piccola intro: Il Dialogo in Versi, questo, comincia poco dopo la prima crisi di coscienza che sempre dovrebbe attanagliare chi scrive [o presume], il mancamento dello sbrodolamento del proprio Io egotico [mio, miserrimo, d’altri, imperioso], ed è un affronto puro che influenza per sempre il produrre poetica, sia per contenuti, sia per forma, sia per lessico. Poesia non è essere altro che Poesia. Se stessa. L’inattuale attuale. Il mettere in atti. Attuare, appunto. Inutile cercarne il suono e il principio proprio, il punto di nascita è semmai il punto di morte, la fine, l’interruzione, lo stacco attivo col reale] perché non si tratta di travasi diretti dal reale, ma di interazioni inverse, invase, appunto, di una tale portata che davvero rende minima ogni purissima meraviglianza. E tutto questo nell’assenza di ciò che, ad oggi, parrebbe uno studiolo sistematico da sondaggio che compari semplicemente le due esperienze: reali/poetiche.
Per chi di Poesia s’occupa, il non dire, lo sappiamo ma ripetiamo, è legato alla realtà del dire stesso, interazione al contrario, non ufficiosità da scrittorucolo che cerca cassa di risonanza. Se scrivere è scrivere. Il resto è informazione da giornalista. Quando si è minimamente comprensibili, altrimenti nemmeno quello, solo sbrodolio da psicanalisi applicata alla scrittura. Non altro.
In questa sede, veloce per sua natura, ovviamente, non si può che avanzare una qualche povera ipotesi di suggestione, probablmente nemmeno raccolta da nessuno, che alla fin fine si concentrerà su come la comunicazione poetica del desiderio non si fermi all’interno della produzione del singolo poetare, ma sia prova di intertestualità. Di coniugazione, intima e non, col testo stesso.
pertanto: circoscrivere la ricerca della scrittura è come perdersi, per anni, nella conoscenza dell’inconosciuto, del primo accenno che mai s’abbandona e pare di non poco conto la precoce riflessione sulle parole quali idioletto privato. Una natura addizionale al contenuto, una dimensione privata [ripeto].
Le cose parlate, durante e dopo l’afasia, le cose dette e non dette, sono, saranno poche o tante, ma per viaggiare, per cambiare: mai. Le parole non cambieranno mai nulla.
tuttavia: le canzoncine mortali, i falsi maledettismi non eternati, che s’andranno a descrivere, arrivano a prendere la forma invissuta di una fintissima raccolta di blabla quasi pienamente intrecciabile a quelle parole parlate della vita vera.
I dialoghi sono diradati nel predominio della vocetta perniciosa dell’io-lirico, rivolto mai a un “tu” mai disvelato e incostantemente presente. Le voci assediano a monologo imperioso una confessione a cuore chiuso, eburneo, impenetrabile, che si interroga sul tempo presente, sui fatti, con l’ardore spento che si regge solo sulla gruccia dell’ “Io so”, credendosi Pasolini, forse.
Così chi, mai, ha onorato le spoglie del futuro, chi non è visionario o preveggente, resta solo e del futuro non ha nostalgia, ma nemmeno mai del passato, o del ricordo in una particolare ed eccentrica nostalgia del presente, dell’incipit, l’inizio ove avviene l’alternanza della vividezza della passione, indice di un rapporto col reale prima ancora che ogni altra cosa: non c’è mai una poesia in diretta, ma un ripensamento che procede per extravaganze e divergenze e dettagli feticistici interiorizzati.
Provate voi, miei pochi lettori, a spiegarlo a quegli scrittori che, scrivendo, scrivono per dire che stanno scrivendo un nuovo libro o che pubblicizzano una vecchia pubblicazione legandola ai fatti tragici di questo presente?
Io non li amo, questi scrittori, si sappia, sempre così presenti col loro esserci sempre e comunque.
(27 novembre 2015)
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