domenica 18 giugno 2023

l’autoritratto


Fabio Galli 04 Macchina da scrivere

 

Questa non è città d’assoluto riposo. È senza coscienza buona, fino all’urlo più alzato! La sua Piazza Ducale evoca vertigini, voragini e confonde la mente nel turbinio degli abitanti che la percorrono, con fisica audacia, nella circolarità della sua architettura, intessendo (e le parole, ora, non saranno quelle giuste, non di certo le migliori) preziose circostanze, incontri, incanti funesti. Negli occhi, disparizioni umane e apparse impreviste e liete.

Per chi, come me, nella propria irta solitudine, si misura con la Chiusa Verità – il Finito Giorno, ma non voglio più parlare, ora!, di quest’uscio maldormito, di questa uscita alla non vita -, quei portici, quelle volte piccolette e basse, non sono praticabili se non nella più appienata notte che assomma, a quelle colonne brunìte, il lividore solido e calmo, colmo d’eleganza e lamento e fuoco, delle prede in libertà: le fiere regali: le bestie molteplici: le fantasie pericolose sepolte nel buio: le nature stremate: speranze uniche e care.

In questa città – intanto voglio dire: essa, dormiente e piccolissima, per la mia inanimata mente, è pura assenza di festa -, sono nato il ventottesimo giorno del socondo mese dell’anno millenovecentosessantuno.

Nulla, nel pugno, in questa città. Proprio quando il pugno si apre: spavento, rapina, vuoto. E, visto il vuoto, scrittura. E scrivere, per me, è possibile soltanto con la disperazione nel cuore, nel frastuono (tumulto che non riconosco. Una voce e mille voci nella casa, in questo ‘cuore dunudato’ come la bottega di Bruno Schulz. Ed è qui, fra stami d’oro, una volta ancora, che il silenzio colpisce con l’impressione sconcertante della sofferenza: da qui le raccomandazioni ai giovani ma con giri di parole: “Attenti alla Natura!, alla Natura delle Cose!”), col dolore degli animali fanciulletti: è l’avvelenamento del proprio esistere – l’amore stesso!: pallido varco al foglio! – ed è cura, è responsabilità per ciò che si scrive.

Occorre farsi largo, fra le parole, ma non sono sicuro che scrivere voglia dire, anche, insinuarsi nella salvezza. Ripararsi. A volte una netta sensazione mi turba: non so ancora se tutto questo scrivere, questo scrivere per scrivere, valga solamente per me o sia anche per i rami, o le foglie, o i fiori, o gli uccelli o per le droghe dei cervelli (una palazzo lasciati dibattersi debolmente, il pensamento) o per la povertà umana oppure se corra più in alto, fin su al soffitto del cielo, fino alle volute mai udite proferire.

È importante, per me, che la scrittura abbia tutto questo valore, tutto questo movimento che si calma col canto. O non è.

Poi ci sono i tempi, le ore spese difronte al foglio bianco: una impotenza creativa che rasenta la follia, la sensazione che niente, d’ogni frase, sia nel posto che gli compete. Le emozioni che un rumore esterno svanisce e che una voce di casa, invece, richiama. La lampada accesa anche di giorno. La quiete parlata della notte. L’orrore. La convizione che a poco a poc, precisa, si viene matuarndo, con un senso di pena e di disfatta, che è sì necessario d’eliminare ogni scoria di socievolezza non meno che ogni consolazione, che la vera essenza della poesia vada ricercata più in là, davvero!, delle proprie cose, in quell’ineffabile limbo che del concreto suggerisce soltanto una nozione purificata o la vaga impressione che riusciamo a subirne: una stagione indistinta e senza limite: sonno ripreso.

Ed è, scrivere, destino mostruoso. Miseria. Quattro pareti. Questo va detto: ciò che culla il vincitore, non dovrebbe toccare chi scrive. Delle parole, l’ombra posa, ovunque obliqua, ogni desolazione: un nuovo senso delle apparenze: una nuova qualità.

Prima dei miei versi – gemma preziosa, mi si presentò la Verità troppo grande dei Padri – vennero i libri. Fra quelli, il primo libro che non rimproverava, come al solito, la mia selvatichezza ‘Una Stagione all’Inferno’: una rabbia loquace, il furore riguardante quelle figure d’ombre: un cuore barbaro, Arthur Rimbaud, col su terribilissimo passo. Atroce quale speranza di memoria.

È proprio di quel periodo l’inizio del mio discorso imprudente.

Ero come immerso in una serie di forze scatenate – imbarazzato, cominciavo a scrivere le mie prime cose, cose di poco conto – entro le quali la mia impotenza (parimenti alla mia agitazione) e l’impotenza delle parole che tentavo di depositare sul foglio, s’assommavano. Quelle mie parole, m’accorgevo, malamente mi proteggevano dalla notte e dal subdolo cambiamento che s’avveniva intorno a me: mi rendevo conto d’essere soltanto una presenza illusoria, vittima e dominatrice, a un tempo, della materia: affogato nella materialità assoluta.. voci, da quei libri, che venivano raccolte e filtrate, filtrate prima ancora d’essere raccolte: esse erano divenute una trappola, per me: solenne per il mio perfetto esilio. La ricostruzione d’un Mondo.

[questo testo fu pubblicato sul mensile di cultura poetica “Poesia” (Crocetti Editore), anno II, numero 3 , Marzo 1989]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(8 giugno 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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