mercoledì 5 febbraio 2025

Facevamo finta di niente (appunti)

Facevamo finta di niente, e lo facevamo così bene che, a volte, quasi ci credevamo. Parlavamo di tutto tranne che di ciò che ci bruciava dentro, riempiendo il silenzio con frasi innocue, scambiandoci sorrisi che avevano il peso delle maschere. Eravamo bravi, noi due, a giocare con le parole come se fossero scialuppe su cui salvarci da un naufragio inevitabile, e forse, per un po’, quell’inganno ci era sembrato sufficiente. Ma in fondo sapevamo che non era così, che ogni frase pronunciata era solo un tentativo maldestro di distrarci da ciò che non osavamo dire, che il nostro parlare d’altro era in realtà una lingua segreta, un codice fatto di omissioni, di sguardi trattenuti più a lungo del necessario, di pause che rivelavano più di quanto celassero.

Ogni dettaglio contava: il modo in cui le dita sfioravano il bordo di un bicchiere, il respiro che si faceva appena più profondo prima di una risposta, lo sguardo che si abbassava un istante di troppo prima di tornare a incrociare l’altro. Erano segni minimi, impercettibili per chiunque ci avesse osservato da fuori, ma per noi erano tutto. Più ci sforzavamo di ignorare ciò che ci legava, più quel legame diventava ineludibile, ci avvolgeva come una rete invisibile, tessuta con fili sottili di luce e ombra, una trama intessuta di attese, di esitazioni, di possibilità che si sfioravano senza mai compiersi del tutto.

La stanza intorno a noi sembrava sospesa in una quiete irreale, come se il tempo avesse smesso di scorrere nel momento esatto in cui ci eravamo trovati l’uno di fronte all’altro. Il lume fioco di una lampada creava bagliori dorati sulle superfici, allungava le ombre sugli oggetti, rendeva ogni movimento più lento, più denso. Il rumore distante della città filtrava appena dalle finestre socchiuse, un brusio lontano che sembrava appartenere a un altro mondo, un mondo che, in quell’istante, non ci riguardava. C’eravamo solo noi, e quel silenzio che ci stringeva come un destino già scritto.

In quei momenti, anche senza dircelo, capivamo di essere giunti insieme su un orizzonte che pochi raggiungono, un punto in cui il confine tra sogno e realtà si faceva labile, in cui il tempo sembrava perdere consistenza e ogni battito del cuore risuonava con un’intensità quasi dolorosa. Era una sensazione che ci spaventava e ci attraeva allo stesso tempo, un richiamo irresistibile verso qualcosa che non sapevamo se potevamo permetterci di toccare. Eppure, nonostante tutti i tentativi di negarlo, sentivamo che quell’attimo ci apparteneva, che ci stavamo muovendo su un filo sottilissimo tra ciò che eravamo stati e ciò che avremmo potuto essere.

C’era qualcosa di sacro in quella tensione, in quel trattenersi sull’orlo di una confessione mai pronunciata. E c’era anche paura, certo, perché sapevamo che ogni passo avanti sarebbe stato definitivo, che una volta oltrepassata quella soglia non saremmo più potuti tornare indietro. La verità era lì, sospesa tra di noi, e ci guardava con la stessa insistenza con cui noi cercavamo di evitarla.

Le stelle, fuori dalla finestra, sembravano incredibilmente vicine, quasi come se avessero abbassato il loro velo per permetterci di vederle più chiaramente. E noi, in quell’istante sospeso, ci sentivamo complici di qualcosa di più grande di noi, di un miracolo che accade una sola volta nella vita. Lo sapevamo, lo sentivamo nelle ossa, e forse proprio per questo ci aggrappavamo a quell’attimo con tutta la forza del nostro silenzio, consapevoli che stringerlo troppo forte lo avrebbe spezzato, che tentare di afferrarlo con troppa avidità lo avrebbe fatto svanire tra le dita.

E così restavamo lì, immobili, sospesi in un equilibrio precario tra il passato e il futuro, mentre tutto intorno a noi il mondo continuava la sua corsa indifferente, ignaro del fatto che avevamo toccato il cielo con un dito. Ma quel cielo, una volta sfiorato, non sarebbe mai più stato lo stesso. Noi non saremmo mai più stati gli stessi.

E un giorno, quando gli anni avranno steso il loro velo opaco su quei ricordi, quando la nostra giovinezza sarà solo un’eco lontana, parleremo di quei giorni con la stessa reverenza con cui si raccontano le antiche leggende, con lo stesso stupore nostalgico di chi ha visto qualcosa di straordinario e sa che non potrà mai più rivederlo. Diremo che eravamo solo due ragazzi, due passeggeri su un treno diretto verso direzioni opposte, che si sono incrociati per un istante lasciandosi addosso un’impronta indelebile.

Forse racconteremo di loro con affetto, con quel misto di tenerezza e rimpianto che appartiene solo ai ricordi più preziosi. E forse ci verrà da chiamarla invidia, quella stretta improvvisa al cuore, perché ammettere che si tratta di rimpianto sarebbe troppo, sarebbe una verità troppo dura da sostenere.

E così continueremo a raccontare quella storia come se non fosse la nostra, come se quei due giovani fossero solo fantasmi che ci accompagnano da sempre, figure evanescenti che, a ogni ricordo, sembrano allontanarsi un po’ di più, fino a quando non resterà di loro che un’ombra, un’eco, una scintilla di quel cielo stellato che, una volta, avevamo avuto il coraggio di chiamare nostro.

Ma nei momenti più silenziosi, quando il resto del mondo sarà lontano e il tempo sembrerà fermarsi ancora una volta, chiuderemo gli occhi e ci ritroveremo lì, in quella stanza illuminata dalla luce fioca di una lampada, con il brusio della città che si dissolve in sottofondo e le stelle che ci osservano da dietro il vetro. Sentiremo ancora il battito accelerato del cuore, il respiro che si fa incerto, la tensione che si accumula nello spazio che ci separa.

E allora sapremo che, per quanto lontani possiamo essere andati, per quante altre vite possiamo aver vissuto, quel momento non ci avrà mai veramente lasciato. Continuerà a esistere in qualche piega nascosta del tempo, in qualche angolo della memoria dove le cose più vere e più preziose si rifugiano quando il resto del mondo cerca di cancellarle.

E noi, in fondo, continueremo a cercarlo.