Non resta un’opera inconclusa. E non trova davvero seguito se non con la coesione progettuale. Davvero tutta la poesia è attestata già a livello paratestuale: dal titolo della raccolta, all’epigrafe, all’enumerazione progressiva dei versi stessi in poi. E l’orizzonte comunicativo appare, fin da subito, come evidentemente cambiato: l’attacco già, da sempre, ne rileva la prima imposizione di un io-lirico che infatti resta in soliloquio decisissimo.
Così torna l’obiettivo della fuga dalla precarietà della vita grazie all’ardore ancora ardente, che tuttavia non realizza una vera vita. La condizione stessa di un sedicente io-lirico è diversa da quella del Mondo, il quale resta sostanzialmente ignaro della transitorietà, e così si giustifica la voglia sanguinaria di tornare a svettare i pensieri sull’effimero intraprendendo di nuovo il viaggio del piacere.
I versi non appaiono profondamente coesi, ma vi è un procedere per strappi ragionativi e sillogistici, con domande talvolta esistenziali da autobiografia patetica. È come si mettesse un poco in ordine la mente, ripassando la parte della vita che maggiormente ci facilita, alternante all’invasione intermittente del corpo, con memorie o con ruvido materialismo del presente.
Il grande quesito inevaso è se l’amore per la scrittura possa qualcosa contro la solitudine della morte. L’una o l’altra, che differenza fa se poi s’ha da sentirsi sempre soli? Soli con la propria deprecabilità. Non più s’apre la strofa, non c’è più il referente diretto e l’io-lirico non ha più interlocutori, medita sulla sua medesima favola d’amore terminata almeno razionalmente, mentre perdura l’emozione.
Non a caso l’uomo è fuori dalla porta della scrittura poetica, estromesso dai pensieri ragionativi, e non interloquisce, ma interrompe semplicemente il flusso di coscienza poetico, che riprende faticosamente con sequenze sulla prossimità dell’oblio. Come se stramazzasse giù nei propri inizi. Solo con se stesso. La riflessione lungo le vie inconoscibili e impervie della mente è più rischiosa del serraglio di assonnate lascivie entro cui tornare. È come un amplesso, lì si focalizzano i postumi dell’amore, gli umori rappresi e i tremiti passati, in piena coerenza con il desiderio vitalistico.
Da qui il desiderio rabbioso di condividere tutto, non solo il sentimento o il sesso. La metafora, porto sicuro, anche e soprattutto in previsione della morte della parola stessa, al limite del torpiloquio, della pornolalia e scavare nel proprio cuore di merda con la vanga e col piccone. Murare il sentimento, non desiderare più il vuoto dell’assente: l’unico conforto rimasto è nelle parole. Nuovamente, un richiamo bestemmiante che interviene a sabotare tutte le ispirazioni della poesia colta dal furore, l’io-lirico maledice l’uomo, in un violento climax di predicati che invitano alla sparizione. Per sempre.
Tuttavia, poi, l’ira si placa, si immagina cosa dire prima all’amante e poi si parcellizzano i messaggi al proprio cuore, al proprio corpo malato, con l’invito ad accontentarsi di quel che resta e alla propria mente. Si scivola quindi al ricordo di esperienze passate e alla riflessione su di sé, sfuggendo sempre al presente frustrante, fino a un’abbozzata idea di suicidio della scrittura, poi ritrattata, poi ridata, ritrattatta nuovamente.. all’infinito per un singolare e atavico attaccamento alla vita. Solo da ultimo, torna il pensiero, definito un estraneo, in attesa di risposte impossibili e di un piccolo scritto tranquillante (che può rimandare al corpo contratto, astratto, ma anche alla distensione dello stesso, alludendo quindi alla funzione placebo del sentimento).
Il rientro è salutato dal poeta che, ancora una volta, ha il compito di chiudere. Tornano l’offerta e il verbo volitivo che è perfettamente conscio della precarietà della vita e dell’approssimarsi della morte. L’uomo non fa niente per sottrarsi al destino, se non ingannare l’attesa condividendo piccoli e grandi piaceri.
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