sono malato,
in quello stato in cui l’uomo è ridotto a quello che è, ossia ridotto al nulla e alla disperazione. Ridotto alla disperazione, cioè all’arbitrario puro dell’essere, ove fosse salvata la capacità di agire. All’annientamento in caso diverso. Ho ragione di riconoscere nell’impossibilità di agire, nell’inerzia avanzante, qualcosa di molto peggiore del peccato di non scrivere più?
Ma bisogna andare ancora più in là e vedere nell’azione un irradiamento approssimativo. Che cosa me ne riserva l’analisi? Oltre un certo punto, un vuoto dove si diradano sempre più gli stessi atomi effimeri dell’energia. Una dissipazione illusoria.
Per questo ogni giudizio è fallace, ogni amore è personale. La verità è che l’esistenza è straordinariamente debole. Di qui la conclusione dell’estrema relatività delle morali, del fatto che la morale è – sempre – quella del vincitore, di chi grida più forte, quella che incide affermativamente un segno più volitivo sulla vaga materia del divenire.
Non scrivo quasi più. Le poche volte che mi accingo a riempire gli spazi bianchi di geroglifici, lo faccio con molta fatica e con un reale spreco di energie [delle quali avrei tanto bisogno, in questo periodo, per me stesso].
L’unica cosa che mi è rimasta è comporre equazioni: vere e proprie equazioni matematiche, con numeri immaginari..
Ritrovo Heidegger della mia giovanezza. Non dovrei farlo ma è un continuo ritorno, lo rileggo. Da qualche parte, riprendendo Holderlin, dice “ciò che rimane lo fondano i poeti”. Ma ciò che rimane è immondo, un ambito storico-culturale definito da un lessico, da una sintassi, da un complesso di regole per la distinzione tra vero e falso.. e basta?
Esisto a metà, e forse è giusto che sia così. Forse soltanto così riesco, fino a un certo punto, a durare.
Ma vorrei sapere: i volitivi, i dominatori, i sapienti hanno anch’essi i loro momenti di vuoto [quel senso dell’assoluto niente che riempie la mia vita di scrivente]? Dovrebbe essere così. Quanto li riempie è una specie di associazionismo, un non taglio, inversamente a quella presenza della quale di continuo mi svuoto.
La differenza di segno, positivo anziché negativo, consiste forse soltanto in questo: NON SI VERGOGNANO. Riescono, per lo più del tempo, a sostenere la commedia, l’insulsa commedia.
L’unica vera, sostanziale minaccia contro la loro presunta immortalità, mi pare questa: non riusciamo a sopportare troppa realtà.
Un caro saluto e grazie per la gentile attenzione che sempre mi concedete.
(18 gennaio 2016)
©gaiaitalia.com 2016 – diritti riservati, riproduzione vietata