Questa volta mi tirerò altre ire funeste, lamentii d’accatto senza giustificazione su un mio pensiero che può, sì, essere criticato, ma magari proviamo a dare spazio anche alle parole di altri senza dover per forza gridare allo “scandalo” o “questo non lo si deve scrivere, va contro ogni sano ragionamento”.
M’accorgo che, a volte, volte smuovo coscienze intorpidite da un benpensare comune anche in un àmbito che di comune ben poco dovrebbe avere. Sparerò alla crocerossa, come mi sento di fare, al solito, per smuovere le vostre coscienze assopite. Ma sarò breve. E indolore.
A Tondelli si deve riconoscere questo: ha indotto a riflettere su una scrittura che non disdegnasse di compromettersi con la contemporaneità. Anche se non lo si legge direttamente, Tondelli rimbomba in molti scrittori contemporanei che non sapranno mai a chi devono dire grazie o chi devono maledire.
Tutto questo anche se a me le sue ossessioni non dicevano nulla, si trattava di vere ossessioni, certo, di patimenti e dolore, di cose serie insomma, ma a me non producevano alcun effetto, non vedevo lo scandalo. Mi rendevo decisamente conto che quello che detestavo era Tondelli e tutto il post-tondelliano che aveva prodotto, un brulichio di vocette che a lui s’accodavano, ciò che non mi piaceva era tutta quella generazione di miei coetanei, in quegli anni, che si gettava a capofitto nella stessa etichetta, rimanendoci poi incastrati, arrivando ad alimentare false ossessioni pur di averne simili a quelle di Tondelli. Insopportabilmente. Imitazione.
Anche una stagione all’inferno come quella di un Tondelli può essere ricca di significato cristiano. Una chiave del sacro in Tondelli è legata proprio all’esperienza della sua omosessualità.
Vi dico che Tondelli non è un Penna, personaggio amato (a volte fino all’idolatria) dalla maggior parte dei suoi lettori, me compreso, e mai una bestemmia, uno squartamento, nei testi penniani, ma la potenza della parola di una sua poesia, quella sì, nella sua semplicità, disarmante, vale due romanzi di Tondelli. Scusate. L’ho scritto. E non è neppure un Pasolini, mentore intergenerazionale, presenza, faro, adorato e attaccato da molti, ma rispettato come un grande deve essere, anche quando all’antitesi, non concorde nel pensiero. E qui, sì, vero scandalo, di sé stesso e del suo corpo. Una esperienza ricchissima di significante.
Davvero certe vite, certe culture, certi personaggi sono un dono divino perché inimitabili; nessun altro sarà capace di raggiungere le loro verità, la testimonianza che travalica ogni sensazionalismo, ogni apparenza futura, ogni presenzialismo, ogni conoscenza di noi stessi e degli altri.
Ancora oggi, per molti, è difficile dimenticare Pier Vittorio Tondelli, come è difficile dimenticarsi di chi ha fatto cultura. Per caso era un omosessuale. Giacché non sempre cultura fa rima con omosessualità. Riprendere in mano un’opera di Tondelli è un esercizio quasi quotidiano che bisognerebbe ripetere, per ritrovare i corridoi di una sapienza dimenticata. Per molti. Amata oppure non condivisa.
E con questo spirito, tempo fa, ho ripreso in mano Camere separate di Pier Vittorio Tondelli, l’opera che, per certi versi, è stata segnata come il testamento spirituale dello scrittore di Correggio. Romanzo amatissimo dalla critica, racconta la vicenda straziante, in gran parte autobiografica, di Leo, scrittore di successo consumato dal dolore per la perdita del compagno, morto a venticinque anni in un ospedale di Monaco per una malattia incurabile, tempi di AIDS, occulte allusioni. Il testo offre in realtà l’occasione di immaginare quello che Tondelli sarebbe potuto diventare e non è stato, l’occasione per liberare la sua figura da appropriazioni postume e letture tendenziose e ideologiche, provenienti sia da sinistra che dal mondo cattolico, per restituirlo all’unico ambito a cui dovrebbe appartenere per diritto, quello della letteratura. Anche se, come annotò lui stesso, poco prima di morire, la letteratura non salva mai.
Sì perché da gran parte degli scrittori (e lettori) under 30 di oggi, l’autore di Pao Pao non è più sentito “vicino” (da tutti i punti di vista). Forse Tondelli è stato solo un cronista della sua epoca o ha lasciato qualcosa di importante ai giovani scrittori e lettori d’oggi?
Ho letto Pier Vittorio Tondelli molto presto, appena dopo l’uscita di Altri Libertini. Mi consigliò quel libro un amico che scriveva. Se ne faceva un gran parlare. Motivato a compiacere all’amico che, sinceramente, mi interessava molto, andai a comprarlo, non avendo la minima idea di cosa avrei trovato. Non restai affatto traumatizzato, né dal contenuto né dal fatto che proprio quell’amico mi indicasse un testo del genere. Venivo da esperienze ben più pesanti di quelle narrate e la cosa non mi faceva né caldo né freddo. Gli aspetti letterari, il linguaggio crudo e il paesaggio umano non erano troppo sofisticati per la mia sensibilità di allora, abituata a Rimbaud, Baudelaire, Genet, Pasolini, Burroughs. Quel libro, invece, si soffermava solo sulle questioni materiali, sulle parole forti e sulle crude descrizioni sessuali, che mi parvero niente affatto illecite rispetto alla mie normali fantasie anzi mi sembravano limitate all’ispirazione di qualche pornazzo di routine (in quegli anni andava molto Bo Summers… ops, toh, quasi omonimo… strambezze volute della vita). Non lo capii, proprio per niente. Non capii il chiasso intorno a quel testo. Lo scandalo che si andava urlando beceramente. Anche il secondo tentativo, Pao Pao, era il 1982, e la sua lettura fu per me una cosa del tutto usuale. Tutta quella omosessualità sbandierata ai quattro venti nemmeno cozzava con la mia praticata ortodossia omo. Stabilii che Tondelli non era per me, anche se parlava di cose che conoscevo bene, anche se era come me, anche se avrebbe, invece, probabilmente, meritato maggiore attenzione da parte mia. Ma, che dire, andò così. Non fu colpa mia. Solo con la raccolta di saggi, articoli e altro denominata Un weekend postmoderno, pubblicato nel 1990, mi pacificai con lo scrittore. Questa volta tutto filava per il verso giusto. Trovai in quel volume il cronista e testimone di un’epoca per me formativa e importantissima. E infatti è ancora adesso quello che preferisco.
Qualche anno fa comprai di nuovo Altri Libertini che avevo perso in qualche trasloco o prestato a chissà chi, perché volevo riaffrontare la famosa “pera”, probabilmente la parte che ne decretò il sequestro provvisorio alla sua comparsa in libreria. Ho avuto la conferma che, appunto, non ci avevo mai capito molto del perché di quel successo. La Giusy, la tizia che infilava l’ago con la dose di eroina direttamente nel membro di Bibo nelle latrine del Postoristoro, si rivelava ancora essere un uomo. Cioè, anche allora, quando lo lessi, avevo capito giusto. E allora? Capirai che scandalo! Nel racconto era sempre declinato al maschile quindi non ci si poteva sbagliare. Mi domandavo se lo scandalo fosse stato, allora, la Giusy o la spada nel cazzo: io non lo vedevo lo scandalo. Un po’ ci vedevo una mossetta pubblicitaria. Una furbata. Scusate. E così anche questo l’ho scritto.
Il 15 dicembre del 1991, nella casa dei suoi genitori, un appartamento a Correggio, dove era nato, moriva Pier Vittorio Tondelli, cantore di una generazione marcata dal disagio e dall’incomprensione, omosessuale disincantato e generoso, cupo e sempre più solitario. Un successo letterario. Un punto di riferimento per molti scrittori. Lo ricordo con affetto, lo conobbi pure nella sua simpatia assoluta, lo scrittore italiano, nell’era di Magic Johnson e in quel momento terribile dei tanti falcidiati dall’AIDS. Morto la sera di una domenica dopo che all’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, le fievoli speranze di una ripresa si erano dissolte come una candela che ha terminato il suo ossigeno.
Pier Vittorio Tondelli, autore da me amatodiato, mitizzato, spesso discusso, a lungo compianto, non sempre capito.
In qualche modo, dunque, l’eredità stonata di Tondelli si è persa? Quel che è rimasto, invece, di Tondelli, è qualcosa di ben più profondo. Almeno per me. Io, letterariamente parlando, sono sempre stato uno per nulla moderato. Chi mi conosce lo sa. Leggere su carta bestemmie e scopate forsennate non mi diceva proprio nulla, non mi produceva effetto o timore. Forse ero già vecchio allora, ma mi sembrava di scorgere qualcosa oltre alla superficie dei romanzi di Tondelli, una verità di cui valesse la pena parlare. E non se ne parlava. No. Era tutto finzione. Erano, per me, gli anni delle dark room a manetta, le saune lorde, di Milano alle 3 di notte alla Fossa, diventato fuorviato da tempo, vedevo le storie di Tondelli come ripartire dall’abbozzo, dal finto scandalo, insomma, mi sembrava che servisse una maggiore profondità. Una descrizione che in lui non leggevo. Un taglio che Pasolini, con il suo Petrolio, che nemmeno ancora era stato pubblicato, avrebbe insegnato e che non sarebbe neppure lontanamente stato accolto. Erano gli anni di David Leavitt, dell’orgoglio borghesuccio e itinerante per il Mondo gayo e sbrilluccicante. Questi viaggiavano, gente che se ne andava all’estero mentre la maggior parte di noi se ne stava in Italia e frequentava locali che si inventavano le prime realtà estreme.
Io, dunque, per buona parte della mia vita, Tondelli l’ho detestato. Lo detestavo per quello che aveva fatto alla mia generazione, perché l’aveva messa al muro, obbligata ad essere giovane e giovanilistica, un po’ americana. Cioè io che ero stile vecchia Europa anche nel fare sesso, un po’ teutonico. Che mi guardavo Fassbinder coi sottotitoli in italiano perché nemmeno era stato ancora doppiato e con le lacrime agli occhi. Mi venne, allora, il dubbio, leggendo Altri Libertini, che non era Tondelli ciò che detestavo. Ma la sua arietta da intellettualino che avrei incontrato, anni dopo, in alcuni avventori del Cocksucker (simpatico nome per simpatico localino leather che durò per pochi mesi a Milano, quando ancora frequentavo il gruppetto dei “cattivissimi” bikers). L’omosessualità di Tondelli non rappresentava quella di tanti di noi, forse più sguaiata, più libertina, desiderosa di mettersi in mostra per vincere le tante paure e accedere al riconoscimento. Pier era un mite, un ragazzo che amava raccontarsi attraverso i suoi libri, i suoi personaggi che danzavano come “pazze” nei suoi libri, celebrandone il divertimento. La scrittura era tutto per Tondelli e fece di tutto per glorificarla, metterla al servizio degli altri. Forse sapeva del poco tempo che gli rimaneva. O forse era insaziabile di quell’arte. Di quella voglia ne fece partecipi altri giovani. Nacque il progetto Under 25 organizzato da Transeuropa. Vennero fuori altre penne di giovani che meritavano la scrittura. E in una di quelle antologie programmate sarei dovuto comparire pure io. Ma avvenne il dramma.
Lui – il cantore di quegli anni Ottanta, l’apolitico, il viaggiatore infaticabile, il libertino, l’uomo con profonde, corrosive pulsioni religiose – rappresenta compiutamente la grande occasione perduta dalla narrativa italiana, la possibilità di rimanere al passo coi tempi e con la grandezza della sua tradizione novecentesca. Tondelli non è, come dicono ancora in molti, il precursore degli orrorifici Cannibali e della indicibile scena Pulp che si è sviluppata in Italia negli anni Novanta. Per mano di chi, ancora vorrei venisse detto. Tirarlo a forza dentro quella storia, così debole e marginale, significa peccare di superficialità, o peggio ancora attribuirgli la responsabilità del tracollo complessivo della recente, nostra, letteratura italiana. Tondelli, al contrario, ha tracciato una debole imbastitura, una quasi impossibilità concreta di rinnovamento dei nostri canoni letterari, come un presagio, alle impossibilità di una letteratura del futuro. Che, appunto, non c’è.
Cosa resta di Tondelli oggi? probabilmente è stato l’ultimo autore italiano che ha tentato di essere sensibilmente internazionale. Non tanto perché il suo nome sia particolarmente noto ed apprezzato all’estero, quanto perché la sua scrittura tentò di possederne il tono, il respiro, il tentativo, l’ambizione. Penso che fosse un terreno per raccontare ossessioni. Ma noi, oggi, non abbiamo più tempo di inventarci ossessioni, non avrebbe senso, perché ora ce le abbiamo sul serio, e sono più originali e potenti di quelle che prima ci inventavamo insieme con Tondelli e semplicemente perché sono vere. Le nostre sono parole che non necessitano di altre parole, se non del rimpianto. Siamo uomini di altro linguaggio, di tempi che speriamo non vengano replicati.
Tondelli è il narratore che mette in scena la superficie; consapevole che questa superficie è la nostra crosta, la crosta della contemporaneità, ma allo stesso tempo diventa anche sostanza. Lucidamente cosciente che, egli stesso, non poteva rappresentare nulla di diverso da ciò che scriveva. Preferiva quelle scritture che tentavano una mimesi con il parlato, che facevano ricorso allo slang giovanile. La mia ambizione è stata quella di introdurre una certa novità linguistica. Gli si deve riconoscere questo: ha indotto a riflettere su una scrittura che non disdegnasse di compromettersi con la contemporaneità, una scrittura che fosse ibridizzazione con altri linguaggi. In lui trovo, sì, i migliori segni grafici e la migliore musica degli anni Ottanta ma pure i relitti e la paccottiglia, quelle capigliature troppo gonfie e quegli accostamenti di colori che fanno sorridere. Ecco perché Tondelli è stato inghiottito dal suo tempo, e il lettore di oggi è respinto da una scrittura che trasuda tutto questo. È un bene che alcuni leggano Tondelli per una curiosità da revival, così come si ascolta un pezzo dei Pet Shop Boys! Tondelli trasmette l’urto di una discontinuità individuale, determina il disagio dell’apparenza, cui apparteneva, in molti lettori che non sapranno mai a chi devono dire grazie o chi devono maledire.
Le Opere di Pier Vittorio Tondelli sono pubblicate nei due volumi a cura di Fulvio Panzari.
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