lunedì 15 aprile 2024

quando vado uguale alla massa

quando vado eguale alla massa
- senza dividersi, poi, è
un'acrobazia depositaria,
un sospeso ove càpita la civiltà
del ragazzino-farfalla mai esposto -,
sul suo viso di terra, senza
vedere, poso queste parole

quella grande Vestita d'Azzurro,
la sua natura di pietre d'olio

sensibilità nervosa
e render forte, meno triste, penultimo
dell'acqua marina amato

"rifategli eco, è come
venire, riversarsi così,
nel nulla: tornate,
rifategli eco!"

è per me, di tutta questa
dolcezza, la realtà,
il padrone condannato

[Fabio Galli, Caròla, Crocetti Editore 1991, collana Aryballos 28]

venerdì 12 aprile 2024

che rovesciato s'ascoltasse

Che rovesciato s’ascoltasse il di fuori! Come se fosse fatto viso, violento. Ma poiché c’è, questa tua faccia, su cui venire, fino in fondo, così, in duplice enunciata orgasmica quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi. Tu dici. La fine dei tre giorni insieme. Diverso. Meno presente. Col membro che si solleva da solo.

È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Noi eravamo, e si vede che è così, qui, alle stoffe, per colmare ciò che non è stato. E dell’aria sussiste.

Qualcosa, i frammenti di sbieco, discosti da un riflesso.

È difficile, adesso, risalire. Quasi agitata, la mente. Era senza questo presente, lo scorrere del tempo che torna da uno scambio, s’interrompe. S’era interrotto. Ma ripiegava ogni volta e ogni volta una registrazione, non proprio ogni volta, c’era.

Non più precisi di così, ero io, restavo. Perché vengono. Questo è accumularsi, dilatarsi, mentre l’insieme di tutte le cose non vien detto qui. Lo trovo, oggi, sull’orlo coricato.

Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. E non io in quel numero. La torsione era dunque l’eco.

Istantaneamente profondità o meglio: la carne, quel salto che risponde quale era scritto. Come se il muro, là, non altro colore potesse ricevere, per cui: il sudore.

Così, il punto e gli occhi, una forma che copre e allora sorge la testa. Questo richiamo, la bocca di qualcuno al seme, l’episodio che non avrebbe reso il rosso, il cielo riflesso, strappato nel quadro, terroso, dalla parte giusta che è poi la stessa che indicano tutti.

Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo.

S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto.

[Minime Anime: Qualcuno mi ha chiesto di poterlo leggere, quel testo. Pochi, invero, ma si sa che a me basta così.

La stesura originale apparve, per diretto interessamento di Ubaldo Giacomucci, nella rivista "Tracce, trimestrale di scrittura multimediale", anno V, Luglio/Agosto 1986. Qui se ne presenta una versione con non poche variazioni perché il tempo è passato ed è giusto così.]

mercoledì 10 aprile 2024

nella storia e nella memoria


nella Storia e nella Memoria
per imporre questi bambini alla scoria

seminudi - a notare le eterne anche sfiancate
non si direbbe: le giustizie ai begli umori date -

con la stessa monumentale crudeltà, l'affronto
del desiderio!, l'intiero apportato sconto

appare in un'età remota - a ben badare! -
assai prestamente schiatta nei tormenti finché,
nell'affido paesi del mal tono stellare
della luna quel suo lieto paese (senza perché),

può durare lo spasimo né agitato
né tranquillo, al furibondo NO portato:
fino a trovarne uniti i muri dal bianco
colore della sazietà fin fino allo stanco 

- Fabio Galli "prima, nella Storia, ancora", con una incisione di Renzo Galardini, a cura di Fabrizio Mugnaini, Bandecchi&Vivaldi Editori, nel giorno del mio compleanno del 1995

lunedì 8 aprile 2024

minime anime


Che rovesciato s’ascoltasse il di fuori! Come se fosse fatto viso, violento. Ma poiché c’è, questa tua faccia, su cui venire, fino in fondo, così, in duplice enunciata orgasmica quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi. Tu dici. La fine dei tre giorni insieme. Diverso. Meno presente. Col membro che si solleva da solo.

È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Noi eravamo, e si vede che è così, qui, alle stoffe, per colmare ciò che non è stato. E dell’aria sussiste.

Qualcosa, i frammenti di sbieco, discosti da un riflesso.

È difficile, adesso, risalire. Quasi agitata, la mente. Era senza questo presente, lo scorrere del tempo che torna da uno scambio, s’interrompe. S’era interrotto. Ma ripiegava ogni volta e ogni volta una registrazione, non proprio ogni volta, c’era.

Non più precisi di così, ero io, restavo. Perché vengono. Questo è accumularsi, dilatarsi, mentre l’insieme di tutte le cose non vien detto qui. Lo trovo, oggi, sull’orlo coricato.

Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. E non io in quel numero. La torsione era dunque l’eco.

Istantaneamente profondità o meglio: la carne, quel salto che risponde quale era scritto. Come se il muro, là, non altro colore potesse ricevere, per cui: il sudore.

Così, il punto e gli occhi, una forma che copre e allora sorge la testa. Questo richiamo, la bocca di qualcuno al seme, l’episodio che non avrebbe reso il rosso, il cielo riflesso, strappato nel quadro, terroso, dalla parte giusta che è poi la stessa che indicano tutti.

Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo.

S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto.

[Minime Anime: Qualcuno mi ha chiesto di poterlo leggere, quel testo. Pochi, invero, ma si sa che a me basta così.

La stesura originale apparve, per diretto interessamento di Ubaldo Giacomucci, nella rivista "Tracce, trimestrale di scrittura multimediale", anno V, Luglio/Agosto 1986. Qui se ne presenta una versione con non poche variazioni perché il tempo è passato ed è giusto così.]

venerdì 5 aprile 2024

minime anime


Che rovesciato s’ascoltasse il di fuori! Come se fosse fatto viso, violento. Ma poiché c’è, questa tua faccia, su cui venire, fino in fondo, così, in duplice enunciata orgasmica quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi. Tu dici. La fine dei tre giorni insieme. Diverso. Meno presente. Col membro che si solleva da solo.

È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Noi eravamo, e si vede che è così, qui, alle stoffe, per colmare ciò che non è stato. E dell’aria sussiste.

Qualcosa, i frammenti di sbieco, discosti da un riflesso.

È difficile, adesso, risalire. Quasi agitata, la mente. Era senza questo presente, lo scorrere del tempo che torna da uno scambio, s’interrompe. S’era interrotto. Ma ripiegava ogni volta e ogni volta una registrazione, non proprio ogni volta, c’era.

Non più precisi di così, ero io, restavo. Perché vengono. Questo è accumularsi, dilatarsi, mentre l’insieme di tutte le cose non vien detto qui. Lo trovo, oggi, sull’orlo coricato.

Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. E non io in quel numero. La torsione era dunque l’eco.

Istantaneamente profondità o meglio: la carne, quel salto che risponde quale era scritto. Come se il muro, là, non altro colore potesse ricevere, per cui: il sudore.

Così, il punto e gli occhi, una forma che copre e allora sorge la testa. Questo richiamo, la bocca di qualcuno al seme, l’episodio che non avrebbe reso il rosso, il cielo riflesso, strappato nel quadro, terroso, dalla parte giusta che è poi la stessa che indicano tutti.

Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo.

S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto.

[Minime Anime: Qualcuno mi ha chiesto di poterlo leggere, quel testo. Pochi, invero, ma si sa che a me basta così.

La stesura originale apparve, per diretto interessamento di Ubaldo Giacomucci, nella rivista "Tracce, trimestrale di scrittura multimediale", anno V, Luglio/Agosto 1986. Qui se ne presenta una versione con non poche variazioni perché il tempo è passato ed è giusto così.]

giovedì 4 aprile 2024

tornare a svettare i pensieri sull'effimero

Non resta un’opera inconclusa. E non trova davvero seguito se non con la coesione progettuale. Davvero tutta la poesia è attestata già a livello paratestuale: dal titolo della raccolta, all’epigrafe, all’enumerazione progressiva dei versi stessi in poi. E l’orizzonte comunicativo appare, fin da subito, come evidentemente cambiato: l’attacco già, da sempre, ne rileva la prima imposizione di un io-lirico che infatti resta in soliloquio decisissimo.

Così torna l’obiettivo della fuga dalla precarietà della vita grazie all’ardore ancora ardente, che tuttavia non realizza una vera vita. La condizione stessa di un sedicente io-lirico è diversa da quella del Mondo, il quale resta sostanzialmente ignaro della transitorietà, e così si giustifica la voglia sanguinaria di tornare a svettare i pensieri sull’effimero intraprendendo di nuovo il viaggio del piacere.

I versi non appaiono profondamente coesi, ma vi è un procedere per strappi ragionativi e sillogistici, con domande talvolta esistenziali da autobiografia patetica. È come si mettesse un poco in ordine la mente, ripassando la parte della vita che maggiormenete ci facilita, alternante all’invasione intermittente del corpo, con memorie o con ruvido materialismo del presente.

Il grande quesito inevaso è se l’amore per la scrittura possa qualcosa contro la solitudine della morte. L’una o l’altra, che differenza fa se poi s’ha da sentirsi sempre soli? Soli con la propria deprecabilità. Non più s’apre la strofa, non c’è più il referente diretto e l’io-lirico non ha più interlocutori, medita sulla sua medesima favola d’amore terminata almeno razionalmente, mentre perdura l’emozione.

Non a caso l’uomo è fuori dalla porta della scrittura poetica, estromesso dai pensieri ragionativi, e non interloquisce, ma interrompe semplicemente il flusso di coscienza poetico, che riprende faticosamente  con sequenze sulla prossimità dell’oblio. Come se stramazzasse giù nei propri inizi. Solo con se stesso. La riflessione lungo le vie inconoscibili e impervie della mente è più rischiosa del serraglio di assonnate lascivie entro cui tornare. È come un amplesso, lì si focalizzano i postumi dell’amore, gli umori rappresi e i tremiti passati, in piena coerenza con il desiderio vitalistico.

Da qui il desiderio rabbioso di condividere tutto, non solo il sentimento o il sesso. La metafora, porto sicuro, anche e soprattutto in previsione della morte della parola stessa, al limite del torpiloquio, della pornolalia e scavare nel proprio cuore di merda con la vanga e col piccone. Murare il sentimento, non desiderare più il vuoto dell’assente: l’unico conforto rimasto è nelle parole. Nuovamente, un richiamo bestemmiante che interviene a sabotare tutte le ispirazioni della poesia colta dal furore, l’io-lirico maledice l’uomo, in un violento climax di predicati che invitano alla sparizione. Per sempre.

Tuttavia, poi, l’ira si placa, si immagina cosa dire prima all’amante e poi si parcellizzano i messaggi al proprio cuore, al proprio corpo malato, con l’invito ad accontentarsi di quel che resta e alla propria mente. Si scivola quindi al ricordo di esperienze passate e alla riflessione su di sé, sfuggendo sempre al presente frustrante, fino a un’abbozzata idea di suicidio della scrittura, poi ritrattata, poi ridata, ritrattatta nuovamente.. all’infinito per un singolare e atavico attaccamento alla vita. Solo da ultimo, torna il pensiero, definito un estraneo, in attesa di risposte impossibili e di un piccolo scritto tranquillante (che può rimandare al corpo contratto, astratto, ma anche alla distensione dello stesso, alludendo quindi alla funzione placebo del sentimento).

Il rientro è salutato dal poeta che, ancora una volta, ha il compito di chiudere. Tornano l’offerta e il verbo volitivo che è perfettamente conscio della precarietà della vita e dell’approssimarsi della morte. L’uomo non fa niente per sottrarsi al destino, se non ingannare l’attesa condividendo piccoli e grandi piaceri.

https://cultura.gaiaitalia.com/2016/11/bo-summers-tornare-a-svettare-i-pensieri-sulleffimero/

martedì 2 aprile 2024

egregio signore

Egregio Signore,

che Lei non abbia ancora avuto modo di leggere i due lavori che, premurosamente, Le ho inviato (Minime Anime e, in seguito, in maniera più timorosa, Mio del suono che allora trascrissi, nella lettera d’accompagnamento, Del mio suono. E neppure corressi, chissà perché)?

Non ho da Lei, che così tempestivamente mi ebbe a rispondere per El Fistolo de l’Inferno (che prontamente pubblicò su quel numero di “Alfabeta” in mezzo ad altre voci di nuovi poeti) ricevuto alcun segnale.

Sono forse, queste mie, chimere che ammaliano (che, comunque, mi turbano) e non credo, in nessun modo, siano inferiori a quel mio primo da Lei letto e accettato.

Pongo ogni cosa sul conto, sul mio conto personale e da questo tutto deduco: che i miei scritti non abbiano una realtà letteraria? Non più? Ne ho paura (è così semplice illudersi)!

Un rapporto esiste fra questi scritti, anche se non sempre evidente: giungono tutti al mio stesso arrivo.

Parliamoci francamente, gentile Signore: io so che esistono dei legami che non dipendono dalle nostre volontà. Polsi legati da una catena che unisce due manette strette da una amicizia profondamente particolare: ferrea.

Certo, non costruisco in mezzo a calme acque ma mi congiungo al continente attraverso tempeste. Altri non hanno tali riguardi e non si trovano in questi stati di estrema inquietezza (il mio alloggio).

Forse quelle mie parole sono troppo “forti” (per quello che dicono) e “incomprensibili” (per come parlano).

Ma non mi pare sia questo il vero problema.

Non ho, è vero, forme tondeggianti, lisce ma credo si tratti proprio d’un metallo lucente (acciaio?) che si rivolta, si contorce e produce dolore, in verità.

Non me ne voglia, cortese Signore, per questa mia non punita domanda. Ma io devo sapere, fino in fondo, di questa mia impresa.

Vengo ora a questo mio breve poemetto che le allego: precisamente, oro. Il motivo principe di questa mia missiva. Lo annuncio come la nascita di un nuovo figlio (con un bel fiocco colorato appeso fuori dalla porta. Posso usare queste parole non mie come avviso?):

“.. ho cercato qualcos’altro: un andare a capo ancora più lontano dal senso – dal senso inerente a due versi separati e da quello orchestrale che ne illumina la separazione – ho cercato cioè una rottura della frase che fosse obbligata ma non innalzabile dalla frese stessa né dalla totalità delle frasi. Che fosse innalzabile da una specie di dettatura, la quale imponeva di spezzare la frase senza spiegazioni e di amare questa spaccatura in una visione totale della poesia, non di quella poesia: ?totale? Qui inteso come l’insieme di ciò che preesiste – una poetica – e di ciò che incombe, un brancolamento che si farà poetica. (Milo De Angelis)”

Vado scoprendo, quasi a giustificare me stesso, le parole di altri? Quale potenza invocare per dare corpo, nuovamente? Poiché io sarò al centro di ogni tristezza disperata fino a quando non mi sarà detto.

prosegue qui ➡ https://cultura.gaiaitalia.com/2015/11/bo-summers-scrivere-come-dio-minime-anime-mio-del-suono-el-fistolo-de-linferno-e-altre-chincaglie/

di una lettera di The Waste Land


DI UNA LETTURA DI "THE WASTE LAND" di T.S. ELIOT

[questo testo è stato pubblicato su "Post scriptum" quadrimestrale di critica letteraria, ricerca culturale e recensioni, supplemento a "Tracce" n° 25, aprile 1988]

 ____________

Prima di iniziare ad addentrarmi nel territorio narrativo di The Waste Land di T.S. Eliot, un territorio desertico, desolato e terribile, ma appunto per questo percorribile in una sorta di mappa provvisoria ed incompleta, risulta necessario porre, innanzitutto, alcuni chiarimenti.

C’è, in ogni approdo al testo scritto, una specie di superamento, di scavalcamento rispetto al testo stesso. “La lettura di un testo è una attività critica, una interpretazione, una analisi, e cioè un lavoro sul corpo materiale della rappresentazione. Questa pratica deve recuperare e produrre significativamente ciò che è stato rimosso: la forza pulsionale, la situazione affettiva, il lavoro, l’intreccio ideologico, il processo di censura e di distorsione che sono alla base dell’opera, che hanno negato e al contempo raffigurato questi contenuti. L’analisi non è però il disoccultamento di una verità nascosta”. (cit. Franco Rella, Ipotesi per una descrizione di una battaglia Feltrinelli 1977)

Mi sono avvicinato al testo di Eliot dopo essermi convinto che si tratta (fra le altre cose già lette a proposito di questo scritto) di affrontare questo luogo (Land) come un territorio da attraversare, camminabile in senso letterale. Mi sono chiesto in che modo i personaggi si muovono all’interno di The Waste Land, come è possibile ritrovarli ovunque senza che abbiano uno spostamento. I personaggi di Eliot sono ovunque, debordano addirittura dalla stessa Waste Land.

“È mia opinione che anche per Eliot, come per Yeats, non sia particolarmente necessario (anzi, credo sia errato) analizzare poesia per poesia come se si trattasse di oggetti autonomi, o adotare un principio che segua l’ordine stabilito dal poeta. La mia prima impressione, leggendo Eliot, è sempre stata di una unità chiusa nel complesso di una raccolta, non di una sequenza di poesie ma di una sola poesia, nella quale le varie parti rappresentano momenti diversi ma inspiegabili al di fuori del contesto generale”. (cit. Roberto Sanesi, in Poesie di T.S. Eliot, Bompiani 1985)

"Aprile è il mese più crudele, genera
Lillà da terra morta,…
… risvegliando
Le radici sopite…
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
L’estate ci sorprese"

I personaggi che abitano The Waste Land mi sembra che, più che dell’atto di superare, subiscano una sorta di stasi; anzi direi che mirano allo stare:

"C’è solo ombra sotto questa roccia rossa,
(Venite all’ombra di questa roccia rossa)"

Sembra proprio che il luogo (topos), e dunque la scrittura stessa che lo circoscrive, lo trascrive e simbolicamente lo delimita, sia il problema di questi personaggi.

"Dall’ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi
     passi, o dall’ombra
Vostra che a sera incontro a voi si leva"

Oltre ai personaggi esiste il vuoto (spazio di relazione tra i personaggi) cioè lo spazio in cui i personaggi si muovono e che rende possibile il movimento stesso.

Ora: abbiamo due elementi distinti che sono i personaggi e le loro ombre. Dunque un corpo materiale con una sua propria densità e la sua ombra. Il salto, il ribaltamento è proprio il fatto che sia l’ombra (l’ombra, figlia dello spazio, azzeramento assoluto rispetto alla materia-personaggio e quindi intangibile, cfr Medardo Rosso) a seguire, l’ombra a venire incontro e, dunque, lo spazio a muoversi rispetto ai personaggi. Non viceversa.

Mi confermo con Eliot:
 
"Vedo turbe di gente che cammina in cerchio"

A parte i rimandi, ormai conosciuti ai più, a Dante, mi pare evidente un certo richiamo al tempo epico (circolare) e quindi fisso, fermo nel pur continuo muoversi, dove i personaggi, gli eroi, nel loro eterno vagabondare e al loro continuo combattere e muoversi attraverso territori sconfinati, restano pur sempre allo stesso punto (la pagina).

"Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine"

“Dal che risulta subito che tali allusioni non si tengono insieme per associazione esterna, meccanica, puramente letteraria (come qualcuno, ancora, insiste) ma perché parlando il linguaggio della memoria, dal profondo della psiche, rimandano a un significato mitico.”  (cit. Roberto Sanesi, Su un’immagine in The WasteLand, in La Valle della Visione, Grazanti 1985)

E come in Materia e Memoria di Bergson la riconduzione del movimento e durata (che è la caratteristica del mythos) porterebbe, per via contraria, alla tesi se il movimento non riguarda lo spazio, – il che nulla toglie alla sua unità -, Achille non raggiungerà mai la tartaruga (tesi di Zenone).

"Presso le acque del Lemano mi sedetti e piansi"

Tutta la terza sezione sembra confermare quanto sopra esposto. Il testo comincia con l’immagine del fiume. È una ripresa del tema dell’acqua (una presenza che sembra data dalla sua assenza: il titolo della sezione è, infatti, Il sermone del fuoco) attraverso l’idea del fiume. Il Tamigi stesso fa da specchio riflettente rispetto ad una precisa intenzione di a-temporalità, a-storicità, (i tempi storici si confondono). Il fiume, insisto, immette l’dea di flusso (movimento), lo scorrere del tempo e l’immobilità si percepiscono proprio attraverso il concetto di fiume.

Appaiono rimandi biblici legati all’idea di esilio, lontananza, sofferenza di un popolo.

Direi, osando, che questi personaggi, interrogando proprio sullo stare, l’abitare, del soggiornare nel luogo per mezzo della parola (e qui la nozione di “topos” si traspone con evidenza alla pagina scritta: il luogo è la pagina e la casa la parola scritta): mi pare che proprio qui si ponga il problema della casa dell’uomo e del proprio esilio.

C’è, ed è evidente in tutta la Waste Land, l’andare verso il luogo che si risolve in una specie di spostamento subitaneo, una sorta di salto che permette di essere, improvvisamente in un’altra dimensione spazio-temporale.

Qualcosa, in The Waste Land, anima il cammino delle parole e dei personaggi ma, al tempo stesso, lo riconduce al suo proprio fermarsi (che è il giusto assioma dell’andare: ciò che è).

Non intendo chiudere qui la questione ma aprire nuove domande.

L’uomo, dunque, (secondo questa mia tesi che cercherò di sostenere fino in fondo) non ha casa né sulla Terra né altrove. Nell’opera di T.S. Eliot che prendo in considerazione per esplicitarmi, sono i personaggi stessi a subirne le conseguenze: essi sono gli animale, esiliati, coloro che emergono dalla pagina scritta e che ne restano fuori, ne sporgono (l’immagine che ho in mente è l’iceberg).

The Waste Land può essere letto come un’indagine sull’abitare, nel luogo, per mezzo della scrittura. E mi pare chiaro, a questo punto, il richiamo al senso della Scrittura/Terra che procede paralela all’indicazione di una nuova patria simbolica (a costo di essere Waste) che non è una terra del male o del bene, che si estenderebbe oltre il territorio concessogli attraverso le sue rigide procedure di nominazione.

In questa nuova patria, in questa Waste Land che impropriamente traduco Terra Riguadagnata avrebbe dimora il vero linguaggio e, secondo questo lavoro di Eliot, il linguaggio non appartiene più all’uno, procede verso la propria destinazione ed entra in essa attraverso il procedimento nominativo.

Farei ora una distinzione che più avanti chiarirà la sua presenza: il distinguo è fra un pensiero (e quindi una scrittura) dirimente, una separazione, divaricazione, un gettare lontano e un pensiero (di nuovo, ancora, scrittura) agglutinato, una aggregazione, inserimento.

Ciò che intendo dimostrare a questo punto (e mi pare sia l’operazione di Eliot) è che l’unità comincia con la distinzione. L’unità nasce quando si comincia a distinguere. L’identità che ne risulta ha l’effetto di ridurre l’ansia che si manifesta là dove i significati oscillano

Il separare segna la nascita della scrittura (e qui mi sorge un dubbio: che sia proprio il lavoro di divaricazione ciò che fa pensare a The Waste Land come ad una sorta di “scrittura desolata”?), mentre l’aggregare ne rappresenta l’antecedente, un contesto simbolico dove tutti i significati possibili oscillano in una molteplicità di sensi.

Eliot, forse ignorando il principio di non-contraddizione, nel suo nominare offre un linguaggio simbolico che si concede all’animata fluttuazione dei significati.

"Bene allora v’accomodo io. Hieronymo è pazzo di nuovo."

(le traduzioni sono di Roberto Sanesi, a lui dedicai)

sulla mia traduzione di Paul Verlaine


[sulla mia traduzione di "Melancholia" di Paul Verlaine]

Una breve introduzione: le traduzioni “invecchiano” quanto i traduttori; parrebbe che, con il continuo mutare degli orizzonti culturali, la ritraduzione dei classici sia non solo auspicabile ma necessaria: per rimettere in circolo ciò che sembrava un possesso acclarato, consegnato all’illusoria e spesso ingessata permanenza di versioni canoniche.
E così tanto più problematico fu, per me, ritradurre un autore già classico da sempre come Paul Verlaine, al contempo supremo azzardo, prototipo ed esito altissimo della poesia francese ottocentesca.
La traduzione, attività incessante di decodifica mentale da parte del lettore, è, secondo me, la molla stessa di quel procedere a strappi, a balzi, a scoppi e sbandamenti che incarna esattamente il movimento del pensiero, della rielaborazione adattata di un pensamento già avvenuto. Una infedeltà bene acquisita. E in cui ogni eco, o barlume di similitudine, si fa immediatamente testo, suono, disegnando in progressione sulle pagine una mappa della coscienza, idolo e demonico primattore di ogni secolo passato che diviene futuro.
La coscienza in cammino divenuta linguaggio.

Una versione – così allora la chiamai, non mi sentivo traduttore – che mi sono, dunque “autorizzata” e che uscì nel 1992 presso i tipi delle edizioni L’Obliquo di Brescia, per le premurose cure di Giorgio Bertelli, editore raffinatissimo che la pubblicò in forma di plaquette. Un testo giovanile del poeta amato da Rimbaud che ritenevo superlativo per qualità di resa e creatività ma forse troppo inascoltato e poco conosciuto per il nostro orecchio. Veniva ad affiancarsi a quelle, poche invero, di altri che mi avevano preceduto, con l’unico merito di recuperarla e renderla nuovamente disponibile per la mia vocazione al popolare e al collettivo che già allora mi pareva fosse necessità assoluta, nell’ottica di una cognizione dello scrivere che, proprio riflettendosi nei flussi più impalpabili di pensiero, potesse farmi apprendere, anche da quel testo giovanile di Verlaine, le sue regole di scrittura – metrica, rima – ma, pure, un sentire di un poter vivere democratico e tollerante. E un po’ comunardo. La condivisione di un sapere.
Temo lo si trovi a fatica, quel testo, mi va di renderlo nuovamente visibile, per una sorta di rivendicazione. Di diritto alla visibilità. Mio e suo.

Dato per certo che tradurre la parola di Verlaine era, per me, un gioco impossibile, decisi che, proprio per questo esatto motivo, l’impresa andava tentata.
Capivo che ogni versione non poteva che essere un gesto calato nella propria storia personale, e che era, inoltre, nel mio caso, un atto implicito di commento nato da una visione dell’autore con cui ingaggiavo un corpo a corpo così come se, innanzitutto, provenisse da un’idea di lettore. Non volevo, nemmeno lontanamente, pensare che le varie traduzioni di uno stesso libro fossero un febbrile, e inutile, agonismo tra loro per soppiantarsi a vicenda. Per me fu solo una prova di stile.
A parità di competenza e impegno, quell’impresa, piuttosto, si completò e venne in qualche modo considerata un piccolo evento. Piccolo.

Era un dato momento storico, quello, e contesto vivissimo di ricettività, qualcuno si accorse che il tentativo fu di rieseguire le armoniche forti del testo rivivendole nella nuova, nell’altra lingua. Cioè la mia.
E in ogni caso, se a porvi mano era stato un poeta giovane, fu fatale che balzò sulla scena come una presenza di quel primum e unicum che mi piaceva definire quasi fisico.

Ora, quel lavoro, dopo anni di sottaciuto oblio, mi piace di riproporlo, con qualche lieve aggiustamento, e si mostra subito per ciò che non è né vuole essere, a partire dalla nettezza di certe scelte lessicali, esibite quasi come petizione di principio.
Nelle prime battute, la macchina verbale è un fiume parlato cui mi sono abbandonato sull’onda di un’immaginazione sonora, tra mosse impreviste di voce, pause non lontane ed estatiche, ritorni e trapassi, incagliamenti, apparizioni e sdrucciolii, senza la pretesa di «capire e far capire tutto» come se tutto potesse avere la stessa dignità, come se tutto ciò che è umano e mobile potesse essere carico della grazia casuale di ciò che vive.
Tutto questo rieseguendo la partitura e dotandola di un ventaglio lessicale a volte inventato e non paragonabile ad alcun’altra traduzione di questo stesso testo, cercando di orientarmi verso una personale extralingua, una foga ispirata a una gioia deformante e volendo tentare, anche sul piano del ritmo, il riordino personale delle parole, creando una ricontinua mutazione del testo e consegnandone, così, una peculiare estraneità all’originale stesso.

Perché è davvero suscitando nel lettore, anch’egli a suo modo traduttore e farneticante immaginatore, l’esperienza di quello sfrontato potere liberatorio impresso prima di tutto dal suono, cantilenato nella testa, che si agisce.

Durato un intero Inverno, il lungo ascolto di Melancholia intese, perciò, sfociare in una forza di reinvenzione che potesse attecchire, anche solo sporadicamente, in un mondo unico e si potesse esprimere in un passo mentale solo mio, facendosi voce volutamente eccentrica, fuori ordinanza, rispetto alla prassi della traduzione di mercato.

A sollecitarmene la traduzione fu il mio pensiero sul corpo fisico della parola, niente altro, la ricerca di un suo teatrale sapore di furto, nei versi dove si affondano le mani nelle cadenze dei gerghi o di un italiano latente.
Una polveriera inusuale, un armamentario allo stesso tempo ricercato e popolare, sferzante e reticente, con un gusto di irrisione che emerge nei momenti in cui insiste nella parodia del sublime e dell’amorevole.
Un nodo in cui addensavo le allusioni più subdole, annunciando e intrecciando le mie prime prove acustiche, il senso del suono.

Di questo testo inseguii insomma anche la qualità incantatoria della parola, la possibile musicalità, essenziale per il suo stesso suono, prima e molto al di là del senso stesso, che sfrondava tutto il diaframma tra materia e simbolo per impadronirsi del lettore precipitandolo in uno spaesamento, in una deriva fantasticante a fronte della stessa lingua nella sua interezza storica.
Così una forma tipica, per me, di quest’esperienza di rilettura, fu la tentazione del caos e quella dell’ordine, l’abbandono alla corrente e la sveglia delle impensate connessioni tra realtà, generando un nuovo abito percettivo.

La celebrazione della meraviglia di un Inverno come tanti, dell’eroismo normale dell’essere umani, di astuzie e crolli di un’umanità bonariamente sbilenca, non restò che confinato nella mia idea di letteratura.
Reti di ricorsi e rimandi che quasi danno l’impressione di autogenerazione, nel continuo fluire fra mondo individuale e condiviso, dentro e fuori, mente e realtà.
Allusione indirettamente nel solo testo: un’elaborazione non sofferta, ma soggetta anch’essa a sbandamenti e ritorni, emergenze e giunture, dove suggestioni individuali possono prender piede sul dato acquisito.

Una virtù trasformativa e, forse, felicemente operante e un modo per riscrivere i libri, fedeltà di pensamento ma non di parola, energia, colori, tonalità, contentezza di condivisione, senza dover rendere conto alla dittatura della maggioranza. Divenne una posizione, la mia, insensatamente parziale e personale, come accade per ogni vera posizione, che porto avanti ancora oggi.

Dicembre 1992
17 x 12 cm
27 pagine

Di questo volumetto sono stati ultimati presso la tipolitografia Emmebigrafica duecento esemplari, cento dei quali contengono, fuori testo, una serigrafia di Bonomo Faita, stampata a mano su carta Magnani di Pescia.

Versione di Fabio Galli. Testo originale a fronte.

Di Paul Verlaine (Metz, 1844 - Parigi, 1896), uno dei massimi poeti della letteratura francese, ricordiamo Poèmes saturniens (1886), Fêtes galantes (1869), La bonne chanson (1870), Romances sans paroles (1874) e Sagesse (1881).

L’angoscia

Natura, niente di te mi commuove, né gli spanti
campi, né l’eco vermiglia dei pastorali
siciliani, né le magne aurorali,
né la solennità dolente dei calanti.

Io rido dell’Arte, rido pure dell’Uomo, dei cantabili,
dei versi, dei templi greci e delle torri a spirali
che slanciano nel cielo vuoto le cattedrali,
e vedo con lo stesso occhio buoni e non amabili.

Non credo in Dio, abiuro e rinnego
ogni pensamento, e in quanto al vecchio diniego,
l’Amore, vorrei che non più se n’andasse a dire.

Tedio di vivere, avente paura di morire, eguale
al vascello perduto nel gioco del fluire e rifluire
l’anima mia salpa per naufragi nel male.