Niente mondo, niente casa. Non c’è un luogo che possa chiamarsi rifugio, né un tetto sotto il quale trovare sollievo, protezione, o anche solo una parvenza di calore umano. Le mura che un tempo potevano contenere il peccato o custodire l’innocenza sono ormai crollate, lasciando spazio a un vuoto che si espande, vasto e freddo, come un abisso senza fondo. Tutto ciò che rimane è una strada che si perde oltre l’orizzonte, un nastro grigio che serpeggia sotto un cielo senza stelle, senza luna, senza speranza. Ogni passo che vi si imprime racconta di una fuga, di un desiderio di sparire, di un’esistenza che si consuma senza lasciare traccia. Qui non c’è incontro, non c’è dialogo: solo occhi che si sfiorano per un istante, come scintille destinate a spegnersi nel buio. Ogni sguardo è un universo che si chiude su se stesso, un mondo che implode senza mai toccarne un altro. È un cammino popolato da fantasmi, da frammenti di vite mai vissute, da ombre che scivolano silenziose e invisibili, come polvere portata via dal vento.
Eppure, in questa desolazione, non sei mai davvero solo. C’è una presenza che ti segue, che cammina accanto a te con la pazienza di chi sa di avere tutto il tempo del mondo. È la morte, la tua compagna più fedele, un’amante che non conosce gelosia perché sa che, alla fine, sarai sempre suo. Non si presenta mai con clamore, non annuncia il suo arrivo. Piuttosto, si insinua lentamente nella tua vita, fino a diventare una costante, un'ombra che si allunga accanto alla tua. Le sue mani, lunghe e ossute, si posano sulle tue spalle con un tocco che è al tempo stesso un brivido e un abbraccio. Non ti parla di futuro, perché il futuro non le appartiene; ti racconta invece storie di oblio, di giorni che si dissolvono come nebbia al primo raggio di sole, di nomi dimenticati, di volti che svaniscono come impronte sulla sabbia. Ogni suo sussurro è una promessa e una minaccia, un richiamo al nulla che attende tutti alla fine del cammino. E tu, debole, stanco, sedotto, abbassi lo sguardo, incapace di rispondere, perché sai che contro di lei non c’è battaglia da combattere, né vittoria da sperare.
La morte non ha bisogno di parole. Non ha bisogno di chiedere permesso, perché il suo posto accanto a te è garantito, inevitabile, come l’ombra che segue ogni passo. Quando arriva, non lo fa con prepotenza o con violenza. Si siede accanto a te con la familiarità di un’amica che conosce ogni piega della tua anima, ogni segreto che hai cercato di nascondere. Indossa un abito nero, semplice e senza tempo, un tessuto che sembra fatto di notte e silenzio, intriso dell’odore acre del tabacco e del peso dei rimpianti. Il suo volto è avvolto da un velo di fumo, un sipario impalpabile che nasconde ciò che non si può guardare senza tremare. Non ha bisogno di mostrare espressioni, perché la sua presenza parla da sola: un silenzio che ti riempie le ossa, un vuoto che si annida nel petto, una consapevolezza che ti accompagna come un fardello che non puoi deporre. Non ride, non piange, non giudica. È lì, immobile eppure onnipresente, una figura che ti osserva senza vederti, e il suo peso, il peso della sua certezza, ti schiaccia più di mille solitudini.
Quale sia l’arrivo del termine, chi mai può dirlo? E, più di tutto, chi se ne importa? Non è il viaggio che conta, non è la strada che scegliamo di percorrere, né le deviazioni che ci perdiamo a seguire, ma la meta, la fine inevitabile che ci attende tutti. La destinazione non cambia, è sempre la stessa: un muro bianco, anonimo, silenzioso, contro cui finiamo per schiantarci. Un muro che non cede, che non si sposta, che ci guarda con indifferenza mentre tentiamo di sfondarlo con il nostro corpo, come se la violenza dell’impatto potesse lasciare un segno, un’eco, qualcosa che ci sopravviva. Oppure è un mare nero, vasto, insondabile, in cui affondiamo lentamente, senza possibilità di ritorno. Un mare che non si cura dei nostri sforzi, dei nostri respiri affannati, dei nostri ultimi disperati tentativi di rimanere a galla. L’acqua ci avvolge, si insinua dentro di noi, prima nei polmoni, poi nella mente, fino a che tutto si spegne in un silenzio definitivo.
E in mezzo a tutto questo, il prete parla. Parla e parla, instancabile, come se le sue parole avessero un peso, come se potessero salvarci da noi stessi. Ma la sua voce non è altro che un rumore vuoto, un fruscio indistinto che si perde nell’aria. È vento, niente di più: un soffio che attraversa le fessure di una porta chiusa, senza mai riuscire a entrare davvero. Parla di redenzione, ma cosa può saperne lui del peccato? Non lo ha mai conosciuto, non lo ha mai sentito scorrere nelle vene, non ha mai dovuto affrontarlo negli occhi mentre gli sussurrava tentazioni irresistibili. Il peccato non è un’idea astratta, un concetto che si può imparare dai libri o declamare dal pulpito. È vivo, è reale, è una presenza che ti accompagna, che ti sussurra dolci menzogne mentre ti spinge verso il baratro.
E poi, c’è l’amore. Oh, quanto lo predica, quell’amore idealizzato, immacolato, che si ostina a dipingere come purezza, come perfezione. Ma noi sappiamo la verità. Noi che l’amore lo abbiamo incontrato nei bassifondi dell’esistenza, negli anfratti più oscuri delle nostre anime. Noi che l’abbiamo visto nei volti sfatti dei compagni di una notte, nelle lacrime di chi ci ha amati senza essere ricambiato. L’amore non è purezza, non è un sogno dorato da conservare intatto. È sporco, è impuro, è un vizio che ci consuma dall’interno. È polvere, alla fine. Polvere che si posa ovunque, che ci sporca le mani, che si mescola con il sudore e le lacrime. È un gioco di ceneri, quelle che restano dopo che la passione si è spenta, sparse senza ordine sul pavimento di un bordello che odora di fumo e di disperazione.
Eppure, in quella polvere, in quelle ceneri che sembrano così insignificanti, c’è una scintilla. Una scintilla di vita, di verità, che illumina il buio per un istante, fugace ma eterno. È lì che troviamo l’essenza dell’amore, non nei sermoni di un prete che parla senza sapere, ma nei frammenti di un’esistenza vissuta fino in fondo, nel bene e nel male. È quella scintilla che ci tiene vivi, che ci spinge a continuare, anche quando tutto sembra perduto. E forse, alla fine, è questo ciò che conta davvero: non il muro contro cui ci schiantiamo, non il mare che ci inghiotte, ma quella scintilla di luce, quella promessa di significato nascosta tra le rovine del nostro essere.
La scemenza dell’amore! Oh, quell’inganno sublime e sfacciato, un miracolo tanto brillante quanto crudele, che si insinua nelle nostre vite come un vento improvviso, ci afferra con mani invisibili e ci trascina per i capelli, costringendoci a seguire la sua danza folle. È un signore senza scrupoli, l’amore: un maestro d’illusioni che dipinge cieli dorati sopra abissi senza fondo. Ti sussurra dolci menzogne, ti avvolge in promesse di eternità, ti fa credere d’essere più grande del mondo stesso, mentre con la stessa precisione chirurgica scava il solco della tua disfatta. Non è mai quel che sembra, non è mai il porto sicuro che immagini. L’amore è un mare in tempesta che ti spinge a credere di poter volare, mentre prepara la tua inevitabile caduta.
E le ceneri? Ah, quelle ceneri leggere, quasi impalpabili, che danzano nell’aria, portate via da un vento distratto: dove mai finiranno? Si perdono in un cielo che le ignora, un cielo troppo vasto e indifferente per accoglierle. Le ceneri cercano riparo, ma trovano solo il vuoto. Si posano forse sulla terra, ma anche quella le respinge, le calpesta, le mescola al fango e le dimentica. Sono la memoria di un incendio ormai spento, il residuo di un’energia che sembrava infinita, ma che si è consumata in un istante, lasciando dietro di sé solo polvere e silenzio. E quel silenzio, così totale, così definitivo, parla più forte di qualsiasi grido: è il muto testimone della fine, della resa inevitabile a un ciclo che non conosce pietà.
Quelle ceneri sono tutto ciò che rimane di una danza frenetica, cieca, insensata. Una danza di corpi e cuori che si sono mossi a ritmo di un’armonia che non esisteva. Ogni passo era un errore, ogni movimento una scommessa persa in partenza. Eppure abbiamo ballato lo stesso, ubriacati dall’idea che potesse esistere un senso in quel caos, che ci fosse qualcosa di eterno in quei passi improvvisati. Ma alla fine restano solo quelle ceneri, mute e prive di significato, la testimonianza di un’illusione che si è dissolta nell’aria. Sono il residuo di un fuoco che non scaldava, di una luce che non illuminava. E poi c’è quella risata strozzata, quella promessa di gioia spezzata prima di fiorire. Una risata che rimane intrappolata nella gola, soffocata dal peso dell’assurdità.
Eppure, in tutta questa follia, c’è qualcosa di inspiegabilmente umano, qualcosa che ci spinge a tornare sempre lì, a quell’amore che ci inganna e ci tradisce. Perché sappiamo che, nonostante tutto, è proprio in quel bruciare, in quel consumarci fino a diventare cenere, che troviamo il senso del nostro essere. È un gioco perverso, una sfida senza vincitori, ma è anche l’unico inganno per cui vale la pena vivere, l’unico sogno che, pur sapendo di essere tale, continuiamo a inseguire. Perché senza quell’amore, senza quella danza assurda e senza senso, cosa resterebbe di noi? Solo un silenzio ancora più grande, ancora più vuoto. E allora danziamo, bruciamo, cadiamo, perché in fondo, in quel bruciare, c’è tutta la nostra umanità.
E poi, la giovinezza. L’unica bellezza che valga davvero la pena di ricordare, quell’età dell’oro in cui ogni sorriso sembrava splendere come un’alba eterna, in cui ogni lacrima aveva il sapore di una scoperta e non ancora di una perdita. La giovinezza, quel tempo in cui il mondo ci si spalancava davanti, vasto e infinito, come una promessa che non avevamo paura di afferrare. È l’unico dio che abbiamo adorato senza ipocrisie, senza maschere e senza paure, un dio che non ci chiedeva sacrifici, ma solo di vivere con tutta l’intensità possibile. Lo veneravamo con l’urgenza del sangue che scorre nelle vene, con il desiderio impetuoso di chi si sente invincibile, senza dover cercare scuse o giustificazioni. Era nostro, e non avevamo bisogno di condividerlo con nessuno.
La giovinezza, quel coltello affilato che taglia via ogni menzogna, ogni dubbio, ogni compromesso con il quale il mondo adulto cerca di ingabbiarci. Un coltello che portavamo nel cuore e che, paradossalmente, non ci feriva, ma ci liberava. Ci liberava dalle catene del timore, dai confini imposti dalla prudenza, da tutte quelle domande che avremmo imparato a porci troppo tardi. Era una lama che non conosceva esitazione, che si scagliava dritta contro il falso, contro il banale, contro ogni cosa che non fosse autentica. Non temevamo le ferite, perché ogni taglio era una porta verso qualcosa di nuovo, di sconosciuto, e noi volevamo tutto, subito, senza rimorsi.
È una luce cruda, quella della giovinezza, una luce che non ammette sfumature, che ci mette a nudo senza chiedere scusa. È la luce del mezzogiorno, accecante e feroce, che non conosce la dolcezza dell’alba né la malinconia del tramonto. Ci ha baciati con la forza di un uragano, spogliandoci di tutto ciò che non era essenziale, lasciandoci nudi di fronte a noi stessi e agli altri. Ma quella nudità non ci spaventava: la indossavamo come una seconda pelle, fieri di mostrarci per ciò che eravamo. Eravamo felici, non perché fossimo puri, ma perché non avevamo ancora imparato a vergognarci delle nostre imperfezioni. Eravamo felici perché ogni cosa, anche la più piccola, ci sembrava nuova, sorprendente, viva.
Felici, sì, perché non sapevamo ancora che il futuro sarebbe arrivato, implacabile, per divorarci. Non avevamo idea che il tempo, quel tempo che allora ci sembrava infinito, avrebbe iniziato a correre, lasciandoci indietro. Non immaginavamo che un giorno avremmo guardato indietro con rimpianto, cercando di afferrare i frammenti di ciò che eravamo stati. Eravamo ignari, ed è proprio questa ignoranza che ci rendeva liberi. Danzevamo sull’orlo del precipizio senza paura, perché il pensiero della caduta non ci sfiorava nemmeno. Ogni giorno era un nuovo inizio, ogni ora un universo intero da esplorare, ogni respiro un atto di ribellione contro tutto ciò che cercava di limitarci.
La giovinezza ci apparteneva come un diritto, come un dono che credevamo eterno. Non sapevamo ancora che sarebbe scivolata via, che la sua luce si sarebbe affievolita, trasformandosi in un ricordo sempre più lontano. Non sapevamo che il coltello si sarebbe smussato, che la nostra pelle si sarebbe fatta meno sensibile, che il cuore avrebbe imparato a battere con più cautela. Allora, non avevamo bisogno di saperlo. Allora, vivevamo ogni istante come se fosse l’unico, ogni battito come se fosse il primo. E forse è proprio questa inconsapevolezza che rende la giovinezza così straordinaria: non sapere, non temere, non fermarsi mai.
Ma il futuro è una bugia, un gioco di specchi che deforma i contorni della realtà e ci illude con visioni di ciò che potrebbe essere, senza mai garantire nulla di certo. È una promessa vestita di parole vuote, un incantesimo che ci lega con la forza del desiderio e della speranza. Ci incamminiamo verso di esso come pellegrini su un sentiero che sembra definito, ma che, passo dopo passo, si dissolve sotto i nostri piedi. È una banalità che si traveste da rivelazione, un abbaglio che ci guida con false luci fino a un ponte che non conduce da nessuna parte, sospeso tra il passato e un domani che non esiste. Quel ponte è la nostra fede cieca nel tempo, la convinzione che l’orizzonte sia sempre raggiungibile, che ogni giorno porti con sé un’opportunità di riscatto. Ma non è così. Il futuro è una trappola elegante, costruita con la stoffa dei nostri desideri più profondi, e noi, ignari, vi cadiamo ogni volta.
E quando finalmente arriva il momento in cui la verità si svela, quando il velo cade e ci troviamo nudi davanti all’evidenza, è già troppo tardi. Ci rendiamo conto che tutto ciò che abbiamo inseguito era solo un miraggio, un sogno proiettato su una tela che non può reggere il peso della realtà. È in quell'istante, doloroso e irrevocabile, che comprendiamo il significato dell’addio. L’addio non è solo una parola, ma un taglio netto, un sigillo finale su ciò che non potrà mai essere recuperato. Addio ai sogni costruiti con tanta cura, addio alle promesse fatte a noi stessi e agli altri, addio a tutto ciò che pensavamo fosse la nostra essenza. E, forse più di tutto, addio a noi stessi, a quell'immagine di noi che il futuro aveva modellato con le sue false promesse. Guardiamo indietro e non vediamo altro che frammenti di ciò che eravamo, sparsi come cocci di uno specchio infranto.
Rimane solo il vuoto. Ma non è un vuoto neutro, silenzioso o pacifico. È un vuoto che pesa, un nulla che si riempie di ricordi, di echi lontani, di frammenti di frasi, immagini e sensazioni che ci tormentano. È un vuoto vivo, vibrante, che pulsa al ritmo di ciò che abbiamo perso e di ciò che non abbiamo mai avuto. È come una stanza buia in cui ogni passo fa risuonare un’eco che ci ricorda quanto siamo soli. E dentro quel vuoto c'è una melodia sottile, quasi impercettibile. È un canto straziante, una nenia che racconta di sogni infranti e di speranze che si spengono. Ma è una canzone che nessuno vuole ascoltare, perché ogni nota è un richiamo al dolore, un invito a guardare in faccia ciò che abbiamo sempre cercato di evitare. È il canto del nulla, il suono dell’assenza, la voce di un futuro che si è rivelato per ciò che è sempre stato: una menzogna travestita da destino.
Eppure, in questo vuoto che sembra totale, c'è una strana forma di resistenza. Non è una speranza, non è un nuovo inizio. È solo la consapevolezza, fredda e lucida, di essere ancora qui, di esistere nonostante tutto. Quel vuoto ci inghiotte, ma non ci annienta. Ci lascia sospesi in una terra di nessuno, dove ogni passo è un interrogativo, ogni respiro un atto di sfida contro il nulla. E in questa sospensione, forse, possiamo trovare un barlume di significato. Non nel futuro, che ci ha traditi, ma nel presente, che, per quanto crudele, è l’unica cosa che possiamo davvero chiamare nostra.