Il tempo sembrava non esistere più in quel luogo, come se ogni movimento avesse perso la sua direzione, come se le ore si fossero dissolte, lasciando solo una pesantezza che si accumulava negli angoli. C'era una calma che non sembrava naturale, una calma che sentivo come una pressione, una complicità di cose in sospeso che non avevano mai trovato il loro fine. Le pareti, le scale, i corridoi, tutto era avvolto in un silenzio che aveva il suono di una promessa non mantenuta. Ogni passo che facevo su quelle assi scricchiolanti sembrava parlare del passato, di un'altra esistenza che avevo vissuto in un’altra forma, eppure ogni passo era anche un cammino che non portava da nessuna parte. Mi chiedevo se anche il tempo stesso, in quel luogo, fosse diventato come quelle porte sprangate: solo un'illusione, qualcosa di cui si parlava ma che non esisteva più.
Ogni volta che mi fermavo, c'era una sensazione di straniamento, come se stessi vivendo una vita che non mi apparteneva. Gli oggetti, le cose intorno a me, sembravano appartenere a qualcun altro, a un’altra vita che non riuscivo a ricordare. Il mio corpo non era più il mio, come se qualcuno avesse preso possesso di esso senza che me ne accorgessi, come se qualcuno mi stesse usando come un involucro per mantenere viva una qualche presenza. Eppure, ogni tentativo di cercare una via di fuga, di guardare oltre le finestre sigillate, di spingere le porte sprangate, sembrava solo farmi capire quanto fosse inutile. Non c’era via di uscita, e forse non c’era nemmeno una ragione per uscirne. Ogni respiro diventava più difficile, come se l'aria stessa si fosse indurita, come se anche lei avesse deciso di smettere di muoversi. La realtà intorno a me sembrava dissolversi in un frammento infinito di riflessi e immagini sfuocate.
Le scale, che salivo ogni giorno senza mai sapere perché, non erano solo un cammino fisico, ma un viaggio nell’ignoto. Ogni gradino era come un pezzo di un puzzle che non riuscivo a risolvere. Salire era un atto meccanico, come se il mio corpo fosse stato programmato per farlo, come se non avessi altra scelta. Eppure, ogni gradino che affrontavo portava con sé il peso di un ricordo che non avevo mai vissuto. Le pareti che mi circondavano, le ombre che si allungavano al mio passaggio, non erano solo il frutto di un luogo dimenticato, ma anche i segni di una memoria che non riuscivo a recuperare. La mia mente cercava di riordinare il caos, ma la confusione cresceva, senza mai trovare pace. Ogni passo che facevo sembrava far crescere la distanza tra me e la mia consapevolezza, come se stavo camminando lontano da me stesso, in un viaggio che non aveva fine.
Nel corridoio, l’aria era densa come il fumo che si solleva lentamente da un incendio spento, come se ogni respiro che facevo fosse impregnato di una malinconia che non riuscivo a definire. Le porte, che avrei voluto aprire, rimanevano sigillate, impermeabili. Mi chiedevo se le stesse porte avessero mai permesso a qualcuno di uscire, o se fossero state sempre destinate a trattenere. La sensazione che provavo era quella di un destino che mi stava schiacciando senza tregua, come se ogni passo che compivo mi portasse a un inevitabile destino. Il cibo che veniva portato non aveva sapore, ma la sua presenza continuava a ripetersi, come un rito che non riuscivo a interrompere. Ogni boccone che ingoiavo era come una pillola amara che non mi dava pace, ma che non potevo rifiutare, perché nel rifiutarla avrei rifiutato anche l’unica cosa che mi legava a quel mondo ormai irriconoscibile. Eppure, nonostante il suo sapore insipido, quella sostanza sembrava essere l’unica cosa che avesse ancora significato. Il cibo mi ricordava che, anche se tutto intorno a me stava perdendo forma, c’era ancora un angolo di stabilità, per quanto fragile.
Eppure, non riuscivo a staccarmi dal pensiero di quelle finestre. Ogni volta che cercavo di avvicinarmi, il mio corpo sembrava rifiutarsi di andare oltre, come se una forza invisibile mi trattenesse. Eppure, guardando attraverso le fessure di vetro sporco, vedevo un mondo che non apparteneva più a me. I binari che si intrecciavano all’orizzonte, gli alberi che si piegavano al vento, tutto sembrava un’immagine sbiadita, un paesaggio che mi stava dicendo che il tempo fuori di lì non esisteva più. Le cose che avrei voluto fare, i luoghi che avrei voluto vedere, erano tutte promesse non mantenute. Ogni volta che la vista dei binari si perdeva all’orizzonte, mi sentivo come se fossi stato trascinato da un’altra forza, come se il mio corpo avesse smesso di appartenere al mio volere. Il mondo fuori di quelle finestre, con i suoi cieli grigi e i suoi orizzonti lontani, diventava solo una parte di un ricordo che avevo perso, un ricordo che non riuscivo più a riprendere.
Eppure, qualcosa mi spingeva a restare. Nonostante tutto, nonostante l’inquietudine, nonostante la stanchezza che mi consumava, restavo. Come una bestia che non sa dove andare, ma che ha imparato a vivere nell’attesa. Ogni passo che facevo nel corridoio mi ricordava che non c’era fuga, ma anche che la fuga non era necessaria. C’era una bestia che mi accompagnava, non più con la violenza che la contraddistingueva, ma con un senso di quiete. La bestia non era più solo un’ombra, ma una parte di me, come una ferita che non poteva guarire. Quando le nostre ombre si incrociavano, non c’era più paura. C’era solo una quiete silenziosa, come quella che si prova quando si capisce che non c’è nulla da fare, quando si accetta il peso di una verità che non si può più cambiare.
La notte scendeva senza che fosse invocata, con la stessa calma dei giorni che si susseguono senza che nessuno li noti. Le bambinaie svanivano come polvere nel vento, ma le loro presenze non mi lasciavano mai davvero. Sentivo la loro mancanza come una parte di me che non si era mai staccata. E il violino, che sembrava venire da un’altra dimensione, continuava a suonare. La sua melodia tremolante, carica di malinconia, mi avvolgeva come un manto, facendomi sentire che, anche se tutto era perduto, c’era qualcosa che continuava a vibrare. Quella musica, quella melodia, rappresentava tutto ciò che avevo perduto e tutto ciò che non avrei mai trovato. La sua tristezza diventava la mia tristezza, la sua solitudine la mia solitudine. E restavo, ad ascoltarla, a cercare di comprendere ciò che mi sfuggiva, mentre il silenzio della casa mi inghiottiva, lentamente, in un abbraccio eterno.
nota:
(Il testo esplora temi di prigionia mentale ed esistenziale, riflettendo sulla solitudine, sull'ineluttabilità di un destino ineluttabile e sull'impossibilità di trovare una via di fuga dalla propria condizione. L'autore descrive un luogo senza tempo, un ambiente opprimente e claustrofobico, dove il protagonista è intrappolato in una spirale di monotonia e abbandono. Le immagini di scale interminabili, porte sprangate, corridoi angusti e finestre sigillate suggeriscono un isolamento fisico e psicologico.
Il protagonista vive una separazione tra sé e il mondo, incapace di agire, ma allo stesso tempo senza la possibilità di fermarsi o di uscirne. La sua esperienza sembra essere quella di un'autoconsapevolezza intrappolata, dove il corpo e la mente sono dissociati, e ogni tentativo di fuga si rivela vano. La presenza di "bambinaie" che osservano come statue e il riferimento a "binari" lontani indicano la sensazione di essere osservati, come se il protagonista fosse solo un pezzo di un ingranaggio che non può sfuggire al proprio destino.
La musica, con il violino che suona una melodia triste e tremolante, rappresenta il filo sottile che lega il protagonista alla sua sofferenza, alla sua solitudine, ma anche una sorta di rassegnazione accettata. La "bestia" che accompagna il protagonista è una metafora della sua sofferenza interiore, qualcosa di ineluttabile e che non può essere separato dalla sua esistenza.
In sintesi, il testo esplora il conflitto interno di un individuo prigioniero della propria mente, incapace di trovare sollievo o via di uscita, ma anche consapevole di essere legato, in modo silenzioso e doloroso, alla sua condizione di esistenza.)