giovedì 9 gennaio 2025

Nel ventre

Nel ventre oscuro di questa giornata decrepita,
dove l’anima s’aggrappa a ruggini d’assenza,
mi si sbriciola il sorriso, uno ad uno i denti cadono
come frutti guasti d’un albero esausto.
Ogni risata si sgretola prima ancora di nascere,
come vetro sottile che si crepa al solo tocco del respiro.
La lingua, esausta di parole mai dette,
giace inerte tra le labbra screpolate,
custodendo con amarezza il sapore del nulla.
Eppure, il silenzio non consola,
si insinua come un verme sazio che attende la prossima offerta.
Lo sento arrotolarsi attorno alle ore,
stretto come una cintura invisibile che limita ogni respiro,
schiacciando i polmoni come un abbraccio mortale.
Ogni battito del cuore è un colpo più lento,
come se il tempo si spegnesse in un morso silenzioso,
incapace di sollevarsi dal peso della disperazione.

I capelli, reliquie di vanità perduta,
si sfilacciano sotto le dita febbrili,
cadendo come fili d’oro annerito
che si spezzano senza lamento né gloria.
Ogni ciocca caduta è un rosario sgranato,
una preghiera dissolta nell’indifferenza.
Il vento torbido li raccoglie e li sparge,
come polline avvelenato sulle rovine della sera.
Li seguo con lo sguardo, finché scompaiono,
diventando parte del paesaggio scrostato,
dove le ombre si muovono senza bisogno di corpi,
in un palcoscenico dove il buio recita la sua parte senza fine.
Le lunghe ombre si allungano come dita di morte,
tentando di afferrarmi, di farmi loro.
Ma io mi ritraggo, come se non fossi mai stato.
Mi consumo dentro di me,
mentre il mondo fuori mi sfugge tra le mani.

Porto i miei lutti come una veste lacera,
una stoffa intrisa di pianto rappreso,
e ogni piega s’insinua nei muri,
come un sudario che si scompone in mille filamenti.
Le stanze si stringono attorno al mio passo,
gli angoli si allungano come ombre di condanna,
e le pareti, ormai complici, sudano silenzio.
Ogni crepa nel muro è un sussurro,
ogni macchia un volto che non riesco a dimenticare.
A volte li intravedo di sfuggita,
come se l’intonaco ne custodisse il respiro,
come se il bianco delle pareti fosse solo una maschera
incapace di nascondere completamente il marcio sottostante.
Eppure, non posso fuggire.
Ogni spiffero d’aria porta con sé l’odore di un passato che non muore,
di un dolore che si ripete senza sosta,
senza nemmeno il conforto della sua fine.

La vita che mi rimane è un frutto andato a male,
un ventre vuoto che echeggia di promesse tradite,
un teatro di spettri che recita copioni già scritti.
La cornucopia sventolata il giorno del battesimo,
dove un tempo stillava miele e latte,
ora versa solo polvere, frammenti di specchi rotti.
Ogni pezzo riflette un’ombra diversa,
e ognuna di esse mi guarda con occhi familiari,
con lo stesso sguardo che scorgo nello specchio
quando il sonno si nega e la notte si stende infinita.
Vorrei scavalcare quella soglia,
entrare in quel riflesso e perdermi nel nulla,
ma i frammenti tagliano, feriscono,
e il sangue si mischia alla polvere senza lasciare traccia.
Ogni tentativo di evadere è un atto vano,
un volo senza ali che si schianta contro il muro del destino.
I sogni che un tempo mi riempivano si sono fatti sabbia,
si disperdono nel vento, svanendo come fumo.
Eppure, continuo a camminare,
poiché non ho altra scelta,
e ogni passo che faccio è solo una ripetizione di quello precedente.

Il demone non urla, non si agita,
non si diverte con fuochi e fiamme,
ma gioca con gli angoli della stanza,
strisciando piano lungo i battiscopa,
affilando la sua strategia nell’eco di passi inesistenti.
Lo sento sfiorarmi le palpebre chiuse,
lascia impronte invisibili su ogni pensiero
e si annida tra i battiti del cuore
come un amante troppo a lungo atteso.
Non mi sveglia con fragore,
ma con il soffio lieve di una carezza crudele,
scivolando nelle pieghe del cuscino,
sussurrando parole che non riesco a distinguere,
eppure so che parlano di me,
che scandiscono il mio nome come una nenia antica.
Il mio corpo trema, senza che le mani possano fermarlo,
come se fossi intrappolato in un sogno che non finisce,
come se stessi vivendo il mio stesso sepolcro.

I miei versi, nudi come mendicanti,
si aggirano tra i rifiuti della mente,
rovistano tra le ceneri dei giorni passati,
cercando una moneta arrugginita,
un resto d’oro che ancora brilli sotto la polvere.
Ma tutto ciò che trovano è la memoria scomposta,
fotogrammi sfocati che si sovrappongono,
volti che si spengono appena il ricordo li sfiora.
E così, tra i rifiuti, lascio che i miei versi si annidino,
attendendo, forse invano,
un'eco lontana che li redima o li trascini giù,
giù dove anche la luce si fa cenere e scompare,
e la notte, infine, si chiude come una bocca vorace.
La fine di ogni giorno è il mio unico compagno,
l’unica certezza che mi abbraccia senza fretta,
senza illusione di un domani migliore.

Resto qui, ad ascoltare l’agonia silenziosa delle ore,
mentre la stanza si riempie di ombre senza padrone.
E se la mattina arriverà,
sarà solo un pallido ricordo di luce,
un chiarore esitante che faticherà a trovare spazio
tra le crepe del giorno morente.
Ogni alba è una farsa che si recita su uno sfondo grigio,
un’inutile ribellione contro l’oscurità che è dentro di me.
Il mio corpo non vuole più svegliarsi,
ma la realtà continua a spingere,
come un mare in tempesta che mi sommerge,
senza nemmeno il conforto della riva.
Eppure, non c’è fine, non c’è riscatto.
Solo il dolore si ripete, e la polvere che mi ricopre,
come un sudario che non lascia speranza.