Io so. Io so che su quella spiaggia, nell’oscurità di un’Idroscalo che sembrava digerirmi nei suoi strati di sabbia e buio, avrei trovato la mia sorte. C’era qualcosa di insopportabilmente inevitabile in quella sera di novembre, un odore d’asfalto bruciato e salsedine che impastava la paura con la voglia, che mescolava la disperazione con il sangue.
Io so che chiudo gli occhi, eppure vedo tutto. È come un brutto film che ho già scritto, montato, proiettato in anticipo nella mia mente. Le ombre delle palazzine, il rumore del motore che mi rimbomba nel petto, e poi lui, il ragazzo che mi guarda e non mi guarda davvero, il ragazzo che si è perso, o che forse non si è mai trovato.
Non è uno scatto d’ira il suo. È il ritmo strisciante della violenza. È la rabbia sedimentata, quella dei corpi umiliati, degli sguardi respinti, dei gesti ridotti a nulla. Io so che non è più una sola persona, ma una folla silenziosa, un coro che vuole il suo sacrificio. Perché io li rappresento tutti, i diseredati, gli espulsi, i disprezzati. Sono diventato troppo grande, troppo difficile, troppo libero.
Mi si scaglia addosso e il dolore non è solo fisico, ma si distende come un manto, una coperta di calci e pugni e parole crude. Quasi lo accolgo, questo dolore. È familiare, mi accarezza con la stessa brutalità con cui ho cercato di raccontare la verità. La sabbia si infila nella bocca, e la bocca tace, tace finalmente.
Io so. So che questo non è un crimine di un ragazzo solo. È una storia più grande di lui, più grande di me. È una di quelle storie che si scrivono col sangue, con la polvere, con le vite che si perdono e che gridano per anni.
Io so che il mio corpo sarà trovato lì, abbandonato come un sacco svuotato, spezzato e schernito. Chiuderanno la mia bocca con l’indifferenza, con il fango, con quella retorica del vizio e del peccato che hanno sempre usato per punire chi osa guardare oltre la superficie. Non ci sarà compassione per me, ma solo il giudizio della cronaca e il ghigno soddisfatto di chi aspetta da tempo questo momento.
Eppure, anche qui, nell’umiliazione e nel furore cieco che mi travolge, io so. So che la morte non spegnerà la mia voce, che i miei versi continueranno a insinuarsi come lame, che le mie parole sopravviveranno a questa carne frantumata e si infileranno come chiodi nei cervelli di chi voleva zittirmi. So che ogni parola che ho scritto, ogni film, ogni articolo, continueranno a rimestare quel fango che loro, i miei carnefici – quelli veri, quelli che tirano i fili nell’ombra – avrebbero voluto restasse immobile e compatto.
Io so che mi è toccato morire per essere ascoltato, per dare peso a quelle denunce che l’Italia si è affrettata a ignorare. Io so che è il destino di chi osa denunciare la verità senza vergogna, senza maschere, senza ipocrisie. Essere presi di mira, essere relegati al ruolo di capro espiatorio, diventare simbolo di un male che non ci appartiene, ma che ci viene cucito addosso per rassicurare le coscienze altrui.
So anche che, dopotutto, era scritto. Ogni parola che ho detto, ogni passo compiuto sul filo sottile che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, mi ha portato qui. Non potevo sottrarmi a questo epilogo, non io. C’è una sorta di strana, crudele poesia anche in questo massacro, come se la mia vita stessa fosse un copione, una tragedia greca destinata a finire su questa sabbia sporca di Ostia.
E in fondo, anche adesso, io li sfido. Li sfido ad ammazzarmi veramente, a distruggere ogni mia parola, a cancellare ogni traccia del mio passaggio. Perché io so che non ci riusciranno. So che da questa morte nascerà qualcos’altro, un fuoco che non potranno soffocare, una memoria che brucerà oltre i titoli di giornale e i processi farsa. So che, anche se in questo istante il dolore sembra l’unica cosa che esista, non è la fine.
E quando finalmente il buio si chiuderà attorno a me, quando la sabbia mi ricoprirà, io saprò che questa non è una resa, ma un grido che si espande, si allarga, fino a diventare eco, memoria, mito.
Io so, e so anche che ci sono troppi sguardi puntati altrove, troppi silenzi che suonano come assensi. Io so che questo non è solo un ragazzo che ha perso la testa, non è solo il gesto sconsiderato di chi cerca di uccidere un desiderio che non comprende. C’è un veleno più profondo, uno schema che si disegna oltre la mia carne, che va oltre il braccio che colpisce e lascia lividi, oltre il sangue che scorre e si mescola alla polvere.
Il dubbio si insinua. E se quel ragazzo fosse solo uno strumento, il burattino di un disegno più grande? Se qualcuno avesse deciso che la mia voce doveva spegnersi, che il mio sguardo troppo penetrante, le mie parole troppo taglienti, andavano soffocati per sempre? Ho osato scoprire il volto di un’Italia che ama fingersi innocente, l’ho raccontata per quella che è, un’Italia che si sporca le mani ma sa lavarsele in pubblico.
Io so che ho alzato un dito, puntandolo verso i mandanti invisibili, quelli che nessuno osa nominare, quelli che si muovono silenziosi nei corridoi del potere. So che la mia poesia è diventata troppo scomoda, che le mie denunce sono coltelli piantati nel petto di un’ipocrisia collettiva che vuole dormire tranquilla. So che le accuse che ho fatto, i nomi che ho pronunciato, sono diventati una minaccia. Una minaccia reale, insopportabile, a cui hanno deciso di mettere fine.
E se fossero stati proprio loro a decidere che non dovevo tornare vivo da quell’incontro? Se quell’Idroscalo non fosse un caso, ma un appuntamento programmato? So che il potere ama travestirsi da fatalità, da incidente, da errore giovanile. È maestro nel trasformare ogni morte in un gioco di specchi, nel creare storie di vittime e carnefici dove la verità è sempre nascosta, sempre manipolata.
Io so che, una volta steso lì, sulla sabbia, diventerò una storia da manipolare, un caso da archiviare, un’ombra che si dissolve nel buio. So che, se anche venissero a cercare la verità, troverebbero solo labirinti, inganni, testimoni che cambiano versione, indizi che svaniscono. È il gioco del potere, e io lo conosco, l’ho visto troppe volte, l’ho raccontato troppo bene.
Il mio corpo sulla sabbia è un monito, una parola non detta. Ma io so che resterà il dubbio, resterà la mia voce, e questa voce continuerà a insistere, come una domanda che si rifiuta di morire: chi ha deciso che Pasolini doveva morire?
Io so che la verità non ama essere svelata, che ci sono verità che il mondo non è pronto a guardare in faccia. Lo so perché l’ho visto, l’ho scritto, l’ho gridato, e ho pagato il prezzo di ogni mia parola. Ma so anche che questa verità è testarda, si nasconde, si rintana, ma non si lascia cancellare. Rimane nei gesti di chi è stato messo a tacere, negli occhi di chi ha visto e non ha mai parlato, nella memoria di chi, anche se per paura non può testimoniare, sa.
So che da domani qualcuno, forse, alzerà gli occhi, sfoglierà le mie pagine e si chiederà cosa c’è dietro. Chi aveva interesse a vedermi scomparire? A chi giova la mia morte, con quel grottesco sipario che hanno alzato attorno al mio corpo sulla sabbia, quel tentativo goffo e feroce di farmi apparire come l’ennesimo poeta maledetto, schiacciato dai suoi stessi vizi?
So che i poteri, quelli veri, quelli che si muovono nell’ombra, amano far sembrare tutto un caso, un errore, un eccesso di vita che si risolve nel buio. È facile, è comodo: è il metodo infallibile per cancellare chi dà fastidio, chi si è permesso di sollevare il velo su quella rete invisibile di connivenze, su quei legami segreti che uniscono istituzioni e crimine, giustizia e violenza.
Ma io sono qui, in questa notte che odora di sangue e umido, e so. So che non possono davvero cancellarmi. Possono farmi sparire, certo, ridurmi a una colonna di giornale o a un pezzo di cronaca nera. Possono anche trasformarmi in un mito scomodo, una figura da manipolare, da strappare, da ricostruire a loro piacimento. Ma non possono soffocare quel sospetto che crescerà, come una scheggia infilata sotto la pelle della coscienza collettiva.
Perché la mia morte, come la mia vita, resta qui a tormentare, a interrogare, a chiedere spiegazioni. Chi ha ordinato questo massacro? Chi ha permesso che tutto si svolgesse sotto una coperta di silenzio e di menzogna? Chi si è assicurato che questa fosse la mia ultima scena?
Io so che la risposta non verrà da tribunali o investigazioni, perché sono troppo abituati a nascondere la verità con le carte bollate, le archiviazioni, le parole vuote. Ma quella verità esiste, e anche se io non potrò raccontarla, so che qualcuno continuerà a cercarla. Perché la mia fine non è solo la fine di un uomo: è un punto di domanda lasciato lì, tra la sabbia e il mare, in attesa che qualcuno lo raccolga.
Io so che il tempo non farà altro che gonfiare questo dubbio, che il mio corpo, martoriato e infangato, diventerà un simbolo, una ferita aperta che nessuno potrà più ignorare. So che hanno tentato di farmi sparire, di ridurmi a un nome da ricordare distrattamente, un caso chiuso e archiviato, come si fa con le pagine che non servono più, con i file scomodi da cancellare.
Ma io sono ancora qui, e non soltanto nel ricordo di chi mi ha amato, ma anche nella rabbia di chi ha capito che dietro questa morte non c’è solo un corpo straziato, ma un’intera struttura, un gioco oscuro di poteri e di interessi, un sistema che non tollera chi si ribella, chi osa scrutare nell’abisso. So che la mia fine rivelerà ciò che molti, nel profondo, hanno sempre saputo: che l’Italia non è solo quel ritratto sereno, quell’immagine da cartolina che vendiamo al mondo.
Io so che c’è un volto nascosto, un volto che io ho provato a portare alla luce con le mie parole, nei miei film, nei miei versi. Un’Italia corrotta, marcia dentro, in cui giustizia e inganno si intrecciano, e in cui l’innocente viene schiacciato e il colpevole premiato. Io so che questa Italia non tollera i suoi figli ribelli, quelli che la svergognano, che rivelano il marciume dietro i sorrisi. Non tollera chi osa dire che la sua purezza è una farsa, che il suo decoro è solo una maschera per nascondere il potere sporco che si muove dietro le quinte.
E io so che, alla fine, questo è stato il mio crimine più grande: non aver taciuto. Ho detto troppo, ho visto troppo, e qualcuno, da qualche parte, ha deciso che questo non era accettabile, che bisognava fermarmi prima che le mie parole arrivassero ancora più lontano, scavando ancora più a fondo.
Ma so che la mia voce, anche adesso, si espande, risuona in chi saprà raccogliere questa eredità, in chi non si accontenterà della versione ufficiale, in chi continuerà a chiedersi perché, a chi serviva la mia morte, a chi dava fastidio che io fossi ancora qui, vivo e capace di raccontare l’Italia per quella che è, e non per quella che finge di essere.
Perché io so. So che qualcuno ha deciso di trasformare la mia vita in leggenda, ma anche di soffocare le mie parole con il silenzio della morte. Eppure so che, anche da questo silenzio, anche da questa sabbia impregnata di sangue, il mio grido non smetterà di farsi sentire, e che continuerà, come un eco che cresce e cresce, a insinuarsi nelle coscienze, a risvegliare la memoria, a pretendere la verità.
Io so che questa verità, benché nascosta, tornerà a farsi strada come l’erba sotto l’asfalto, con la forza che hanno solo le cose sepolte ma non dimenticate. Perché non si può zittire ciò che è stato scritto con il sangue, e ogni frammento di questa notte infame, ogni colpo inferto, ogni pugno, ogni insulto, sono ormai un racconto inciso a fuoco, una testimonianza che nessun potere potrà davvero cancellare.
Io so che c’è chi tenterà di ridurmi a un simbolo scomodo, a un caso di cronaca da archiviare, a una macchia che infanga la storia solo quanto basta per lasciarla lì, in un angolo, a prendere polvere. So che ci proveranno, che tenteranno di riscrivere la mia esistenza e la mia fine, di reinterpretare ogni gesto, ogni parola, per adattarla a un disegno innocuo, per piegarla alla loro narrativa. Ma io ho vissuto senza compromessi, senza scendere a patti, e anche la mia morte resta così: inaccettabile, intollerabile, un urlo che rifiuta di spegnersi.
E io so che questa resistenza, questa mia ultima ribellione, sarà il seme di qualcosa di più grande. Perché ogni volta che si proverà a parlare di me come di un poeta maledetto, di un artista finito per mano del suo stesso desiderio, ci sarà sempre qualcuno che alzerà la voce, che chiederà a gran voce di guardare oltre, di non accettare le versioni facili, di chiedersi chi ha veramente tratto vantaggio da questa morte.
Io so che la mia fine lascerà un vuoto, ma so anche che quel vuoto sarà riempito dal sospetto, dalla domanda che nessuno potrà ignorare: perché è morto Pasolini? Perché un uomo che ha osato dire la verità, che ha mostrato il volto più brutale e oscuro di questa nazione, è stato brutalmente eliminato? Quale Italia ha paura della sua stessa verità? E chi si è sporcato le mani per proteggere questo segreto?
Io so che queste domande cresceranno, che il mio volto sarà ricordato non solo per la bellezza della mia poesia, ma per il coraggio di chi ha osato sfidare il potere. E anche se loro, quei mandanti senza volto, resteranno forse per sempre nell’ombra, anche se i nomi non verranno pronunciati, anche se il mio caso resterà avvolto nella nebbia del mistero, io so che la mia morte non sarà mai solo un fatto chiuso. Sarà il peso che continuerà a gravare sulla coscienza di questo Paese, l’accusa silenziosa che nessuno potrà ignorare.
Perché io so che i miei versi, i miei film, le mie denunce, non moriranno con me. Rimarranno qui, come spine, come fiamme, come verità ineludibili che tormentano chiunque tenti di dimenticare. So che anche da questa sabbia insanguinata, da questo corpo ferito e umiliato, qualcosa continuerà a risplendere, a bruciare, ad ardere. E finché quel fuoco resterà acceso, nessuno potrà davvero zittire ciò che io ho svelato.
Io so che non sono morto davvero, non come avrebbero voluto loro. So che, alla fine, il potere ha ottenuto solo un corpo. Un corpo spezzato e gettato lì, sul cemento e sulla sabbia, e niente più. Ma non mi hanno preso l’anima, non hanno afferrato la mia voce, non sono riusciti a fermare quel grido che continua a echeggiare, che si allarga come un’onda sulla superficie del mare.
Perché da quel momento, da quel terribile 2 novembre 1975, la mia voce ha preso un’altra forma, una forma che nessuna mano violenta, nessuna menzogna di stato, nessuna indagine chiusa in fretta potrà mai cancellare. È la voce di un’Italia che si riconosce nella lotta, di chi si ribella al silenzio imposto, di chi sente ancora addosso il peso di una verità nascosta, una verità che non ha mai smesso di chiedere giustizia.
Io so che ora il mio spirito vive nei passi di chi si ostina a cercare, di chi, sfidando la paura e la convenienza, non smette di domandare, di chiedersi cosa è successo davvero quella notte all’Idroscalo. So che ogni volta che si parla di quel luogo, di quella morte violenta, si solleva un polverone di accuse e di versioni contrastanti, un intreccio di sussurri e di rimozioni. Ma io so che non potranno nascondere per sempre la mia verità. Ogni volta che qualcuno si ferma, ogni volta che un giovane legge i miei versi o guarda i miei film, ogni volta che il mio nome viene pronunciato, è come se fossi ancora qui, ancora vivo, ancora presente.
Perché io so che, alla fine, il tempo lavora per me. Che il tempo logora le bugie, scava nei muri di menzogne che mi hanno eretto attorno. Io so che la mia morte, per quanto crudele, non è riuscita a ottenere il silenzio, ma al contrario ha creato una ferita nella coscienza di questa nazione. Una ferita che sanguina ancora, che brucia, che non vuole chiudersi.
E così resterà, come una verità che nessuno potrà uccidere, come una domanda che nemmeno gli anni potranno soffocare: chi ha voluto la morte di Pier Paolo Pasolini?
Io so. Io sono morto il 2 novembre 1975.