anche se i suoi abitanti fingono di non accorgersene. Il nazismo è lì, appena dietro l’angolo: ancora citato solo di sfuggita, come una presenza lontana, ma percepibile come una minaccia che cresce. Questa sospensione – la vita che continua come se nulla stesse per accadere, mentre in realtà si è già oltrepassata la soglia – è la vera forza del libro. Isherwood riesce a rendere tangibile quella sensazione di ballare sull’orlo dell’abisso, di godere mentre il mondo va in pezzi.

Quando Bob Fosse decide di portare questo materiale sullo schermo, non fa una semplice trasposizione: compie una metamorfosi. Il musical Cabaret prende spunto da Addio a Berlino e da altre opere di Isherwood, ma le rielabora attraverso un linguaggio spettacolare che unisce musica, danza e allegoria. Il Kit Kat Klub non è solo un locale notturno, ma diventa un microcosmo simbolico: dentro le sue mura si concentra tutto ciò che nella città è frammentato. La sensualità, la libertà sessuale, il gioco con i generi e le identità, l’ironia corrosiva, ma anche la crudeltà e la deformazione, si fondono in un unico spettacolo. E questo spettacolo, a sua volta, riflette il mondo esterno, lo commenta e lo deforma. I numeri musicali non sono semplici intermezzi, ma vere parabole visive: ognuno di essi lascia intravedere il volto oscuro della realtà che avanza.

Il maestro di cerimonie – reso indimenticabile da Joel Grey – diventa così una figura archetipica: con il suo sorriso esagerato e inquietante, è allo stesso tempo seduttore, clown e demone. La sua presenza, che scandisce ogni passaggio del film, rende evidente ciò che Isherwood lasciava solo intuire: l’orrore è già dentro la festa, l’abisso è già iscritto nei sorrisi e nei corpi che danzano. Fosse costruisce un linguaggio in cui il cabaret si fa specchio deformante della storia: un gioco di luci e ombre che smaschera la follia collettiva. E proprio in questo consiste la sua grande intuizione: se Isherwood ci dà la fotografia di un mondo che scivola verso il baratro, Fosse ci mostra la tragedia di un’umanità che applaude mentre la catastrofe si prepara dietro le quinte.

Il passaggio dal libro al film è dunque un passaggio di tono e di prospettiva. Nel libro, la tragedia è accennata, come una nota di sottofondo che accompagna i ritratti dei personaggi; nel film, diventa tema dominante, messo in scena con una potenza iconica che non lascia scampo. Laddove Isherwood preferiva restare in superficie, offrendo immagini rapide e quasi impressionistiche, Fosse affonda la lama e trasforma ogni scena in un’allegoria politica. Non si tratta solo di raccontare la Berlino dei primi anni Trenta, ma di mostrare, attraverso un gioco teatrale, come l’umanità intera possa farsi complice della propria rovina.

È per questo che, alla fine, sia il libro che il film non sono semplici cronache del passato, ma parabole universali. In entrambi i casi, ciò che rimane al lettore o allo spettatore non è la sensazione di aver appreso un pezzo di storia, ma quella di aver assistito a una verità che parla a tutte le epoche: la fragilità delle libertà, la facilità con cui una società si lascia sedurre dal divertimento mentre la violenza si insinua, la tentazione di voltarsi dall’altra parte mentre il potere si prepara a cancellare tutto. In questo senso, Addio a Berlino e Cabaret sono due versioni della stessa tragedia: il racconto di un mondo che continua a ballare mentre l’abisso si spalanca sotto i suoi piedi.


Partiamo da lei, Sally. Nel libro di Isherwood non è la protagonista assoluta, ma una figura tra le tante: una ragazza inglese frivola, con ambizioni artistiche piuttosto modeste, tratti spesso ridicoli, ingenuità infantili e una vitalità che si consuma in sé stessa. È descritta come un’attrice mancata, una cantante mediocre, una giovane che più che vivere recita la vita. Isherwood ne coglie i difetti senza pietà, ma anche con una sorta di compassione distaccata: Sally è un frammento di quell’umanità precaria che popola la Berlino degli anni Trenta, un sintomo della leggerezza disperata con cui molti tentavano di evadere dal presente. Nulla lascia pensare, in quelle pagine, che diventerà un’icona.

Eppure, il teatro e poi il cinema ne faranno proprio questo: un mito. Nell’adattamento teatrale di I Am a Camera (1951), e soprattutto nel musical Cabaret (1966) di Kander e Ebb, Sally Bowles assume una centralità assoluta. Quando poi Bob Fosse porta tutto al cinema nel 1972, affidando la parte a Liza Minnelli, la metamorfosi è completa: da personaggio letterario un po’ meschino diventa un’eroina pop. Minnelli non interpreta la Sally fragile e squallida di Isherwood, ma una creatura esplosiva, magnetica, ambigua e irresistibile. Il suo caschetto nero, i collant, la voce roca e le canzoni (“Maybe this time”, “Cabaret”) hanno fissato un’immagine che travalica il contesto storico: Sally diventa la maschera della libertà sessuale, della sfrontatezza, della ribellione contro i conformismi.

Questa metamorfosi non è solo un dettaglio di adattamento, ma un fenomeno culturale di enorme portata. La Sally Bowles di Minnelli, infatti, ha segnato l’immaginario queer internazionale. Negli anni Settanta, mentre esplodevano i movimenti di liberazione sessuale, la sua figura incarnava un’energia androgina, un eros sghembo, un desiderio di vivere senza freni in un mondo che invece chiedeva ordine e disciplina. Il suo modo di cantare, di ballare, di guardare la macchina da presa con ironia e sfida, ha trasformato un personaggio letterario marginale in un’icona della cultura pop. E proprio per questo, paradossalmente, la Sally di Fosse-Minnelli è molto meno “realistica” di quella di Isherwood, ma molto più “vera”: ha saputo incarnare un bisogno collettivo di libertà.

Qui si inserisce la differenza tra il libro e il film. Addio a Berlino è una cronaca che, pur nella sua trasfigurazione letteraria, resta incollata al dettaglio, alla realtà minuta. Sally è una voce in quel coro, non diversa dalle altre. Cabaret, invece, prende quella voce e la trasforma in un urlo. L’arte di Fosse sta proprio in questo: aver compreso che il musical non poteva limitarsi a illustrare un’epoca, ma doveva amplificarla, darle corpo, trasformarla in mito. Il Kit Kat Klub, con i suoi numeri spettacolari, diventa un teatro nel teatro, un’allegoria politica in cui il desiderio di divertirsi è inseparabile dal precipizio che si prepara.

Ed è così che si crea il cortocircuito: mentre Sally e i suoi compagni continuano a cantare, ballare, bere, amare, la Germania si consegna al nazismo. La forza del film sta nell’aver reso questo contrasto visibile, musicale, inevitabile. Nel libro lo si avverte come una vibrazione sotterranea; nel film esplode a ogni scena, fino alla famosa sequenza del canto “Tomorrow belongs to me”, che mostra in modo lancinante come la giovinezza e l’innocenza possano essere assorbite da un’ideologia mortifera.

Il confronto tra Isherwood e Fosse, dunque, non è solo un confronto tra letteratura e cinema, ma tra due modi diversi di guardare al passato. Isherwood scrive da esule, da osservatore che già sa cosa accadrà e lo lascia trasparire senza mai gridarlo. Fosse, invece, parla a un pubblico degli anni Settanta, che si trova di fronte ad altre crisi (il Vietnam, Watergate, i movimenti giovanili, le lotte per i diritti civili) e sceglie di urlare il messaggio: attenzione, il divertimento può diventare complicità, la leggerezza può trasformarsi in tragedia.

Il risultato è che Addio a Berlino rimane un documento letterario prezioso, un mosaico fragile che ci restituisce l’atmosfera di un’epoca al tramonto; Cabaret diventa invece un mito popolare, un avvertimento politico e un’icona culturale. Non a caso, mentre il libro rimane confinato nel mondo della letteratura e della critica, il film ha invaso la cultura di massa, l’immaginario queer, il teatro musicale e persino la moda.

E alla fine, proprio questo sdoppiamento fa la loro forza. L’uno senza l’altro sarebbe incompleto: senza il libro, non avremmo l’istantanea reale della Berlino di Weimar, con le sue strade, le sue pensioncine, le sue miserie; senza il film, non avremmo l’icona universale che ha trasformato quella cronaca in una leggenda, una parabola che parla ancora oggi a chiunque viva sulla soglia tra libertà e minaccia, tra festa e catastrofe.


Quando Isherwood pubblicò Addio a Berlino nel 1939, il libro fu letto e apprezzato soprattutto come testimonianza sulla Germania di Weimar e come tassello di un genere allora in auge, quello della narrativa-reportage. Certo, Isherwood aveva già un suo ruolo nella scena letteraria inglese, e il libro fu accolto bene dalla critica, ma non era destinato a trasformarsi in un fenomeno popolare. Era considerato un’opera raffinata, una cronaca dalla forza documentaria e letteraria, che trovava la sua collocazione tra i lettori colti e in un pubblico sensibile alle vicende europee. Nonostante la vivacità dei personaggi, Sally compresa, nessuno poteva immaginare che quelle figure sarebbero diventate simboli universali.

Il primo salto avviene con l’adattamento teatrale I Am a Camera di John Van Druten (1951), che portò sul palcoscenico la figura di Sally Bowles. Lo spettacolo ebbe successo a Broadway e contribuì a far circolare il nome di Isherwood in un pubblico più vasto, ma era ancora lontano dal mito. Fu con Cabaret, il musical di Kander e Ebb del 1966, che la metamorfosi prese davvero forma: la Sally interpretata da Jill Haworth, e poi da Liza Minnelli nel film del 1972, divenne una creatura esplosiva, un’icona che travalicava la pagina scritta.

E qui accade qualcosa di straordinario: la fama del film rimbalza all’indietro e illumina retroattivamente il libro. Addio a Berlino, fino a quel momento conosciuto soprattutto negli ambienti letterari, diventa improvvisamente la “fonte” di un mito popolare. Le vendite crescono, le traduzioni si moltiplicano, e il nome di Isherwood viene associato sempre di più a Sally Bowles e alla Berlino di Weimar. Di fatto, Cabaret ridisegna la percezione dell’autore, facendone non solo uno scrittore di qualità, ma una sorta di testimone privilegiato di quell’epoca.

Ma non si tratta soltanto di un aumento di notorietà. La ricezione di Cabaret ha un effetto decisivo anche sulla collocazione di Isherwood nella storia della cultura queer. Negli anni Settanta, infatti, Isherwood è ormai apertamente gay, vive negli Stati Uniti con Don Bachardy, il suo compagno di lunga data, e ha iniziato a raccontare sempre più esplicitamente la propria esperienza omosessuale. Il successo del film di Fosse, con la sua carica erotica ambigua, con la rappresentazione di amori fluidi e identità in trasformazione, ha spianato la strada a una nuova lettura del libro: non più solo come cronaca di un’epoca, ma come documento di una sensibilità queer in anticipo sui tempi.

In altre parole, Cabaret ha funzionato come lente retrospettiva: ha reso visibile, in controluce, la modernità di Isherwood. Ciò che negli anni Trenta era apparso come una cronaca di costume, negli anni Settanta diventa una testimonianza su desideri, identità e relazioni che solo allora cominciavano a trovare spazio nella cultura di massa. La figura di Sally Bowles, ma anche quella del narratore distaccato e osservatore, vengono reinterpretate alla luce della liberazione sessuale e dei movimenti gay. È come se Fosse avesse “rivelato” ciò che nel libro era presente in modo carsico: l’idea che la Berlino di Weimar fosse stata non solo un luogo di crisi politica, ma anche un laboratorio di libertà sessuale e identitaria.

Da quel momento, Isherwood non è più semplicemente uno scrittore inglese emigrato in America. Diventa un autore di culto, un punto di riferimento per la memoria queer internazionale. Le sue opere successive, come Christopher and His Kind (1976), vengono lette come un’autobiografia senza veli, in cui l’autore racconta con maggiore libertà la sua vita omosessuale a Berlino e altrove. E qui il cerchio si chiude: ciò che era stato velato o trasfigurato in Addio a Berlino, ciò che era stato trasformato in mito da Fosse, ora Isherwood lo rivendica in prima persona. È un passaggio fondamentale per la letteratura gay del Novecento: un autore che, dopo decenni di autocensura e di narrazione indiretta, può finalmente parlare di sé apertamente, anche grazie al fatto che Cabaret aveva preparato il terreno, rendendo la sua esperienza parte di un immaginario condiviso.

Insomma, la ricezione del film non ha solo accresciuto la fama di Isherwood: ne ha cambiato lo statuto. Da scrittore di nicchia, conosciuto per i suoi reportage letterari, diventa un testimone universale; da cronista della Berlino di Weimar diventa una voce queer riconosciuta e ascoltata. E tutto questo è accaduto non perché il film fosse fedele al libro, ma perché lo ha tradito creativamente, trasformando Sally Bowles in un’icona e trasformando l’ambiguità del cabaret in un’allegoria globale.


Prima di Fosse, la Berlino degli anni Venti e Trenta era conosciuta come un luogo di sperimentazioni artistiche, avanguardie e decadenza, ma era soprattutto materia da storici o da appassionati di cultura mitteleuropea. Con Cabaret quella memoria diventa immagine concreta, codificata, e soprattutto spettacolare. Non leggiamo più soltanto che c’erano locali notturni, travestitismi, ambiguità sessuali: li vediamo, li ascoltiamo, li respiriamo attraverso la macchina da presa. La Berlino di Weimar diventa, per milioni di spettatori, sinonimo di piume, guanti neri, caschetti di capelli lucidi, ombre di fumo e desiderio, un mondo di libertà sessuale e di ironia feroce, ma anche di imminente rovina.

Il film ha avuto, sotto questo aspetto, un impatto che non si può esagerare. Non solo ha definito l’iconografia di quel periodo, ma l’ha esportata ovunque. Negli anni Settanta e Ottanta, la moda recupera sistematicamente il look di Liza Minnelli: il caschetto corto e geometrico diventa simbolo di modernità androgina, gli abiti da cabaret si fondono con lo stile punk e new wave, e artisti come David Bowie, Klaus Nomi o Grace Jones rielaborano quell’immaginario in chiave glam e postmoderna. La Berlino di Cabaret diventa così un modello estetico che influenza le passerelle di Yves Saint Laurent e Jean Paul Gaultier tanto quanto le copertine di dischi e i video musicali.

Anche il cinema ha continuato a inseguire quell’immaginario. Film come Bent (1997), ispirato alla pièce di Martin Sherman sulla persecuzione degli omosessuali nei campi nazisti, devono molto all’estetica di Cabaret nel modo di raccontare l’ambiguità di Weimar come luogo di desiderio e tragedia. Persino serie televisive recenti — da Babylon Berlin a produzioni minori — non possono fare a meno di misurarsi con quell’eredità visiva: la città come un grande palcoscenico dove libertà e perdizione si mescolano fino a diventare indistinguibili.

Ma forse il lascito più importante è stato quello nel mondo queer. La figura di Sally Bowles, così come il Maestro di cerimonie, sono diventati archetipi teatrali e performativi che hanno influenzato il drag, il cabaret contemporaneo e le pratiche artistiche della comunità LGBTQ+. Sally con il suo carisma ambiguo e autodistruttivo, il Maestro con il suo corpo che non appartiene mai a un solo genere, hanno fornito modelli di identità fluide e provocatorie, capaci di attraversare i decenni. Non è un caso che ancora oggi, nelle serate drag, vengano riproposti i numeri di Cabaret: non come semplice nostalgia, ma come riattualizzazione di un linguaggio che parla ancora della tensione tra libertà e repressione.

E qui sta il punto cruciale: Cabaret non è mai rimasto confinato alla rappresentazione storica. Ha trasformato la memoria della Berlino di Weimar in una parabola globale, valida per ogni epoca in cui le libertà individuali rischiano di essere soffocate. Ogni volta che il mondo si trova davanti a una crisi politica o sociale, quell’immaginario ritorna: il palco, i riflettori, la risata che maschera l’abisso, il corpo che danza mentre la violenza si avvicina. È diventato un linguaggio universale del pericolo, ma anche della resistenza.

E se Isherwood aveva registrato con sobrietà quel mondo che già sapeva perduto, e Fosse l’aveva teatralizzato con potenza allegorica, la cultura successiva ne ha fatto un archivio di immagini da rielaborare, reinventare e vivere. La Berlino di Cabaret è ormai un mito che travalica la storia: un mito queer, politico, estetico, che parla tanto a chi cerca di comprendere il passato quanto a chi vuole immaginare un futuro diverso.


Oggi, Cabaret e l’opera di Isherwood non sono più letti soltanto come documenti storici o come intrattenimento teatrale e cinematografico: sono strumenti interpretativi per riflettere su temi universali come la precarietà, la fluidità delle identità e la resistenza culturale. Nelle arti visive contemporanee, per esempio, molti artisti queer traggono ispirazione dall’estetica del cabaret: la scenografia teatrale, il trucco marcato, il corpo performativo e la teatralizzazione della sessualità diventano elementi per costruire installazioni e performance che esplorano la vulnerabilità e la libertà del corpo in contesti sociali rigidamente normati. Alcuni lavori fotografici e video-racconti reinterpretano direttamente la figura di Sally Bowles, il suo caschetto geometrico, la gestualità teatrale e la sua ambiguità erotica, trasformandola in simbolo di resistenza contro stereotipi di genere e ruoli sessuali predefiniti.

Nella teoria queer contemporanea, il binomio Isherwood–Cabaret è spesso citato come esempio paradigmatico di fluidità identitaria e di precarietà esistenziale: il narratore di Isherwood, con la sua posizione di osservatore coinvolto ma distaccato, diventa modello di soggettività capace di navigare tra mondi e desideri contraddittori; Sally, con la sua energia contraddittoria e la sua autodistruzione, diventa emblema della possibilità di esistere al margine, senza essere normalizzati. Accademici e teorici queer evidenziano come l’opera permetta di riflettere su come la cultura dominante tenti di assorbire e disciplinare la libertà individuale, e di come l’arte, al contrario, possa creare spazi di resistenza simbolica e performativa.

Anche nelle performance teatrali contemporanee, il cabaret diventa un luogo simbolico in cui la precarietà della vita e la fluidità dei ruoli vengono celebrate e analizzate. Drag show, performance di teatro sperimentale e live art si rifanno spesso a quell’immaginario, reinterpretando le coreografie, le canzoni e le luci del Kit Kat Klub come strumenti per mettere in scena tensioni contemporanee: il corpo diventa medium politico, e la rappresentazione teatrale una pratica di sovversione culturale.

In sintesi, Cabaret e Isherwood oggi funzionano come ponti tra passato e presente: non solo ricordano la Berlino di Weimar, ma permettono di pensare la precarietà e la vulnerabilità della vita contemporanea, la libertà e la fluidità dei corpi e delle identità, e la possibilità di resistere culturalmente anche in tempi ostili. L’immaginario della festa sul precipizio, del sorriso che nasconde l’abisso, diventa così metafora di tutte le epoche e di tutte le comunità che si confrontano con oppressione e marginalità, e continua a parlare potentemente al presente.


"Vermeer’s Love Letters" alla Frick Collection: fino all’8 settembre 2025


Nel giugno del 2025, New York ha celebrato un evento culturale di grande rilievo: la riapertura della Frick Collection, dopo un lungo e impegnativo periodo di ristrutturazione durato cinque anni e costato 220 milioni di dollari. Questa istituzione, famosa per l’eleganza dei suoi ambienti e per la qualità delle sue collezioni, ha scelto per il ritorno al pubblico una mostra di straordinario fascino: Vermeer’s Love Letters, dedicata a uno dei più grandi pittori del Seicento olandese, Johannes Vermeer.

La riapertura non ha significato solo la possibilità di ammirare i capolavori in un contesto rinnovato, ma anche l’occasione di riflettere sul ruolo della Frick Collection nel panorama museale internazionale, sull’importanza di Vermeer e sul significato simbolico e poetico della lettera d’amore nella cultura europea del XVII secolo.

La Frick Collection, fondata all’inizio del Novecento dal magnate industriale Henry Clay Frick, è sempre stata un luogo in cui la storia e la modernità convivono con un equilibrio quasi perfetto. La ristrutturazione appena conclusa, affidata allo studio Selldorf Architects, ha ampliato le gallerie, migliorato l’accessibilità e introdotto tecnologie moderne, senza tradire l’atmosfera intima e raffinata che ha sempre contraddistinto la collezione.

Tra le novità più significative, la creazione delle Ronald S. Lauder Exhibition Galleries al primo piano, dedicate alle mostre temporanee, ha permesso di ospitare esposizioni di respiro internazionale senza interrompere la continuità narrativa del percorso storico del museo. Inoltre, il secondo piano, con le stanze private della famiglia Frick, è stato reso finalmente accessibile al pubblico, permettendo di vivere in maniera più completa la storia del luogo.

Questa trasformazione architettonica non è stata solo estetica, ma ha significato anche un adeguamento funzionale e tecnologico, pensato per garantire sicurezza, conservazione ottimale delle opere e una fruizione più intensa e immersiva per i visitatori.

La scelta di inaugurare la nuova stagione espositiva con Vermeer’s Love Letters non è casuale. Il tema della lettera d’amore permette di collegare il passato al presente, la pittura olandese del Seicento alle riflessioni moderne sul linguaggio, la comunicazione e l’intimità.

La mostra ha riunito per la prima volta tre capolavori di Vermeer:

  • Mistress and Maid (ca. 1664–67), dalla collezione della Frick, che mostra il delicato rapporto tra padrona e domestica nel contesto domestico.
  • The Love Letter (ca. 1669–70), proveniente dal Rijksmuseum di Amsterdam, che rappresenta una scena di intimità sospesa tra desiderio e attesa.
  • Woman Writing a Letter with Her Maid (ca. 1670–72), dalla National Gallery of Ireland, un’opera che evidenzia la cura dei dettagli e la profondità emotiva dei personaggi.

Questi dipinti, messi in dialogo tra loro, offrono una lettura complessa e stratificata delle pratiche comunicative e dei codici sociali del tempo. La lettera diventa simbolo di attesa, di desiderio, di tensione emotiva; un oggetto che, pur materiale, porta con sé un carico immaginativo straordinario.

La mostra è stata curata dal Dr. Robert Fucci, esperto di Vermeer presso l’Università di Amsterdam, che ha sottolineato come il tema della lettera non fosse semplicemente narrativo, ma un vero e proprio dispositivo simbolico. Le lettere nei dipinti di Vermeer sono mediatori di emozioni e di relazioni sociali, strumenti che consentono di osservare la psicologia dei personaggi e la complessità della vita domestica del XVII secolo.

Fucci ha evidenziato come la dimensione intima dei dipinti, la luce calda che penetra dalle finestre, gli oggetti scelti con cura, creino un microcosmo poetico in cui la realtà si fa sospesa, quasi teatrale. La curatela ha enfatizzato questa atmosfera, con un allestimento che guida lo sguardo e l’attenzione del visitatore, rendendo palpabile la tensione emotiva dei soggetti.

L’allestimento delle opere nelle nuove gallerie speciali del primo piano è stato progettato per massimizzare l’esperienza immersiva. Ogni dipinto è stato esposto con una cura cromatica delle pareti che richiama i toni dei capolavori: blu-grigio, ocra tenue e bianco sporco, in un gioco armonico di luci e ombre.

I visitatori vengono accompagnati in un percorso che alterna contemplazione ravvicinata e lettura critica, con pannelli informativi discreti e supporti multimediali che spiegano tecniche pittoriche, materiali, composizione e contesto storico. Questo approccio ha trasformato la visita in un’esperienza sensoriale e intellettuale, stimolando la riflessione sul ruolo della pittura come narrazione emotiva e sociale.

Vermeer, pittore della luce e dell’intimità, è celebre per la capacità di rappresentare la quotidianità con una precisione e una sensibilità rare. Nelle sue opere, la luce non è mai decorativa, ma strumento narrativo e psicologico: illumina i volti, mette in rilievo dettagli minimi, costruisce atmosfere sospese tra realtà e sogno.

Nei tre dipinti in mostra, la luce filtra attraverso finestre e tende, riflettendo sulle superfici e sui tessuti, creando uno spazio quasi teatrale in cui i gesti quotidiani acquistano un significato simbolico e poetico. La scrittura della lettera diventa così gesto emblematico, che parla di desiderio, di segreti e di relazioni sociali.

Le lettere nel Seicento olandese erano strumenti fondamentali di comunicazione personale, ma anche mezzi di controllo sociale, negoziazione di status e manifestazione di affetti. Vermeer, osservatore attento della vita domestica, inserisce questi oggetti in scene che rivelano codici culturali complessi.

Ogni elemento della composizione – il mobilio, i tessuti, i dettagli degli abiti, la posizione dei personaggi – è carico di significato e contribuisce a raccontare una storia più ampia. L’arte di Vermeer diventa quindi uno specchio della società, ma anche un ponte tra passato e presente, mostrando come le emozioni umane fondamentali rimangano immutate nel tempo.

La mostra ha avuto un grande impatto tra pubblico e critica. Visitatori da tutto il mondo hanno colto l’occasione per confrontarsi con la pittura olandese, in un contesto che coniuga rigore storico e sensibilità contemporanea. L’attenzione al dettaglio e la qualità dell’allestimento hanno contribuito a rendere ogni visita un’esperienza unica e personale.

Critici e studiosi hanno sottolineato come la Frick Collection, con questa esposizione, abbia riaffermato il proprio ruolo di istituzione culturale di riferimento, capace di dialogare con la storia dell’arte e con le sfide della contemporaneità.

Vermeer’s Love Letters non è solo una mostra, ma un viaggio nel tempo, nelle emozioni e nei gesti quotidiani che definiscono la vita umana. La riapertura della Frick Collection, con le sue gallerie rinnovate e la curatela raffinata, offre l’opportunità di riflettere sul valore della pittura come strumento di conoscenza, empatia e bellezza.

In un’epoca in cui la comunicazione avviene spesso in forma digitale e rapida, le lettere di Vermeer ricordano la profondità dei messaggi scritti, la lentezza della riflessione e la ricchezza delle relazioni umane. La Frick Collection, con questa esposizione, si conferma come luogo in cui il passato incontra il presente, e dove ogni visitatore può riscoprire la poesia nascosta nella quotidianità.


domenica 24 agosto 2025

Il problema dell’empatia di Edith Stein


C’è un’aura di intensità nella copertina di Il problema dell’empatia di Edith Stein: lo sfondo azzurro, tranquillo e sobrio, contrasta con il bianco e nero della fotografia centrale, quasi a suggerire la tensione tra ciò che appare e ciò che si nasconde. L’immagine della filosofa è di una semplicità disarmante, eppure lo sguardo interrogativo, il volto appoggiato al pugno in un gesto pensoso, parla di una mente in moto perpetuo, di una donna che non si accontenta di guardare il mondo, ma vuole penetrarlo fino alle sue fondamenta.

Il libro, edito da Studium e curato da Elio Costantini ed Erika Schulze Costantini, con una preziosa prefazione di Angela Ales Bello, è un’opera che si colloca al crocevia tra filosofia, fenomenologia e spiritualità. Non è un testo che si lascia addomesticare facilmente: le sue pagine chiedono al lettore non solo attenzione, ma anche partecipazione. È, in fondo, una riflessione sulla natura del vivere con gli altri, ma questa riflessione si innesta in un panorama concettuale tanto rigoroso quanto profondo.

Stein, che fu allieva del grande Edmund Husserl, porta avanti il pensiero fenomenologico spingendolo in territori inaspettati. L’empatia, per lei, non è semplicemente un sentimento o una capacità psicologica, ma un fenomeno complesso che sfugge a ogni semplificazione. È il ponte invisibile che ci permette di entrare in contatto con l’esperienza dell’altro senza annullare la sua alterità. È, in altre parole, un atto di apertura radicale, che ci chiama a uscire da noi stessi per accogliere l’altrui vissuto.

Nelle sue pagine, Stein scompone il concetto di empatia con precisione analitica, svelandone i diversi livelli: dalla percezione immediata delle emozioni altrui, fino alla comprensione più profonda del loro mondo interiore. Ma ciò che rende la sua analisi unica è la capacità di coniugare il rigore accademico con una sensibilità umana che emerge quasi di nascosto, tra le righe. Non si ha mai l’impressione di leggere un manuale freddo e distaccato: ogni concetto è impregnato di un senso del vissuto, di un’esperienza che Stein stessa ha attraversato e meditato.

La prefazione di Angela Ales Bello è un vero gioiello. Non solo introduce il lettore al contesto storico e filosofico dell’opera, ma mette in luce la rilevanza attuale del pensiero di Stein. In un mondo spesso frammentato, in cui l’individualismo sembra prevalere su ogni altra forma di relazione, l’empatia steiniana si presenta come un antidoto. Non una risposta semplice, ma una strada faticosa, che richiede coraggio e vulnerabilità.

Le pagine di Il problema dell’empatia si leggono come un invito a ripensare la nostra relazione con gli altri. Cosa significa davvero comprendere qualcuno? Possiamo mai dire di aver davvero condiviso il dolore, la gioia, l’esistenza di un altro essere umano? Stein non offre risposte definitive, ma illumina le domande con una luce nuova, che sfida e al tempo stesso consola.

È impossibile non riflettere anche sulla vita dell’autrice mentre si legge questo libro. Edith Stein non era solo una filosofa, ma anche una donna che ha attraversato le turbolenze del Novecento con una straordinaria coerenza interiore. Ebrea convertita al cattolicesimo, monaca carmelitana, martire ad Auschwitz: la sua biografia stessa è un esempio di empatia vissuta fino alle estreme conseguenze. E questa tensione verso l’altro, questa apertura al dolore e alla gioia altrui, pervade ogni pagina del suo scritto.

Chi prende in mano questo libro si troverà davanti a una sfida. Non è un testo per chi cerca risposte facili o consolazioni immediate. Ma per chi è disposto a immergersi in una riflessione profonda e trasformativa, Il problema dell’empatia può diventare una guida, un compagno di viaggio. È un libro che lascia il segno, non solo sulla mente, ma anche sul cuore.

sabato 23 agosto 2025

Esordire in letteratura: dai guardiani del canone all'anarchia digitale

Il paradosso dell'esistenza letteraria

"Ciò che nessuno sa quasi non esiste" (Nam quod nemo novit paene non fit), scrive Apuleio nelle Metamorfosi (X,3), condensando in una formula lapidaria uno dei paradossi più inquietanti della condizione culturale. È in quel quasi (paene) che si nasconde l'intero problema dell'esistenza letteraria: tra l'essere materiale di un libro e il suo essere culturale si apre un abisso che può essere colmato soltanto dall'incontro con la coscienza dei lettori. Un'opera può esistere fisicamente – stampata, rilegata, distribuita – ma rimanere culturalmente inesistente, sospesa in un limbo di potenzialità non realizzate.

Questa riflessione di Apuleio, nata in tutt'altro contesto, acquisisce una pregnanza particolare quando viene applicata al mondo contemporaneo dei libri. La letteratura vive di questo paradosso fondamentale: ha bisogno di essere conosciuta per esistere, ma per essere conosciuta ha bisogno di mediatori che la rendano visibile. Sono questi mediatori – critici, giornalisti, presentatori, influencer – a determinare il destino di un'opera, trasformandola da oggetto inerte a presenza viva nel panorama culturale.

Per comprendere la portata della trasformazione contemporanea, è necessario risalire ai meccanismi che regolavano la conoscenza letteraria nella prima metà del Novecento. Quando nel 1929 Alberto Moravia pubblicò "Gli indifferenti" – un romanzo destinato a diventare un classico della letteratura italiana –, l'ecosistema culturale funzionava secondo regole molto diverse da quelle attuali.

Il giovane Moravia, appena ventunenne, dovette ricorrere al finanziamento paterno per pubblicare il suo romanzo presso la piccola casa editrice milanese Alpes. L'opera esisteva materialmente, ma la sua esistenza culturale dipendeva quasi esclusivamente da un unico canale: l'elzeviro dei quotidiani. Questo spazio sacro – due colonne in terza pagina, rigorosamente a sinistra – rappresentava il principale, se non l'unico, meccanismo di legittimazione letteraria dell'epoca.

L'elzeviro incarnava un sistema aristocratico di mediazione culturale. Pochi critici autorevoli, depositari di un sapere specialistico e di un gusto raffinato, fungevano da guardiani del tempio letterario. Le loro recensioni avevano il potere di trasformare un libro da oggetto invenduto a fenomeno culturale. Era un sistema elitario ma coerente, fondato su criteri estetici presumibilmente elevati e su una concezione della letteratura come arte autonoma, indipendente dalle logiche di mercato.

Questo meccanismo di selezione e promozione culturale mantenne la sua egemonia per decenni, accompagnato soltanto dall'istituzione dei premi letterari, che tuttavia rappresentavano momenti eccezionali più che prassi quotidiana. La critica militante dei giornali costituiva l'ossatura portante del sistema culturale italiano, determinando non solo il successo o l'insuccesso delle singole opere, ma influenzando profondamente anche la produzione letteraria stessa.

La svolta arrivò negli anni Settanta del secolo scorso, in una domenica qualunque che avrebbe cambiato per sempre il rapporto tra letteratura e pubblico. Pippo Baudo, durante la sua trasmissione di intrattenimento domenicale, ebbe l'intuizione di presentare alcuni libri al suo vasto pubblico televisivo. Quella che poteva sembrare una scelta casuale si rivelò invece l'inizio di una trasformazione epocale.

La televisione portava con sé una logica completamente diversa da quella dell'elzeviro. Se il critico letterario si rivolgeva a un pubblico colto e specializzato, il presentatore televisivo doveva conquistare l'attenzione di una massa eterogenea, con livelli di istruzione e interessi molto diversificati. Il libro doveva adattarsi ai tempi televisivi, alle dinamiche dell'intervista, alla necessità di essere comunicato in pochi minuti attraverso un linguaggio accessibile.

Maurizio Costanzo consolidò questa tendenza, creando un format che sarebbe diventato il modello per le generazioni successive. La televisione non si limitava a recensire i libri: li trasformava in eventi mediatici, li inseriva nel flusso dell'intrattenimento, li rendeva parte del discorso pubblico quotidiano. Nasceva così una figura destinata a diventare sempre più centrale nel panorama culturale italiano: l'intellettuale televisivo, di cui Vittorio Sgarbi rappresenta forse l'esempio più estremo e paradigmatico.

Questa trasformazione comportò conseguenze profonde e contraddittorie. Da un lato, la democratizzazione dell'accesso alla cultura: milioni di telespettatori entravano in contatto con libri che altrimenti non avrebbero mai conosciuto. Dall'altro, l'asservimento della letteratura alle logiche dello spettacolo: l'opera doveva essere "televisiva", il suo autore doveva saper intrattenere, la complessità doveva essere ridotta a formule accattivanti.

Con il consolidarsi della televisione come medium culturale dominante, si assistette a una trasformazione qualitativa dell'offerta letteraria. Il masscult, per usare la terminologia di Dwight Macdonald, non si limitava più a consumare passivamente i prodotti dell'alta cultura, ma iniziava a determinarne attivamente le caratteristiche. Gli scrittori, consapevoli delle nuove dinamiche di promozione, cominciarono ad adattare il loro stile e i loro contenuti alle esigenze del nuovo medium.

Questo fenomeno si manifestò in diversi modi: la preferenza per narrazioni lineari e immediate, l'abbandono della sperimentazione formale più radicale, la ricerca di temi e situazioni capaci di generare dibattito televisivo. Non si trattava necessariamente di un abbassamento qualitativo tout court, ma certamente di una standardizzazione che privilegiava la comunicabilità immediata rispetto alla complessità espressiva.

L'editoria stessa si adeguò a queste nuove logiche. Le case editrici iniziarono a valutare i manoscritti non solo in base ai loro meriti letterari, ma anche alla loro "televisabilità". Nasceva la figura dell'ufficio stampa specializzato, si moltiplicavano le presentazioni pubbliche, si sviluppavano strategie di marketing sempre più sofisticate.

Parallelamente, si assistette alla moltiplicazione dei programmi dedicati ai libri. Dopo i pionieri degli anni Settanta, la televisione italiana si popolò di trasmissioni specializzate, da "Che tempo che fa" ai numerosi contenitori culturali che affollano il palinsesto. Tuttavia, molti di questi programmi finirono per trasformarsi in vetrine promozionali, perdendo la funzione critica che aveva caratterizzato l'elzeviro tradizionale.

L'avvento di Internet ha introdotto nel panorama culturale un elemento di apparente anarchia che sembrava promettere una liberazione dai vincoli dei media tradizionali. La rete offriva agli scrittori esordienti possibilità inedite: blog letterari, piattaforme di self-publishing, social network dedicati ai lettori, forum di discussione. Per la prima volta nella storia, un autore poteva teoricamente raggiungere il suo pubblico senza passare attraverso i filtri tradizionali dell'editoria e della critica.

Questa democratizzazione apparente nascondeva però nuove forme di mediazione, spesso più sottili e pervasive di quelle precedenti. Gli algoritmi dei motori di ricerca e dei social network iniziarono a determinare la visibilità dei contenuti secondo logiche opache e mutevoli. Nasceva la figura dell'influencer letterario, del bookblogger, del booktuber: nuovi mediatori culturali che operavano secondo parametri diversi da quelli della critica tradizionale.

Il fenomeno è particolarmente evidente su piattaforme come Instagram o TikTok, dove la letteratura deve adattarsi ai linguaggi visuali e alla brevità dei contenuti. I libri vengono promossi attraverso immagini accattivanti, citazioni ad effetto, recensioni di pochi secondi. Si sviluppa un nuovo ecosistema culturale che privilegia l'immediatezza e l'impatto emotivo rispetto alla riflessione critica approfondita.

Tuttavia, Internet mantiene anche spazi di resistenza e di approfondimento. Esistono blog e riviste online che continuano la tradizione dell'analisi critica rigorosa, comunità di lettori che discutono con competenza e passione, piattaforme che permettono la scoperta di autori e opere altrimenti destinate all'invisibilità.

L'attuale panorama culturale si caratterizza per la convivenza di sistemi di mediazione diversi e spesso contraddittori. L'elzeviro tradizionale sopravvive, seppur indebolito, accanto alla televisione commerciale e alla galassia digitale. Questa moltiplicazione dei canali di promozione culturale crea opportunità inedite per gli scrittori esordienti, ma genera anche una confusione che rende più difficile orientarsi nel mare magnum dell'offerta letteraria.

Il paradosso di Apuleio rimane attuale: un libro continua a "quasi non esistere" finché non viene intercettato dai meccanismi di visibilità contemporanei. Ma questi meccanismi sono diventati così numerosi e frammentati che il successo letterario sembra sempre più aleatorio, dipendente da fattori che spesso poco hanno a che fare con la qualità intrinseca dell'opera.

In questo contesto, il ruolo della critica specializzata acquisisce una nuova importanza. Non più unico guardiano del canone, il critico letterario può oggi fungere da orientamento in un panorama sempre più caotico, aiutando i lettori a distinguere tra la produzione di qualità e quella puramente commerciale.

La sfida per il futuro consiste nel riuscire a coniugare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie con la necessità di mantenere criteri qualitativi elevati. L'esordio letterario nell'era digitale richiede agli scrittori una consapevolezza nuova: devono imparare a navigare in un ecosistema mediale complesso senza perdere di vista l'autonomia e l'originalità della propria voce.

L'anarchia digitale, pur con tutti i suoi limiti, offre almeno una possibilità che i sistemi precedenti non garantivano: quella di sottrarsi ai meccanismi di controllo centralizzati e di cercare strade alternative per far esistere la propria opera nel mondo. In questo senso, Internet rappresenta davvero una speranza per tutti quei libri che altrimenti rischierebbero di rimanere intrappolati nel limbo dell'inesistenza culturale, vittime del paradosso apuleiano che continua a governare il destino della letteratura contemporanea.

Appropriazione, plagio e sperimentazione: Joyce, Burroughs e la provocazione di Lemaire


L’affermazione di Gérard-Georges Lemaire secondo cui William S. Burroughs e James Joyce sarebbero tra gli autori moderni più inclini al plagio è di per sé provocatoria, e come tale deve essere letta nel contesto della teoria letteraria e della critica radicale. Lemaire non intende avanzare un’accusa legale: il plagio qui non è sinonimo di illecito, ma di pratica di riuso radicale del testo altrui, tecnica che diventa forma di creazione autonoma. Questa affermazione, in apparenza scandalosa, pone una domanda centrale sulla modernità: che valore ha l’originalità se l’opera d’arte si nutre costantemente di ciò che già esiste? E cosa significa essere autore in un contesto dove la scrittura stessa è frammentaria, stratificata o casualmente combinata?

In entrambe le poetiche, appropriarsi di materiali preesistenti significa interrogare il concetto stesso di autorialità e la struttura della scrittura. Nel caso di Joyce, il riuso è cosciente, metodico, stratificato; nel caso di Burroughs, esso è radicale, anarchico, spesso casuale. Entrambi però, attraverso approcci diversi, spingono i confini della letteratura moderna, ridefinendo il rapporto tra autore, testo e lettore. L’obiettivo di questo saggio è esplorare come Joyce e Burroughs abbiano operato questa rivoluzione, analizzando il concetto di plagio e appropriazione, l’uso creativo di testi preesistenti e il quadro interpretativo proposto da Lemaire.

Il termine “plagio” evoca oggi una violazione del diritto d’autore, una sottrazione intenzionale di opere altrui spacciandole per proprie. Nella letteratura moderna, tuttavia, l’appropriazione di materiale esistente si configura spesso come un atto creativo, un gesto di trasmutazione del testo altrui in nuovo significante. La distinzione tra plagio, citazione, intertestualità e appropriazione è fondamentale: citare significa fare esplicito riferimento a un testo, spesso per stabilire una continuità culturale o accademica; l’intertestualità implica dialogo e stratificazione, la presenza consapevole di riferimenti che si moltiplicano e si intrecciano; l’appropriazione radicale consiste nel trasformare il materiale preesistente in un’esperienza estetica nuova, in un testo che vive autonomamente pur nascendo da altri testi.

Per la letteratura moderna, questa distinzione è cruciale: la rottura con la tradizione lineare e la concezione romantica dell’originalità come creazione ex nihilo impone una ridefinizione dell’autore. L’autore moderno non è più creatore assoluto di forme, ma mediatore, alchimista, tessitore di materiali preesistenti. Joyce e Burroughs incarnano questo paradigma, seppur con modalità diverse. In entrambi, il testo non è mai chiuso, statico o definitivo: è un campo di possibilità, un organismo in continuo mutamento.

La teoria letteraria contemporanea ha spesso discusso queste pratiche con termini differenti: Harold Bloom, con la sua teoria dell’ansia dell’influenza, vede l’autore moderno come un soggetto costantemente in tensione con i predecessori; Michel Foucault, in Che cos’è un autore?, introduce la funzione-autore come elemento di organizzazione del discorso più che come creatore assoluto. Entrambi i riferimenti aiutano a comprendere come il concetto di plagio possa essere riletto in chiave estetica, non legale.

James Joyce rappresenta il massimo esempio di intertestualità radicale. In Ulysses, l’autore intreccia fonti classiche, mitologiche, letterarie e storiche, creando un tessuto inestricabile di riferimenti. Ogni episodio dialoga con testi antichi, canzoni popolari, testi religiosi, racconti mitici e opere contemporanee. Per esempio, l’episodio "Telemachus" richiama apertamente l’Odissea di Omero, non come copia, ma come struttura narrativa che Joyce trasforma in una geografia urbana di Dublino, popolata da personaggi realistici e contemporanei. La costruzione narrativa di Joyce implica una trasformazione radicale dei modelli preesistenti, in modo che la loro funzione originaria venga rielaborata in chiave moderna, psicologica e linguistica.

In Finnegans Wake, Joyce porta la pratica dell’appropriazione a un livello ancora più estremo. Il linguaggio stesso è un tessuto di citazioni e fonemi tratti da lingue diverse, rielaborati per generare significati stratificati, spesso ambigui e polisemici. L’intera opera diventa una gigantesca rete di risonanze culturali, in cui ogni parola evoca e trasforma riferimenti precedenti. Ogni neologismo, ogni gioco fonetico è al tempo stesso originale e derivativo: Joyce “ricicla” il mondo, la lingua e la storia, e lo fa diventare un organismo vivente e mutante, dove la voce narrativa è multipla, stratificata e in dialogo continuo con la tradizione.

La tecnica joyciana è dunque un esempio perfetto di appropriazione consapevole: non esiste plagio in senso legale, poiché la trasformazione operata è completa, creativa, e produce un testo che vive autonomamente rispetto alle fonti. Joyce non copia per mera ripetizione: trasforma, stratifica, crea nuovi livelli di significato. In questo senso, l’appropriazione è strumento di invenzione linguistica e di indagine psicologica: la città, la storia, la mitologia e la lingua diventano materia narrativa da plasmare.

William S. Burroughs opera in un contesto radicalmente diverso, ma con principi analoghi: il riuso del materiale esistente diventa strumento creativo e politico. Il metodo del cut-up consiste nel tagliare testi (giornali, romanzi, pubblicità, corrispondenze) e ricombinarli secondo schemi spesso casuali, creando nuove strutture narrative e percorsi linguistici inaspettati. In Naked Lunch, i testi preesistenti non sono citati: sono trasformati, frammentati, ricombinati in modo che diventino indistinguibili dalla voce dell’autore.

Burroughs non cerca coerenza narrativa tradizionale: la frammentazione diventa linguaggio, significato e percezione. Il cut-up destabilizza la linearità, mette in discussione l’autorità dell’autore e la stabilità del testo, trasformando la scrittura in esperienza fisica e mentale per il lettore. Testi pubblicitari, articoli di giornale e romanzi vengono smembrati e ricomposti in sequenze che producono un effetto di straniamento radicale: ogni frase è potenzialmente nuova, pur nascendo da materiali preesistenti.

Questa pratica si colloca in una tradizione critica e filosofica che mette in discussione il concetto di proprietà del testo e l’autorialità. Burroughs esplicita spesso nelle sue interviste e nei saggi teorici come la scrittura debba liberarsi dalle regole convenzionali: il cut-up non è solo tecnica letteraria, ma gesto politico, atto di ribellione contro la logica del controllo sociale e del potere linguistico. In questo senso, il plagio diventa provocazione estetica: appropriarsi significa trasformare, creare caos fertile, destabilizzare e reinventare il linguaggio.

Gérard-Georges Lemaire, con la sua affermazione sul plagio, non intende condannare Joyce e Burroughs, ma evidenziare la radicalità della loro pratica di riappropriazione. Nei suoi scritti, come in Le Colloque de Tanger, Lemaire analizza la scrittura di Burroughs e Joyce come fenomeni di appropriazione, dove il testo preesistente diventa materia prima da modellare e trasformare.

Lemaire insiste sul fatto che, in entrambe le poetiche, l’autore si pone non come creatore ex nihilo, ma come operatore di trasformazioni, che manipola e reinventa il materiale altrui fino a renderlo irriducibile alla fonte originaria. In questa prospettiva, il plagio diventa concetto critico: è simbolo della modernità estrema, in cui il valore del testo non risiede più nell’originalità assoluta, ma nella capacità di trasformazione, reinterpretazione e rielaborazione.

Il critico francese mette in evidenza anche la dimensione etica e politica della scrittura: appropriarsi non è copiare, ma sottolineare l’idea che il testo appartiene alla comunità culturale e che l’autore moderno è co-creatore di una memoria collettiva, attraverso il filtro della propria sensibilità estetica.

Joyce e Burroughs condividono l’ossessione per la trasformazione del materiale preesistente, ma le differenze sono marcate. Joyce accumula, stratifica e costruisce un linguaggio complesso, polifonico e ricco di rimandi; Burroughs scompone, frantuma e riorganizza con casualità, generando un effetto di straniamento e destabilizzazione radicale. Joyce cita e rielabora con controllo, Burroughs taglia e rimonta con anarchia. Joyce ordina il mondo per renderlo comprensibile attraverso la complessità; Burroughs rompe il mondo per far emergere nuove possibilità linguistiche e percettive.

Eppure entrambi interrogano il concetto di autore e il valore della singola opera: il testo non è più un oggetto chiuso, ma campo di possibilità infinita, organismo vivo e mutevole. La provocazione di Lemaire ha senso perché pone questi due autori sullo stesso piano teorico: in entrambi, la questione non è il plagio legale, ma l’appropriazione come gesto creativo e radicale, capace di riscrivere il mondo attraverso il linguaggio.

L’uso di materiali preesistenti da parte di Joyce e Burroughs porta a riflettere su questioni fondamentali della modernità: l’originalità non consiste più in creazione ex nihilo, ma in trasformazione e reinterpretazione. L’autore non è più detentore di un messaggio stabile, ma intermediario tra la memoria culturale, la lingua e l’esperienza del lettore.

L’appropriazione radicale diventa principio estetico e filosofico: destabilizza, provoca e apre nuove possibilità di lettura. Joyce lo fa attraverso la stratificazione polifonica, Burroughs attraverso la frantumazione anarchica; entrambi mettono in crisi il concetto di testo chiuso e definitivo. Dal punto di vista culturale, questa pratica ridefinisce la nozione di comunità letteraria e di memoria collettiva: il testo diventa terreno di confronto, dialogo e metamorfosi.

La provocazione di Lemaire funziona anche come stimolo per riflettere sul ruolo del critico: il lavoro di analisi non consiste solo nel giudicare la forma o la moralità dell’autore, ma nel comprendere come il testo interagisca con la storia culturale, con le fonti e con i lettori, aprendo nuove prospettive interpretative.

L’affermazione di Gérard-Georges Lemaire, per quanto provocatoria, rivela un aspetto fondamentale della letteratura moderna: l’uso radicale di materiali preesistenti come strumento di innovazione. Joyce e Burroughs non plagiano in senso legale; trasformano ciò che esiste, interrogano la funzione dell’autore e il concetto di originalità, e creano testi in continua tensione tra memoria e invenzione.

Parlare di plagio, nel loro caso, significa riconoscere la forza rivoluzionaria della scrittura: una scrittura che sfida le convenzioni, ricompone il mondo e trasforma l’esperienza del lettore. Joyce e Burroughs insegnano che ogni testo è al tempo stesso riferimento e creazione, memoria e innovazione, appropriazione e invenzione. Lemaire coglie in questa pratica la radicalità della modernità: la scrittura non è mai neutra, ma gesto creativo che riscrive il mondo attraverso la lingua, l’intertestualità e il caos.

Il plagio diventa un atto estetico, politico e filosofico: non una colpa, ma una strategia di esplorazione del linguaggio e della percezione. Joyce e Burroughs, pur con modalità diverse, incarnano la tensione estrema della modernità: il testo non appartiene più solo all’autore, ma diventa spazio di trasformazione infinita, laboratorio di linguaggio e memoria, sfida continua alla tradizione e alla linearità narrativa.


mercoledì 20 agosto 2025

Protocollo di risposte. Manuale di sopravvivenza social


Quando l'Autore di turno ti fa sudare il mouse 

Succede anche ai migliori: hai appena pubblicato una recensione, ringrazi un autore per averla presa in considerazione e… puff! Arriva un secondo messaggio, puntuale come un caffè alle 11, con una domanda a cui non vuoi (o non puoi) rispondere. Cosa fai?

Ti agiti, inventi dettagli, rischi di sparare inesattezze… oppure applichi il Protocollo di risposte, il mio piccolo manuale di sopravvivenza social.


1️⃣ Ringrazia sempre per primo

Prima regola d’oro: un “Grazie, mi fa piacere” oppure "Grazie per avermi letto" chiudono la conversazione con eleganza, senza compromettere nulla. Non serve spiegare tutto, basta riconoscere l’attenzione.

2️⃣ Non sentirti obbligato a replicare

Se il secondo messaggio è scomodo, irrilevante o ti richiede dettagli che non ricordi, non rispondere. Il silenzio diventa un’arma: la conversazione è già chiusa.

3️⃣ Distrazione elegante

Postare qualcosa di nuovo, anche leggero, sposta l’attenzione in modo naturale. Un meme, una citazione, un pensiero improvviso: voilà, la tua rete sociale continua a scorrere senza imbarazzi.

4️⃣ Risposte evasive e neutre

Se proprio devi dire qualcosa, tienila generica:

  • “Ne conservo un bel ricordo, anche se non ricordo i dettagli.”
  • “Mi colpì molto all’epoca, resta tra i miei ricordi positivi.”
    In questo modo resti elegante e credibile.

5️⃣ Ironia misurata

Una battuta o un’emoji strategica valgono più di mille parole:

  • “Ah, ormai è tutto un ricordo sfocato 😎”
    Ironia leggera, senza mai scadere nella scortesia.

6️⃣ Salvaguarda la memoria e la reputazione

Non inventare dettagli o attribuzioni che non ricordi. Meglio restare vaghi e sinceri: i tuoi lettori (e l’autore) apprezzeranno la trasparenza.


In sintesi: sopravvivere con stile 

Il Protocollo di risposte non è solo un trucco da social: è filosofia di vita digitale. Alcune conversazioni vanno salutate con un sorriso, altre lasciate scivolare nel flusso. Così ti resta solo il piacere di aver gestito tutto senza impicci, senza falsità e senza dover ricordare frasi che il tempo ha già sfocato.

E se funziona… beh, l'Autore di turno può anche aspettare. 😏


La luce e l’ombra del tempo: visioni di "Otranto” di Roberto Cotroneo



Il romanzo Otranto di Roberto Cotroneo si presenta come un’esperienza narrativa che ambisce a superare i limiti della mera rappresentazione, per trasformarsi in un laboratorio di percezione, un esercizio sul rapporto fra immaginazione, tempo e luce. La sua natura non è quella di un semplice racconto di vicende, ma quella di un testo che cerca di dislocare la sensibilità del lettore, collocandolo in una zona di confine fra il reale e il visionario, fra la cronaca storica e l’eco del mito. Sin dalle prime pagine, infatti, emerge con chiarezza che il romanzo si fonda su due assi concettuali che ne determinano il tono e la struttura: la fascinazione per l’ora meridiana e per la luce intesa in senso metafisico.

L’ora meridiana è presentata come momento di sospensione: quando il sole è allo zenit, la vita sembra arrestarsi, il mondo è colpito da una luce implacabile che non produce solo chiarezza ma anche vertigine, una luce che, nella cultura mediterranea, è tradizionalmente associata ai démons du midi, figure ambigue, capaci di generare inquietudine e disorientamento. Accanto a questa percezione popolare e quasi antropologica, si colloca la seconda dimensione: la luce come categoria mistica, simbolo dell’incontro tra la speculazione filosofica araba e quella cristiana. Non è un caso che la Cattedrale di Otranto, con il suo rosone a sedici raggi, diventi un punto focale dell’intero romanzo: quell’architettura, che è già in sé un emblema di incontro di culture, viene interpretata come dispositivo simbolico, un’apertura verso un altrove in cui lo spirituale e il materiale si sovrappongono.

Su queste premesse concettuali si innesta l’elaborazione narrativa, che si articola attorno alla città di Otranto, trasfigurata da semplice località reale a vero e proprio organismo mitico. Le sue mura, le piazze bizantine e romaniche, il castello reso immortale dalla letteratura gotica di Walpole, diventano nel testo luoghi di un’esperienza estetica e psichica. Cotroneo sceglie deliberatamente di guardare questa città con occhi estranei: quelli della protagonista, una restauratrice proveniente dall’Olanda. Tale scelta ha un significato preciso: l’estraneità è ciò che permette di vedere, di cogliere la magia e la sospensione del tempo, là dove gli abitanti locali hanno ormai perso lo stupore, ciechi per consuetudine, incapaci di percepire la dimensione simbolica del proprio spazio quotidiano.

Il lavoro della protagonista sul mosaico della Cattedrale è molto più di un intervento tecnico: si configura come un atto di immersione nell’immaginario storico e spirituale della città. Il mosaico non è un semplice reperto del XII secolo, ma un oggetto enigmatico e stratificato, capace di contenere un intero sistema di segni. Basti pensare alla presenza, fra le sue figure, di un re Artù raffigurato con un gatto di Losanna a cavallo di un caprone: un’immagine sorprendente, quasi provocatoria, che destabilizza ogni tentativo di interpretazione univoca. È a partire da questa ambiguità iconografica che la protagonista inizia a percepire presenze che gli altri non vedono: fantasmi meridiani, eredità del massacro otrantino, presenze che non agiscono come minacce concrete, ma come epifanie perturbanti, figure liminali che testimoniano un passato non pacificato.

Questo incontro con l’invisibile non si esaurisce nella dimensione storica. Al contrario, esso si intreccia con la vicenda personale della protagonista, segnata dalla scomparsa della madre in mare presso un faro olandese. L’assenza della madre è una ferita mai cicatrizzata, un trauma che sembra riattivarsi proprio nell’ambiente otrantino, come se la città fosse in grado di amplificare le mancanze e di trasformarle in visioni. Non sorprende che il romanzo conduca progressivamente la protagonista verso un incontro impossibile: nel finale, la madre riappare in un ipogeo, vestita come il giorno della scomparsa, scalza, con una cicatrice al collo che ha la forma di una collana. Questa apparizione, che potrebbe sembrare un artificio di genere, assume invece un valore simbolico: rappresenta il punto in cui la memoria personale si congiunge con la memoria collettiva, e in cui la dimensione privata si apre a un destino più ampio, quello della città stessa, intesa come deposito di traumi e rivelazioni.

La struttura narrativa di Otranto riflette questa complessità. Da un lato, la voce in prima persona della restauratrice, che offre al lettore un accesso diretto ai suoi pensieri, alle sue percezioni, ai suoi turbamenti; dall’altro, un narratore onnisciente che interviene in chiusura di capitolo, ricomponendo frammenti, collegando eventi distanti, fornendo interpretazioni che la protagonista non può avere. Questa duplicità crea una costante tensione tra soggettività e oggettività, tra l’esperienza individuale e il disegno complessivo della storia, e produce un effetto di continua oscillazione, come se il romanzo stesso fosse un mosaico da ricostruire.

A livello stilistico, Cotroneo opera una scelta precisa: privilegia un linguaggio lirico, più vicino alla poesia in prosa che alla narrativa tradizionale. Le anafore, le ripetizioni, i ritmi rallentati, generano una sensazione di sospensione temporale, coerente con la tematica del tempo immobile. Due passaggi risultano emblematici: «Qui il tempo sembra non esserci e il mio orologio è l’unico appiglio mentre cammino lenta per una strada che passa in mezzo a un bosco di olivi. Il tempo qui è immobile, e ha una sua solidità. Il tempo qui è un monolite che rende gli orologi dei giocattoli inutili, buoni solo per farti sentire del ticchettio preciso» e «In queste righe cerco di cancellare il tempo: c’è soltanto luce, la luce di cui sono fatte le riflessioni che sto appuntando con rapidità; la luce che domina Otranto come un alchimista domina i propri elementi». In queste frasi si manifesta la cifra distintiva del romanzo: un discorso in cui il tempo viene sospeso e sostituito dalla luce come principio ordinatore dell’esperienza.

La città diventa quindi un personaggio, la luce un agente narrativo, il mosaico un simbolo dell’enigma del tempo. Tutto il romanzo si configura come una costruzione arabescata, dove l’elemento storico e quello visionario si intrecciano, producendo una narrazione che non mira alla linearità, ma alla stratificazione. Non sorprende, allora, che molte pagine possano essere lette autonomamente come esercizi di prosa poetica, quasi che la trama sia solo un pretesto per la creazione di un mondo di immagini.

Otranto si inserisce così in una linea di narrativa contemporanea che rifiuta la semplificazione realistica per cercare l’esperienza estetica e simbolica. È un testo che richiede un lettore disposto a rallentare, ad accettare la sospensione, ad abbandonare la necessità di una spiegazione univoca. In cambio, offre un viaggio nella percezione, una meditazione sul rapporto tra memoria e luogo, tra privato e collettivo, tra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile. Ed è proprio in questa tensione, fra critica e lirismo, che risiede la sua specifica originalità.