Il cinema di Paolo Sorrentino si distingue per una cifra stilistica inconfondibile, caratterizzata da un’estetica sontuosa, una narrazione sospesa tra il lirismo e il grottesco, e una continua ricerca di immagini che abbiano un valore simbolico oltre che visivo. Il suo è un cinema che divide: c’è chi lo considera un maestro della forma, capace di creare universi visivi unici e inconfondibili, e chi lo accusa di essere manierista, eccessivamente concentrato sull’estetica a scapito del contenuto. Qualunque sia la posizione che si assume nei confronti del suo lavoro, è innegabile che Sorrentino abbia costruito un immaginario cinematografico potentissimo, popolato da figure eccentriche, ambientazioni cariche di significato e una regia che si muove con la sicurezza di chi ha ben chiaro cosa vuole comunicare. Ma cosa vuole comunicare davvero, quando racconta Napoli?
La città partenopea è un elemento centrale nella sua filmografia, non solo come luogo fisico, ma come idea, come visione, come archetipo narrativo. Napoli non è mai un semplice sfondo nelle sue opere, bensì un elemento che contribuisce a definire l’identità stessa dei suoi personaggi e delle loro vicende. Tuttavia, è proprio il modo in cui questa città viene rappresentata a suscitare dibattiti e divisioni. Napoli, nel cinema di Sorrentino, appare come una città sospesa tra mito e realtà, un luogo che esiste più nella sua memoria personale che nella concretezza del presente. Il regista non è interessato a un racconto sociale o storico della città, né sembra preoccuparsi di offrire una visione autentica della sua vita quotidiana. Il suo obiettivo è piuttosto quello di costruire una Napoli mitica, estetizzata, filtrata attraverso un immaginario che attinge tanto alla tradizione culturale quanto alle sue personali suggestioni visive.
Questa impostazione è evidente in film come È stata la mano di Dio, in cui Napoli non è semplicemente il luogo dell’infanzia del protagonista, ma un territorio della memoria, uno spazio emotivo più che geografico. Le strade, i palazzi, il mare e il Vesuvio non sono mai rappresentati con un intento realistico, ma sempre con un filtro nostalgico e visionario, che trasforma la città in un palcoscenico quasi onirico. Questa scelta, per quanto legittima dal punto di vista artistico, può risultare problematica per chi conosce Napoli nella sua complessità e non si riconosce nell’immagine che il regista ne restituisce.
La Napoli di Sorrentino è infatti una città costruita per il cinema, più che una città reale. È un luogo in cui la bellezza e la decadenza si fondono in un equilibrio perfetto, in cui la luce gioca sempre un ruolo essenziale nel definire l’atmosfera, in cui ogni dettaglio è studiato per creare un effetto di sospensione, di estraniamento. Questo può essere affascinante per chi ama il suo stile, ma rischia di risultare artificiale per chi cerca una rappresentazione più autentica della città. Napoli è una metropoli complessa, stratificata, contraddittoria, piena di tensioni e vitalità: un organismo in continuo mutamento, difficile da catturare in una singola immagine o in un singolo racconto. Nel cinema di Sorrentino, però, Napoli sembra spesso congelata in una visione che ne fa un’icona estetica più che una città viva.
Questa tendenza si accentua in Parthenope, il suo nuovo film, il cui titolo stesso rimanda alla leggenda della sirena Partenope, la creatura mitologica che, secondo il mito, avrebbe dato origine alla città. Il riferimento alla sirena colloca immediatamente il racconto su un piano simbolico e mitico, allontanandolo ulteriormente da una dimensione realistica. Napoli, in Parthenope, non è una città nel senso tradizionale del termine, ma un’idea, un’evocazione, un luogo dell’anima più che dello spazio fisico. Questa scelta conferma la volontà del regista di lavorare su un immaginario che non ha nulla a che fare con la realtà storica e sociale della città, ma piuttosto con la sua dimensione più evocativa e astratta.
Il rischio di questo approccio è che la sua Napoli finisca per apparire come un insieme di immagini già viste, un mosaico di cartoline artisticamente costruite che, per quanto affascinanti, non restituiscono la complessità della città. Il cinema di Sorrentino sembra nutrirsi di un repertorio di simboli preesistenti, di elementi che fanno parte di una certa idea di Napoli diffusa a livello internazionale: il mare, il sole, le architetture barocche, la teatralità dei suoi abitanti, la bellezza mescolata alla decadenza. Ma questi elementi, presi singolarmente, non bastano a raccontare la vera natura della città, che è molto più sfaccettata e imprevedibile di quanto il suo cinema lasci intendere.
Esistono registi che hanno saputo cogliere la complessità di Napoli senza rinunciare alla poesia. Mario Martone, ad esempio, ha costruito una filmografia che esplora la città attraverso una prospettiva storica e culturale, senza mai trasformarla in un semplice fondale scenografico. Antonio Capuano ha raccontato Napoli con uno sguardo più diretto e viscerale, capace di restituire le tensioni sociali e umane della città con un realismo privo di filtri estetizzanti. Matteo Garrone, con Gomorra, ha offerto una visione di Napoli spogliata di ogni retorica, ridotta alla sua essenza più brutale e concreta. Rispetto a questi autori, Sorrentino appare distante, quasi scollegato dalla realtà, più interessato a costruire un’estetica personale che a raccontare la città nella sua verità.
Il problema non è tanto che il suo cinema sia onirico e simbolico – il cinema, per sua natura, è un’arte che trasfigura la realtà. Il punto è che il suo modo di raccontare Napoli sembra sempre appoggiarsi su un immaginario consolidato, senza mai tentare di scardinarlo o metterlo in discussione. È una Napoli che esiste più nel suo cinema che nella vita reale, una città che diventa un pretesto per una narrazione autoreferenziale, in cui l’estetica conta più della sostanza. Questo approccio può risultare efficace per chi cerca un’esperienza visiva potente e immersiva, ma può anche generare una sensazione di freddezza, di artificiosità, di distanza.
Napoli è una città che ha ispirato innumerevoli artisti, scrittori e registi, e continuerà a essere raccontata in modi sempre nuovi. La questione non è se il cinema di Sorrentino sia giusto o sbagliato, ma se la sua Napoli, così raffinata e costruita, riesca davvero a catturarne l’anima o se, al contrario, finisca per ridurla a un’immagine da cartolina. Il suo sguardo, per quanto elegante e potente, rischia di creare una città che esiste solo nel suo cinema, una Napoli estetizzata e manierata che, pur nella sua bellezza, finisce per risultare distante dalla realtà.