— Strano, vero? Come due naufraghi alla deriva, cerchiamo di afferrare l’invisibile, di toccare con mani tremanti ciò che non si lascia afferrare. Ogni movimento che facciamo sembra vano, ogni passo un tentativo di avvicinarsi a qualcosa che ci sfugge sempre, come se la nostra esistenza fosse un gioco crudele che non abbiamo mai deciso di giocare, ma che siamo costretti a vivere. Le onde ci battono contro, ci fanno girare su noi stessi, eppure non siamo capaci di capire, di fermarci a riflettere su dove stiamo andando, su chi siamo davvero. Ci sfidano, le onde, ma non solo loro. Anche il cielo, che ci sovraintende con la sua vastità, sembra ridere di noi, mentre l'infinito ci circonda e ci annienta, lasciandoci impotenti di fronte a una verità che non possiamo comprendere. Ogni nostra speranza di raggiungere qualcosa di solido, di stabile, svanisce come la nebbia al mattino, e rimaniamo a galleggiare, alla deriva, aggrappandoci a ciò che ci pare un'ancora di salvezza, solo per scoprire che anche quella è fatta di sabbia.
— Naufraghi, sì, ma anche ciechi. Le onde ci portano lontano, e noi crediamo di scegliere una direzione. Eppure dell’eterno non sappiamo nulla. Né io né te. Non sappiamo nulla di questa strana realtà che ci circonda, del suo mistero che ci inghiotte. Ogni volta che pensiamo di trovare una strada, ci ritroviamo di fronte a un nuovo muro, a una nuova barriera che non ci permette di vedere oltre. La direzione che crediamo di scegliere è solo un'illusione, e noi siamo i primi a non riconoscerla. Siamo ciechi di fronte alla vastità dell’universo, incapaci di vedere che le stelle, quelle stesse stelle a cui ci aggrappiamo come fossero fiamme, non sono altro che luci lontane, inafferrabili, che ci raccontano storie di tempi che non esistono più. E non c’è nulla che possiamo fare per cambiarlo. Né io, né te, né chiunque altro. L’eterno, se mai esiste, è lontano da noi, troppo lontano. Siamo prigionieri di un tempo che non possiamo fermare, di un destino che non possiamo evitare.
— Né io né te. Né sappiamo quale sia il senso di questo abisso in cui siamo gettati. L’enigma ci avvolge come una nebbia che non si disperde mai, un velo che ci copre gli occhi, che ci impedisce di vedere la verità. Siamo come due pescatori in un mare che non si lascia pescare, cercando di agganciare qualcosa che non esiste, sperando che quella speranza, quella ricerca infinita, ci possa dare finalmente una risposta. Ma la verità è che non c’è risposta. Non c’è salvezza, non c’è verità che ci possa liberare. Ogni tentativo di penetrare questo abisso, di comprenderlo, di afferrarlo, ci spinge sempre più a fondo, ci fa perdere la bussola, ci fa dimenticare chi siamo. E, più cerchiamo di capire, più ci confondiamo. Siamo stanchi, ma non possiamo fermarci, perché fermarsi significerebbe soccombere, significerebbe perdere completamente il contatto con ciò che crediamo sia la nostra esistenza, con ciò che pensiamo di essere.
— È un gioco crudele. Il mondo è un enigma, e noi siamo le sue pedine. Giocatori e giocati, senza regole, senza scopo, in una danza senza ritmo, in un teatro senza attori. Eppure, continuiamo a ballare, senza mai fermarci, senza mai chiederci cosa stiamo cercando. Perché non possiamo smettere di giocare. Ci aggrappiamo al gioco come a un salvagente, come se fosse l’unica cosa che ci impedisce di affondare nel vuoto. Eppure, sappiamo che non ci salverà. Il gioco non ha vincitori. Non c’è un premio alla fine, solo il continuo ripetersi dello stesso ciclo, della stessa storia. Ogni mossa che facciamo ci porta più lontano dalla verità, ma non possiamo fare a meno di fare quelle mosse, come se ogni passo ci desse una ragione per andare avanti, per continuare a sperare in qualcosa che non arriverà mai. Il mondo, con le sue regole assurde, con le sue leggi incomprensibili, non fa altro che intrappolarci in un cerchio vizioso, e noi, come pedine, ci muoviamo in una danza senza fine, senza sapere neppure perché.
— Eppure siamo qui, a parlare, a cercare parole che abbiano un peso, un significato. Ma sono solo echi, rimbombi in una caverna vuota, in un abisso che non risponde. Le parole sono l’unico strumento che abbiamo, l’unica speranza di rendere tangibile qualcosa che ci sfugge. Cerchiamo di dar loro un significato, ma le parole sono vuote, sono solo ombre, frammenti di suono che non si legano mai insieme. Eppure, continuiamo a parlare, a cercare quelle parole che possano dare forma a ciò che ci sfugge, che possano finalmente mettere ordine nel caos. Ma sono solo echi, e non importa quanto forte gridiamo, quanto insistentemente cerchiamo di farle risuonare. Gli echi tornano sempre, ma non rispondono mai. Sono come riflessi in uno specchio rotto, che non ci mostrano mai la realtà. Eppure, non possiamo fare a meno di ripeterli, perché senza di essi, senza le parole, ci sentiremmo ancora più vuoti, ancora più persi.
— Forse è tutto ciò che abbiamo: echi. Ma mi chiedo, perché ci troviamo qui? Perché ci cerchiamo in questa notte che si allunga, che non ha fine, che ci avvolge in un silenzio che sembra inghiottire tutto? La notte sembra non finire mai, e ogni passo che facciamo ci porta più lontano, ma non verso la luce, non verso la fine di questa oscurità. Non sappiamo cosa stiamo cercando, né se abbiamo davvero trovato qualcosa. Ma continuiamo a cercare, come se quella ricerca fosse la nostra unica ragione di vita. Ma cosa stiamo cercando? Una risposta? Un senso? O forse stiamo solo cercando di sfuggire alla paura, al terrore di non sapere, di non comprendere mai? La notte si allunga, e noi siamo ancora qui, a cercare, a parlare, ma senza una risposta, senza un vero scopo. Eppure, non possiamo fermarci. Se smettessimo di cercare, cosa rimarrebbe?
— Perché siamo nascosti da un velo, e quel velo ci nasconde da noi stessi. Ma allo stesso tempo, ci tiene prigionieri in un mondo che non ci appartiene, che non possiamo comprendere. E forse temiamo il momento in cui quel velo cadrà, quando finalmente vedremo la verità, quella verità che ci ha sempre sfuggito. Ma quel velo è anche una protezione, è ciò che ci permette di vivere, di continuare a esistere. Senza di esso, ci perderemmo nell’oscurità, senza alcuna speranza di ritrovare una via d’uscita. Eppure, continuiamo a cercare, come se la protezione che ci offre fosse la nostra condanna. Non vogliamo che quel velo cada, perché senza di esso, senza la nostra illusione di sicurezza, non sappiamo chi siamo, non sappiamo più cosa stiamo cercando. Ma, allo stesso tempo, quel velo ci imprigiona, ci nasconde la realtà, ci fa vivere in un sogno che non finisce mai. Eppure, senza quel sogno, senza quel velo, cosa ci rimarrebbe?
— Quando cadrà, né io né te rimarremo. Ci sarà solo il vuoto, un vuoto che ci inghiottirà senza pietà. Non ci sarà più nulla di noi, niente di ciò che siamo stati, di ciò che abbiamo cercato. Sarà la fine, la fine di tutto. Eppure, in quel momento, qualcosa dentro di noi spera che non sia veramente la fine, che ci sia ancora qualcosa da scoprire, da comprendere. Ma non ci sarà niente. Solo silenzio, un silenzio che ci avvolgerà, che ci separerà da tutto ciò che abbiamo conosciuto. E, nel silenzio, non ci sarà più spazio per noi. Solo il vuoto.
— E allora cosa resta? Questa farsa? Questa commedia che ci inganna, che ci fa credere che stiamo facendo qualcosa di importante, che ci fa credere che stiamo vivendo? Ma in realtà, non stiamo facendo altro che recitare un ruolo che ci è stato imposto, senza nemmeno sapere da chi, senza sapere perché. Siamo spettatori e attori nello stesso tempo, ma non c’è pubblico ad applaudire. Non c’è nessuna fine, nessuna conclusione. Solo luci tremolanti e passi che risuonano nel vuoto. Eppure, continuiamo a recitare, perché non sappiamo fare altro. Non possiamo fermarci, perché senza la recita, senza il nostro ruolo, cosa ci rimarrebbe? Il silenzio, il vuoto. La fine.
— Resta il desiderio. Un desiderio che ci tormenta, che ci brucia dentro, che ci fa sentire vivi, ma che allo stesso tempo ci uccide. Un desiderio che non si placa mai, che ci spinge sempre più in là, verso qualcosa che non possiamo raggiungere. Ma continuiamo a sperare, a desiderare, perché senza di esso, saremmo nulla. Il desiderio è tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che ci tiene aggrappati alla vita, ma allo stesso tempo, è ciò che ci strazia, che ci fa perdere il contatto con la realtà. È un desiderio che non si può soddisfare, perché quello che desideriamo è inafferrabile, è lontano, eppure non possiamo fare a meno di seguirlo. Perché senza di esso, cosa saremmo? Nulla.
— Nulla, sì, ma è proprio quel nulla che ci attrae, che ci spinge verso l'ignoto. È quel vuoto che ci chiama, che ci sfida a riempirlo con le nostre illusioni, con le nostre speranze. E noi ci proviamo, disperatamente, sapendo che è tutto inutile. Perché il nulla non può essere riempito, eppure noi continuiamo a crederci. È un paradosso, una condanna. Eppure, senza quella condanna, senza quella lotta continua contro il vuoto, cosa ci rimarrebbe? La quiete? Ma la quiete è solo un altro nome per il nulla, e noi non vogliamo accettarlo. Preferiamo combattere, preferiamo illuderci, piuttosto che affrontare la realtà del vuoto.
— Forse è proprio questo il senso. Non c’è un traguardo, non c’è una verità da raggiungere. C’è solo il viaggio, la lotta, l’illusione. E noi siamo destinati a perderci in questo viaggio, a consumarci in questa lotta, a vivere e morire nelle nostre illusioni. Ma forse va bene così. Forse è questa la condizione dell’essere umano: cercare senza trovare, desiderare senza mai soddisfare il desiderio. E forse, in questo continuo fallimento, c’è una strana forma di bellezza. Una bellezza tragica, certo, ma pur sempre bellezza.
— Bellezza? O forse solo disperazione. Forse stiamo solo cercando di dare un senso a qualcosa che non ne ha. Forse ci stiamo aggrappando a queste parole, a queste idee, perché non vogliamo ammettere la verità. Che non c’è nulla. Che siamo soli, perduti, e che non c’è un motivo, né una direzione, né una meta. Ma, anche se fosse così, cosa cambierebbe? Continueremmo comunque a cercare, a parlare, a desiderare. Perché non possiamo fare altro. Perché è tutto ciò che siamo.