sabato 15 luglio 2023

Melancholia di Paul Verlaine, il testo


Paul Verlaine

 

 

 

 

 

 

I Saggi d’altritempi, che valgon quanto questi,
credettero, ed è un punto ancor dei più contesti,
leggere in cielo di fortune come di disastri
e che ogni anima legata fosse ad uno degli astri.
(S’è molto riso, non pensando che sovente
il ridere è ridicolo quanto il ridente,
di questo spiego sul mistero notturno.)
Ora coloro che son nati sotto il segno di Saturno,
selvaggio pianeta, caro ai negromanti,
hanno, fra tutti, secondo scrittura d’anni avanti,
buona parte di sfortuna e buna parte di bile.
L’immaginazione, inquieta e vulnerabile,
viene a render nullo, in loro, lo sforzo di Ragione.
Nelle loro vene, il sangue, sottile come velena pozione,
simile a lava brucia, e raro, scorre e scolla,
anticando il loro triste Ideale che si crolla.
Così da soffrire hanno i Saturniani e in modi tali
morire, ammettendo che siano mortali,
il loro piano di vita, in ogni linea si designa
per la logica d’una Influenza maligna.

Rassegnazione

Da piccolo, andavo sognando Ko-Hinnor,
sontuosià persiana e papaple,
presenze eliogabale e sardanepale!

Il mio desìo creava sotto i tetti d’or,
tra i profumi, al suono di musiche,
harem senza fine, paradisèe fisiche!

Oggi, più calmo e non meno ardente,
ma sapendo la vita che ci fa piegare,
ho dovuto la mia bella follia refrenare,
rassegnandomi un bel niente.

Sia! Il grandioso scappa al mio dente,
ma, vergogna dell’amabile e vergogna del vile!
Odio per sempre la graziosa donna-monile,
la rima assonante e l’amico prudente.

Nevermore

Ricordo, ricordo, che vuoi da me? L’autunno
faceva volare il tordo attraverso l’aeraggio a-tono
e il sole dardava un raggio mono-tono
nel bosco ingiallendo ove il gelo  de-tono.

Noi eravamo da solo a sola e camminavamo sognando,
lei ed io, i capelli e i pensieri al vento lasciando.
A me, improvviso, il suo sguardo voltando:
“quale fu il tuo più bel dì?” con voce dorata parlando,

la sua voce dolce e sonora, timbro angelico e fresco.
Discretamente risposi con un sorriso di pesco,
e le sue mani bianche baciai devotamente.

Ah! i primi fiori quanto sono profumati
e come risuona d’echi dolcemente
il primo sì che esce dai labbri amati!

Dopo tre anni

Avendo spinta la porta stretta che barcolla,
ho passeggiato nel piccolo giardino
schiarito dolcemente dal sole del mattino,
paiettante d’un’umida scintilla ogni corolla.

Niente è cambiato. Ho tutto riveduto: l’umile riparamento
di selvatico viticcio con le sedie di giunco…
Il getto d’acqua fa sempre il suo argentino mormorio
e il vecchio pioppo il suo sempreterno lamento.

Le rose come sempre palpitano; sempre ripetenti,
i grandi gigli orgogliosi si muovono ai venti.
Ogni allodola che va e viene m’è già sembrata.

Egualmente ho ritrovato in piedi la Valléda
ove il gesso si scaglia alla via cominciata
gracile, fra l’odore insipido di reseda.

Voto

Ah! intimi colloqui! Le prime amate!
L’oro dei capelli, l’azzurro d’occhi, di carni il fiore
e poi, fra l’odore dei corpi giovani e d’amore,
la spontaneità di carezze timorate!

Sono assai lontane tutte queste allegrezze
e tutti questi candori! ahimè! tutto verso
la primavera di rammarico si fugge il nero inverno riverso
della mia noia, dei miei disgusti, delle mie tristezze!

Ora eccomi solo, taciturno e solo,
mesto e disperato, più freddo d’un avolo,
e simile ad un povero senza sorella nella sua orfanezza.

Oh la danna dall’amore caliente e carezzante,
dolce, pensierosa e bruna, e mai in mentale arretratezza,
e che talvolta vi bacia in fronte, come un infante!

Stanchezza

A batallas de amor campo de pluma.
Gongora

Dolcezza, dolcezza, dolcezza!
Placa un po’ questi febbrili trasporti, mia fascinante.
Pure al colmo del piacimento, vedi, l’amante,
della sorella deve avere la pacifica rilassatezza.

Sii languida, rendi la tua carezza sonnale,
ben eguali i tuoi sospiri e il tuo tranquillo guardare.
Già, la stretta gelosa e l’ossessivo spasmare
non valgono un lungo bacio, pur mentale!

Mi dici, mia bimba, nel tuo caro cuore d’oro,
la selvaggia passione dà dell’olifante il sonoro!…
lasciala suonare a suo piacere, l’affamata!

Poni la tua fronte sulla mia e nelle mie le tue mani
e promettimi che scorderai domani,
e piangiamo fino a che sarà giorno, o piccola infuocata!

Il mio sogno familiare

Sovente faccio questo sogno strano e penetrante
d’una donna sconosciuta, e che amo ricambiato,
e che non è mai la stessa ad ogni reincontrato
sogno ma neppure altra, e mi comprende e m’è amante.

Poiché ella mi capisce, il mio cuore, trasparente
soltanto per lei, eh già!, cessa d’essere tremore
per lei, della mia allibita fronte il sudore
lei sola sa rinfrescare, piangente.

È bruna, bionda o rossa? Io l’ignoro.
Il suo nome? Mi ricordo che è dolce e sonoro
come quello degli amati che la vita scaccia.

Pari a quello delle statue è il suo sguardo,
e, lontana e calma, grave, la sua voce abbraccia
morte voci nel pieno del riguardo.

A una donna

A voi questi versi per la grazia consolante
dei vostri grandi occhi dove ride e piange un grande sogno,
per l’anima vostra pura e buona, a voi – senza bisogno –,
questi versi dalla mia disperazione affondante.

Ahimè, l’incubo schifoso che mi bazzica braccante
non ha tregua e va furioso, folle, geloso,
si moltiplica quale coorte di lupi – manto peloso –
e si lega alla mia sorte sanguinante!

Oh! soffro, soffro orribilmente affronto
e il primo gemere del primo uomo cacciato dal Paradiso,
non è che un’egloga al mio in confronto!

E le premure che voi avete fanno buon viso
a rondini su di un cielo nel mezzogiorno passato
cara! – da un bel giorno di settembre dolciato.

L’angoscia

Natura, niente di te mi commuove, né gli spanti
campi, né l’eco vermiglia dei pastorali
siciliani, né le magne aurorali,
né la solennità dolente dei calanti.

Io rido dell’Arte, rido pure dell’Uomo, dei cantabili,
dei versi, dei templi greci e delle torri a spirali
che slanciano nel cielo vuoto le cattedrali,
e vedo con lo stesso occhio buono e non amabili.

Non credo in Dio, abiuro e rinnego,
ogni pensamento, e in quanto al vecchio diniego,
l’Amore, vorrei che non più se n’andasse a dire.

Tedio di vivere, avente paura di morire, eguale
al vascello perduto nel gioco del fluire e rifluire
l’anima mia salpa per naufragi nel male.

Di Paul Verlaine (Metz, 1844, – Parigi, 1896) uno dei massimi poeti della letteratura francese, ci piace di ricordare Poèmes saturniens (1886), Fétes galantes (1869), La  bonne chanson (1870), Romances sans parole (1874) e Sagesse (1881). In questa versione, a fatica, s’è tentato di ricostruire, non senza cedimenti, un certo linguaggio.

 

 

 

 

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