Che rovesciato s’ascoltasse il di fuori! Come se fosse fatto viso, violento. Ma poiché c’è, questa tua faccia, su cui venire, fino in fondo, così, in duplice enunciata orgasmica quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi. Tu dici. La fine dei tre giorni insieme. Diverso. Meno presente. Col membro che si solleva da solo.
È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Noi eravamo, e si vede che è così, qui, alle stoffe, per colmare ciò che non è stato. E dell’aria sussiste.
Qualcosa, i frammenti di sbieco, discosti da un riflesso.
È difficile, adesso, risalire. Quasi agitata, la mente. Era senza questo presente, lo scorrere del tempo che torna da uno scambio, s’interrompe. S’era interrotto. Ma ripiegava ogni volta e ogni volta una registrazione, non proprio ogni volta, c’era.
Non più precisi di così, ero io, restavo. Perché vengono. Questo è accumularsi, dilatarsi, mentre l’insieme di tutte le cose non vien detto qui. Lo trovo, oggi, sull’orlo coricato.
Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. E non io in quel numero. La torsione era dunque l’eco.
Istantaneamente profondità o meglio: la carne, quel salto che risponde quale era scritto. Come se il muro, là, non altro colore potesse ricevere, per cui: il sudore.
Così, il punto e gli occhi, una forma che copre e allora sorge la testa. Questo richiamo, la bocca di qualcuno al seme, l’episodio che non avrebbe reso il rosso, il cielo riflesso, strappato nel quadro, terroso, dalla parte giusta che è poi la stessa che indicano tutti.
Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo.
S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto.