L'annuncio di Luca Guadagnino di voler affrontare la realizzazione di "Aryan Papers" ha sollevato una serie di domande e preoccupazioni. Non si tratta di un semplice progetto, ma di un tentativo di ereditare l’ambizione di un regista leggendario come Stanley Kubrick, che nel corso della sua carriera aveva tentato, senza successo, di portare a termine il film basato su "The Aryan Papers", una storia ambientata durante l'Olocausto, ispirata ai racconti di Theresienstadt, il ghetto di concentramento nella Cecoslovacchia. Kubrick non riuscì mai a completare il progetto, forse proprio per il suo complesso, per il modo in cui il tema avrebbe richiesto una cura speciale e un rispetto assoluto della memoria storica. L’idea di Guadagnino di rivisitare un progetto tanto monumentale solleva, inevitabilmente, una riflessione sull’opportunità di affrontare una storia tanto dolorosa. Si tratterebbe di una grande sfida, ma anche di una sfida che potrebbe finire con il rivelarsi completamente al di fuori della portata del regista siciliano, che ha sempre mostrato di preferire storie intime, sensibili, e soprattutto eleganti, ma raramente storicamente rilevanti o critiche.
Guadagnino, per quanto talentuoso e visivamente impeccabile, ha sempre dimostrato una predilezione per il cinema estetico, per una rappresentazione del mondo che sembra più concentrata sull’estetica della bellezza che sull’approfondimento delle tematiche sociali o storiche. Questo suo approccio cinematografico, che ha avuto indubbiamente il suo posto in opere come "Chiamami col tuo nome", è però ben lontano dall’essere appropriato per raccontare una tragedia storica di proporzioni così immense come quella della Shoah. Nel film che portò al successo internazionale, Guadagnino ha esplorato la ricerca della propria identità e del primo amore in modo delicato e personale, costruendo un racconto che esprimeva una verità intima, ma che non aveva bisogno di confrontarsi con il peso della storia. La Shoah, però, non è un tema che può essere trattato con la stessa leggerezza. La sua enormità, la sua brutalità e la sua rilevanza universale impongono una visione che non si limiti a un punto di vista individuale, ma che riesca a rappresentare una collettività, una società intera travolta da un evento devastante. Un evento che, purtroppo, ha segnato le vite di milioni di persone e cambiato per sempre il corso della storia.
Il rischio che Guadagnino possa trattare la Shoah con la stessa estetica patinata e superficiale che ha usato nei suoi film precedenti è molto concreto. Non si tratta di mettere in discussione il talento del regista, ma di comprendere che certi temi necessitano di un approccio molto diverso. L’estetica, in questo caso, può diventare pericolosa: una rappresentazione troppo curata, troppo bella da vedere, potrebbe in qualche modo allontanare lo spettatore dalla realtà cruda e devastante degli eventi. L’Olocausto non è un’immagine da ammirare, non è un luogo da visitare con la stessa curiosità estetica che potrebbe muovere un viaggiatore che esplora paesaggi affascinanti. L’approccio alla memoria storica deve essere gravato di una responsabilità che non può essere solo visiva, ma che deve affondare nella coscienza collettiva, nei fatti storici, nei testimoni e nelle testimonianze. Ecco perché l'arte non può ridursi a una questione di forma, di eleganza o di bellezza: ha bisogno di sostanza, di profondità.
Guadagnino, nel suo stile, è sempre stato abile nell’incorporare emozioni sottili e relazioni personali nei suoi film, creando una sorta di mondo sospeso, dove i sentimenti umani si fondono con l’estetica visiva. Ma il tema dell’Olocausto non è affatto qualcosa che possa essere interpretato come una questione privata o emotiva di pochi individui. La Shoah è una tragedia collettiva che non può essere ridotta alla sofferenza di un solo personaggio o al racconto di un singolo vissuto. L’orrore della deportazione, dei campi di concentramento, dell’annientamento sistematico di milioni di persone non può essere raccontato con il focus su uno sguardo individuale. La sofferenza deve essere trattata come un fenomeno storico globale, che va al di là dell’esperienza personale e che riguarda tutti, anche chi non ha vissuto direttamente l’evento. Un film sulla Shoah non può essere solo un racconto di storie private, ma deve guardare alla collettività, alla storia, e al significato che essa porta con sé.
Anche nel suo tentativo di realizzare una nuova versione di "Suspiria", Guadagnino ha scelto di immergere il suo film in un mondo visionario, surreale e distorto, che fa dell’orrore psicologico e della bellezza visiva il proprio punto di forza. Tuttavia, anche in questo caso, la violenza e il dolore mostrati non erano storicamente ancorati a un contesto concreto, ma erano parte di un mondo oscuro e simbolico. "Suspiria" non cercava di affrontare una realtà storica, ma di creare un universo in cui l’orrore fosse qualcosa di astratto e immaginario. In un film sull’Olocausto, invece, l’orrore è ben radicato nella realtà, ed è indispensabile trattarlo con la stessa serietà con cui la storia ha trattato questo tema. La violenza non è più simbolica, ma vera, e le vittime non sono più astratte, ma reali. Non possiamo permetterci di raccontare la Shoah come un altro pretesto per evocare paure e fantasmi; è qualcosa che va affrontato in modo diretto, senza scappatoie estetiche.
A questo punto, la domanda cruciale è se Guadagnino sia davvero in grado di portare avanti un progetto tanto ambizioso come "Aryan Papers". Non è questione di capacità cinematografica, ma di scelta estetica. La sua filmografia, pur essendo indubbiamente affascinante, ha sempre mostrato una predilezione per storie di intimità, di relazioni umane e di emozioni personali, mai per grandi tragedie storiche. La Shoah non può essere ridotta alla narrazione di un singolo individuo, alla scoperta del sé o a una ricerca di identità. È una storia che coinvolge il mondo intero e che non può essere raccontata con le stesse chiavi stilistiche usate per esplorare temi molto più privati e, in un certo senso, leggeri.
La visione di Kubrick, in questo senso, era molto più appropriata, poiché non cercava di raccontare la Shoah attraverso gli occhi di un singolo personaggio, ma di osservare l'intero contesto con una fredda, lucida e disillusa obiettività. La sua arte non mirava a estorcere emozioni facili, ma a raccontare la verità storica attraverso una visione che fosse intellettualmente onesta e umanamente rispettosa. Kubrick non cercava di vendere l’Olocausto come un prodotto cinematografico, ma di rappresentarlo per quello che era: una tragedia che non si sarebbe mai dovuta dimenticare.
In definitiva, Guadagnino rischia di trasformare "Aryan Papers" in un film che, purtroppo, potrebbe non fare giustizia a un tema così devastante. La sua ricerca estetica potrebbe privare il film della sostanza che un argomento del genere richiede, riducendo la Shoah a una rappresentazione visivamente accattivante ma priva di quella verità storica che è fondamentale per non tradire il ricordo di una delle tragedie più grandi che l’umanità abbia mai conosciuto. Se Guadagnino dovesse davvero insistere su questo progetto, rischia di non solo fallire nella sua realizzazione, ma anche di alimentare una visione della Shoah che non è quella che il mondo ha bisogno di vedere e ricordare.