mercoledì 11 dicembre 2024

La solitudine delle pagine

Stamattina, mentre osservavo dalla finestra il cielo grigio e uniforme, ho avuto l’impressione che quell’immensa distesa di nuvole, compatta e opprimente, volesse inghiottire ogni colore, cancellare ogni traccia di vivacità dal mondo. Mi sembrava quasi di poter sentire il peso di quel cielo, come una coperta pesante che soffoca la luce e appiattisce le emozioni. Così, senza quasi rendermene conto, mi sono ritrovato a scavare nella memoria, a cercare frammenti di un passato che mi appariva lontano, eppure così vicino, come una fotografia sbiadita che continua a trattenere un’eco di vita. Tutto è iniziato con un’immagine vaga, un’impressione sfuggente che non riuscivo a definire con precisione. Forse era il ricordo di un odore: l’odore della carta umida in una biblioteca mal riscaldata, quel profumo inconfondibile che mescola il freddo, la polvere e l’antico. Oppure era l’odore del freddo stesso, un freddo che sa di pietra e di abbandono, come quello che si avverte nei corridoi di certi edifici dimenticati, dove il tempo sembra essersi fermato.

Lentamente, quasi senza che me ne accorgessi, questo ricordo si è fatto strada nella mia mente, diventando qualcosa di più vivido, più definito, più reale. Era come se un’immagine sfocata stesse mettendo a fuoco i suoi contorni, trasformandosi in una scena completa, un frammento di vita che aveva deciso di riemergere proprio in quel momento. E così mi sono ritrovato a pensare all’inizio del mio soggiorno in quella città, una città che, a quel tempo, mi era sembrata un luogo misterioso, affascinante, quasi esotico. C’erano angoli che sembravano appartenere a un mondo diverso dal mio, piazze che parevano sussurrare storie che non capivo ma che mi attiravano irresistibilmente. Oggi, con il senno di poi, quella città mi appare come tante altre, una città normale, senza nulla di particolarmente speciale. Eppure allora, in quel momento preciso della mia vita, era tutto diverso. Allora era come se ogni strada, ogni edificio, ogni dettaglio racchiudesse un mistero da svelare, un significato nascosto che aspettava solo di essere scoperto.

Era una fase della mia vita in cui ogni cosa sembrava racchiudere una promessa. Ogni esperienza era nuova, ogni volto era sconosciuto, ogni suono sembrava vibrante di possibilità inesplorate. Era come trovarsi costantemente davanti a una porta socchiusa, una porta che conduceva a un mondo ignoto e ricco di promesse, un mondo che volevo esplorare fino all’ultimo angolo, senza riserve, senza paure. Era una sensazione di libertà e curiosità che oggi fatico a ritrovare, ma che allora era il motore di ogni mio gesto, di ogni mia scelta. In quella città, in quel tempo, tutto era vivo, tutto era nuovo, tutto sembrava possibile.

In quel periodo ero divorato da una bramosia che oggi definirei quasi patologica, un impulso incontrollabile e furioso che mi consumava dall'interno, ma che allora mi appariva come la cosa più naturale del mondo, qualcosa di necessario, essenziale, perfino vitale per la mia esistenza. Una fame insaziabile, un desiderio ardente che non conosceva confini, una cupidigia vorace che si accendeva con la stessa intensità di fronte a qualsiasi libro, senza alcuna distinzione. Poteva trattarsi di un classico impolverato, con le pagine ingiallite dal tempo, i margini logori e il profumo inconfondibile della carta vissuta, oppure di una novità editoriale scintillante, con la copertina ancora intonsa e lucida sotto i miei occhi bramosi: per me, ogni volume era uguale, ogni libro rappresentava un tesoro da conquistare e, soprattutto, da divorare con un’urgenza quasi febbrile.

Ricordo con una precisione vivida e talvolta persino struggente la sensazione fisica che mi invadeva quando mi trovavo di fronte a un libro nuovo, appena scoperto. Il cuore iniziava a battere più forte, in una sorta di ritmo accelerato che sembrava voler rompere il petto, e le mie dita, incapaci di trattenere l’entusiasmo, tremavano leggermente mentre si posavano sulla copertina o sfioravano le pagine ancora sconosciute. Quell'atto così semplice e quotidiano per molti – prendere un libro, sfogliarne le prime pagine – per me si trasformava in un rituale sacro, in un momento denso di elettricità e significato. Era come se ogni nuovo volume rappresentasse una chiave, un accesso privilegiato a un universo alternativo, uno strumento prezioso per esplorare territori ancora sconosciuti, per penetrare sempre più a fondo in un mistero vasto e insondabile.

Un mistero che, ne ero consapevole, non possedeva né un inizio chiaro né una fine definita, ma che proprio in questa sua sfuggente infinità trovava il suo fascino magnetico e irresistibile. Ogni libro era una promessa di scoperta, di trasformazione, di una conoscenza che, pur senza risposte definitive, continuava a stimolare la mia mente e a nutrire quell'ardore inesauribile che bruciava dentro di me. Ero, in fondo, un viaggiatore senza meta, un esploratore affamato che trovava in quelle pagine infinite una ragione d’essere, un rifugio, e al tempo stesso una vertigine.

Non avevo amici. Non perché non ci fossero occasioni per fare nuove conoscenze o entrare in contatto con persone affini, ma perché dentro di me non avvertivo il bisogno di legarmi a qualcuno. O forse, più in profondità, perché avevo paura: paura di essere giudicato, di non essere capito, di mostrare le mie fragilità. La compagnia degli altri mi sembrava sempre un peso, un’invasione nel mio spazio privato, un disturbo che non ero disposto a tollerare. La loro presenza, anziché arricchirmi, mi appariva come una costrizione, un’imposizione a cui non volevo piegarmi. La mia vita, invece, trovava un senso completo nei libri. Erano loro a riempire i miei vuoti, a darmi quella compagnia che gli esseri umani non sapevano offrirmi. Nei libri trovavo tutto: conforto nei momenti di angoscia, sfide intellettuali che stimolavano la mia mente, bellezza che parlava direttamente al mio cuore, consolazione per le insicurezze che non osavo confessare neanche a me stesso. Leggevo con una dedizione che oggi definirei quasi ossessiva, ma che allora mi sembrava pura e naturale, come se fosse l’unico modo per vivere. Era una sorta di rito quotidiano, una pratica ascetica che mi permetteva di estraniarmi da tutto il resto, di dimenticare il mondo reale con i suoi dolori e le sue complessità. Passavo quindici ore al giorno immerso in questa attività, un ritmo che oggi giudicherei disumano, ma che allora rappresentava la mia normalità. Ogni mattina, il primo pensiero che mi attraversava la mente era sempre lo stesso: dovevo riprendere la lettura esattamente da dove l’avevo interrotta la sera precedente. Era un desiderio impellente, un bisogno che bruciava dentro di me e che non potevo ignorare. Mi tuffavo nei mondi di carta con un fervore che, col senno di poi, somigliava quasi a una forma di fuga. Quelle pagine, con i loro personaggi e le loro storie, mi sembravano infinitamente più reali, più vive, più autentiche rispetto a tutto ciò che mi circondava nella vita quotidiana.

Nonostante questa immersione totale nel mondo delle parole, o forse proprio a causa della loro pervasività, vivevo in un silenzio che somigliava a un deserto. Mi ero trasformato in un’isola, separata e distaccata dal resto del mondo, un’entità chiusa e autonoma che non aveva bisogno di ponti verso l’esterno. Non cercavo dialoghi, non li desideravo e, in un certo senso, li rifuggivo. Ogni incontro con una voce umana reale mi sembrava superfluo, quasi invadente, perché quelle che incontravo tra le pagine dei libri mi bastavano. Mi parlavano con intensità e profondità, sapevano interrogarmi con domande che scavavano dentro di me e mi costringevano a riflettere, ma erano prive di pretese. Non chiedevano risposte, non esigevano nulla, ed erano per questo gli interlocutori ideali. Silenziosi, discreti, mai invasivi, abitavano il mio spazio senza alterarlo. Così, giorno dopo giorno, mi sono adattato a questa solitudine, fino a renderla una seconda natura. Il concetto stesso di "altro", inteso come presenza umana, era per me un’entità aliena, quasi un’astrazione priva di peso e significato. Il mio vocabolario, allora come ora, sembrava non contenere quella parola. Era come se fosse stata cancellata, assente senza lasciare traccia, e paradossalmente questa assenza mi donava una sorta di sollievo. Non dovermi confrontare con un "altro" significava potermi concentrare unicamente su di me, sul mio mondo interiore, sui miei pensieri e, soprattutto, sulle mie letture. Quel tempo e quello spazio che non venivano occupati da qualcun altro diventavano un bene prezioso, una libertà quasi assoluta di esistere nel modo più puro e autentico che conoscevo. Era una condizione che non sentivo come una privazione, ma come un’opportunità, una forma di liberazione che mi permetteva di esplorare territori intimi e inesplorati, lontano dal caos e dalle richieste di una realtà che non sembrava appartenermi.

Eppure, col senno di poi, mi chiedo se questa assenza non sia stata anche una mancanza, una privazione, qualcosa che ha scavato un vuoto che non ho mai saputo davvero colmare. Non ho mai imparato veramente cosa significhi entrare in relazione con un’altra persona, condividere senza riserve, ascoltare senza distrarsi, accogliere senza paura di essere respinto. Ho sempre vissuto nel mio mondo, convinto che fosse sufficiente per sopravvivere, per bastare a me stesso, e forse lo era davvero, o forse era solo una comoda illusione. Ma stamattina, ripensando a quei giorni lontani che sembrano ormai appartenere a un’altra vita, mi sono domandato se quella solitudine fosse davvero una scelta lucida o una condanna ineluttabile. Forse erano entrambe le cose, fuse insieme in un intreccio che ancora oggi non riesco a districare. Forse non erano né l’una né l’altra, ma semplicemente il frutto di un destino che non ho mai provato a cambiare. Certo è che senza quei giorni, senza quelle ore interminabili passate a leggere, a scoprire universi lontani, a vivere attraverso le parole e i pensieri degli altri, non sarei la persona che sono oggi. E non è solo questione di esperienze, di nozioni apprese o emozioni filtrate attraverso la carta: è l’essenza stessa del mio essere, quel miscuglio di sogni, rimpianti e fragilità che mi definisce.

E allora mi domando: è stata davvero una vita sprecata, quella che ho vissuto? Una vita trascorsa in una solitudine così profonda e avvolgente da farmi rinunciare, consapevolmente o meno, al dialogo con gli altri. Mi chiedo se, in quel silenzio, io abbia perso qualcosa di essenziale, qualcosa di fondamentale per la crescita e il nutrimento dell’anima. Qualcosa che poteva arricchirmi in modi che nemmeno riesco a immaginare o che ora riesco solo a intuire, come una sensazione che sfugge alla presa, lasciandomi con il dubbio. Oppure, al contrario, mi chiedo se in quella stessa solitudine, in quell’isolamento che per molti sarebbe stato insopportabile, io abbia trovato qualcosa di unico, un tesoro raro, inaccessibile ai più. Forse, qualcosa che non tutti possono comprendere, che non tutti possono nemmeno vedere.

Non so dare una risposta chiara. Non so se esista davvero una risposta definitiva, una verità che possa mettere a tacere questo tormento interiore. Mi sembra, a volte, che la domanda stessa sia destinata a rimanere aperta, come una ferita che non guarisce, come un enigma il cui senso si nasconde appena oltre il velo del comprensibile. Forse, però, non è nemmeno importante trovare una risposta. Forse ciò che conta davvero è il modo in cui conviviamo con queste domande, il modo in cui le portiamo con noi, giorno dopo giorno, come parte del nostro bagaglio. Perché una cosa, almeno, mi sembra certa: quei giorni trascorsi in solitudine, quelle letture che hanno acceso in me mondi lontani e sconosciuti, quel silenzio che si è fatto compagno e maestro, sono parte di me, indissolubilmente.

Non potrei, nemmeno volendo con tutta la mia volontà, separarmi da essi. Sono radicati in me come le radici più profonde di un albero antico, un albero che, se privato delle sue radici, non potrebbe più esistere. Quei giorni, quelle esperienze, quella solitudine hanno plasmato ciò che sono. Hanno intrecciato i loro fili al mio essere in una maniera talmente profonda, talmente essenziale, che immaginarmi senza di loro sarebbe come immaginare una pianta senza la sua terra, un fiume senza il suo letto, un cielo senza le sue stelle. Sono, nel bene e nel male, una parte imprescindibile di me, e ciò che sono oggi non avrebbe mai potuto esistere senza di loro. Ecco, questa è forse l’unica certezza che ho, l’unico punto fermo in un mare di dubbi e domande che continuano a tormentarmi.