giovedì 5 dicembre 2024

quale penoso enigma



Quale penoso enigma è questo svanire, questa sottile condanna che ci avvolge come una nebbia silenziosa e ci viene concesso solo contemplare, mai possedere, mai stringere davvero tra le nostre misere vene pulsanti di un anelito che sa già di sconfitta! Noi, fragili marionette, sospese a fili invisibili che oscillano al ritmo del nostro fiato cadenzato, ci nutriamo di vanità e attese, di promesse mai mantenute e sogni che svaniscono come fumo, imprigionati in un teatrino di sentimenti che ci illudono di essere vivi: ammirazione fugace, odio ardente, e quella dolce parvenza d’amore che, ubriaca, ci sfiora appena, lasciandoci brividi che non scaldano. Eppure, che siano furie o sussurri, che siano lacrime o risate, tutti questi moti del nostro animo restano incapaci di graffiare, persino per un istante, il volto della Morte, che ci osserva con un riso enigmatico, mascherato da un lamento tragicomico. È un suono distante, distorto, un’eco che riecheggia nelle cavità del tempo, simile a un grido strozzato e soffocato nel velluto di una notte senza fine.

E quale orrore e fascino insieme si mescolano in questa danza inesorabile! Perché, nonostante la consapevolezza della nostra fragilità, il mondo continua a offrirci scene, scenari, illusioni innumerevoli, effimere danze che eseguiamo con una foga disperata, come attori su un palcoscenico senza pubblico, o forse dinanzi a spettatori ciechi e indifferenti. È un carosello insensato, una recita perpetua che esalta il vuoto e celebra l’inutile, e noi, protagonisti riluttanti, non possiamo che parteciparvi, pur sapendo che ogni passo ci avvicina all’ultima tenda. Intanto, la Signora dell’Oscuro, colei che tutto avvolge e tutto custodisce, osserva immutabile, senza intervenire. Silente, ella partecipa suo malgrado al nostro teatrino, compagna distante e indifferente del nostro vano agitarsi, e con la sua sola presenza ci ricorda, in ogni respiro e ogni battito, l’insensatezza struggente della nostra rappresentazione.


Ma quando, quando hai avuto il coraggio di strapparti da quel finto palcoscenico, di spezzare la trama illusoria tessuta da mani stanche e distratte? Tu, creatura audace, in un gesto che ha il sapore della ribellione e della libertà, hai aperto nella stoffa del mondo un varco. Non un semplice squarcio, ma un passaggio vivo e pulsante, da cui è scivolato un raggio di realtà – non la realtà che consola, ma quella che ferisce, quella cruda, splendente e inclemente, capace di scuotere i sensi e di risvegliare ciò che giaceva sopito.

In quell’attimo, che brucia come un marchio a fuoco sulla pelle, ogni cosa fittizia si dissolve in un respiro. Il verde non è più il verde polveroso del sipario, scolorito e artefatto, ma un verde che ti assale con la sua intensità, puro e inebriante, come se fosse la prima volta che lo vedessi. Il sole, quel sole che prima pareva un riflesso controllato, una luce di scena misurata e inoffensiva, si rivela nella sua vera essenza: una fiamma viva, che arde e si consuma in un ciclo eterno, incapace di contenersi. E il bosco – oh, il bosco! – non è più solo uno sfondo dipinto, ma un’entità, un’ombra vivente che respira e pulsa, eterna e reale, con radici che affondano non nella terra, ma nel mistero stesso dell’esistenza.

Hai trasformato lo scenario in vita, il riflesso in verità. E in quel momento ogni illusione crolla, ogni maschera si dissolve, lasciando solo l'essenziale: il brivido di ciò che è autentico, di ciò che non teme di mostrarsi nella sua nuda realtà. È in questo risveglio che il mondo intero si ricompone, vibrante e vero, sotto lo sguardo di chi osa vedere.


Noi, miseri attori, restiamo qui, inchiodati al palcoscenico della nostra stessa esistenza, a mormorare ancora le nostre battute. Sono quelle frasi apprese con fatica, scolpite nella memoria con lo sforzo titanico e l’angoscia di chi teme di perdere la ragione, di chi si aggrappa al copione come a un’ancora, mentre trattiene il fiato dietro ogni gesto, ogni sguardo, ogni pausa. Il nostro mestiere è una danza fragile sul filo del rasoio, un equilibrio precario tra il vero e il falso, tra ciò che siamo e ciò che fingiamo di essere. Eppure, da quel giorno, da quell’istante irrimediabile, la tua assenza ha tranciato via qualcosa di essenziale, qualcosa che non sapevamo nemmeno di possedere fino a quando non l’abbiamo perduto.

È come una ferita che rifiuta di rimarginarsi, un taglio invisibile ma sempre presente, che pulsa con il ritmo implacabile di un dolore silenzioso. Quella mancanza si insinua in ogni pausa, in ogni silenzio, ricordandoci, con una forza cieca e ineludibile, il segno indelebile e irripetibile di quell’autentica realtà che tu incarnavi. Era reale, era vera, e la sua autenticità ci è stata strappata via come un sipario che crolla troppo presto, lasciandoci esposti, vulnerabili, e disperatamente soli.

Ogni volta che il ricordo riaffiora, è come uno schiaffo improvviso che ci colpisce in volto, una lama affilata che si pianta dritta nel cuore. E in quei rari istanti, quando la febbre di quel dolore ci scuote dalle fondamenta, noi non siamo più attori. Per un attimo, un solo, brevissimo attimo, viviamo davvero. Non recitiamo, non ci nascondiamo dietro le maschere che abbiamo indossato per tanto tempo. No, in quei momenti siamo vivi, profondamente, dolorosamente vivi. E dimentichiamo – quasi – quel tragico, ossessivo richiamo di un applauso che non arriverà mai, quel suono che bramiamo come un antidoto alla nostra condanna, ma che ora, nella tua assenza, ha perso ogni significato.