L'atto delle tenebre: sottrarlo, come strappare l’anima al suo corpo in un colpo solo, tra gli occhi impietriti del pubblico. Da qui, il dialogo non è che un’eco con il destino sfatto, come un vecchio che non ricorda più il proprio nome, e nel farlo la vita scorre, vuota e straziata, come un volto sfigurato dal vento oscuro dei pollini abortiti, maledizione che profuma di morte. Le danze di un millennio ormai condannato, abortite anch'esse, si contorcono nell'oscurità, mentre la poesia si riduce a uno spasmo, a un ultimo sussurro. Il Desiderio stesso si disfa, ridotto a una carcassa inerte, inutile. Solitudine, un mostro straccione, un passero esangue, spolpato da sanguisughe ingorde, araldi di inganni scolpiti nella nostra carne fin da bambini.
Le briciole di amore si riducono a un'ossessione soffocante, disperata, un respiro rubato nell'agonia: “- o come un verso / per avere una possibilità di rinascita -”. Ma fuori, c'è solo il mondo che sghignazza, infliggendo la sua crudeltà come un coltello nella schiena: “uno spasso crudelissimo / infligge tutte le notizie”. E poi, un filo di luce spezzata, seguito dal buio eterno che si stende su tutto come una cappa di piombo. I campanili, sentinelle mute, guardano dall'alto un mattino senza vita.
Gli incontri non sono che fantasmi, come l'indice affilato di un demone che indica solo assenza. Stazioni nell’oblio, risucchiato da una furia cieca. I versi si piegano come cadaveri sotto un sole impietoso, chinandosi al deserto del tempo, l’ultima eco di un passato ormai decomposto. Il mutismo stritola le parole, che si assottigliano fino a non poter più dire nulla. La vita è un'ombra già dissolta, resta solo la panchina, un cimitero dove il poeta si ritira a guardare, vuoto come il buco nero dei suoi pensieri. Il verso si sfalda, disgregandosi come polvere, un futuro che non è mai nato.
E si arriva alla fine, al limite insuperabile, dove il muro è l’unico testimone rimasto del nostro incantesimo spezzato. La parola, come una vecchia àncora arrugginita, si aggrappa all’ultima lapide: nessun amore, nessun figlio, solo musica che si avvolge su sé stessa, come una maledizione infinita. Il desiderio di parlare è un grido soffocato, muto, lasciando solo l’eco del vuoto, l'afasia che avvolge ogni cosa. Si vive di assenza, si respira cemento, e la voce non è più che una tela strappata: "e tela non resta la voce".
L'aridità, quella sì, conquista tutto, senza rimorsi. “Età di licheni”, dicono i versi, fragili come un respiro in una tempesta. Le chele del destino brancolano, arrese al buio, riempiendo l’abisso con il vuoto della vita. L’immobilità si fa vivace, perché l'abbandono non ha più un padrone: è solo una lama affilata che, a volte, decide di non uccidere. “Credo che il piacere, se lasciato, / sia un'immensa fortuna, un racconto / da sogno, vicinanza, pronuncia”. Ma sogni, piacere, tutto svanisce, come una stella inghiottita dalla notte senza fine.