Anna Maria Ortese è una delle figure più straordinarie e complesse della letteratura italiana del Novecento, la cui opera è il risultato di un incontro tra il bisogno di esplorare i recessi più profondi dell’animo umano e la ricerca di una lingua che fosse capace di esprimere il mistero intrinseco dell'esistenza. La sua scrittura è come un tessuto delicato e intricato, che non lascia nulla al caso e che, al contrario, si riflette in ogni frase e in ogni parola, dando forma a una visione del mondo che è tanto affascinante quanto enigmatica. Il suo stile, sempre fluido e intriso di una potente forza evocativa, è un mezzo con cui riesce a superare le barriere tra l’individuo e il suo ambiente, per immergersi in un mondo che si fa interprete del dolore, della solitudine, ma anche della bellezza, della speranza e della trasformazione. Ortese scrive in modo che la realtà, così come la concepiamo, non è mai qualcosa di fisso, ma una trama in costante movimento, in divenire, e questa fluidità, purtroppo, a volte fa sfuggire il lettore, ma è proprio questo il punto di partenza per chi voglia capire la sua scrittura.
Una scrittura tra il razionale e l'irrazionale
Il principale elemento che caratterizza la scrittura di Ortese è il suo continuo attraversamento dei confini tra il razionale e l’irrazionale, il concreto e il fantastico, il mondo esterno e quello interno. Le sue opere non seguono il solco tracciato dalla narrativa tradizionale, ma propongono un’alternativa radicale che mescola elementi di realismo e fantasia, creando mondi in cui il confine tra ciò che è possibile e ciò che non lo è diventa sempre più labile e indistinto. Questa fusione di realtà e immaginazione è il fondamento stesso della sua scrittura, che diventa, di fatto, un atto di esplorazione della psiche umana, una ricerca che non ha paura di affrontare il mistero della mente e delle sue irrazionalità.
Ortese scrive sempre per sfidare le convenzioni narrative, e lo fa attraverso una prosa che gioca con la grammatica e la sintassi, dando vita a strutture inaspettate, a frasi che sembrano porsi in una dialettica di continuità e rottura. La sua scrittura non è mai statica, ma è un flusso di coscienza che segue il movimento della mente del personaggio, e anche quando l’autrice si cimenta con la descrizione della realtà, è come se la realtà stessa non fosse più qualcosa di concreto, ma un’ombra, un’illusione che sfugge continuamente alla nostra comprensione. La scrittura di Ortese non è un semplice racconto di eventi, ma un modo di vedere, di sentire, di riflettere sulla realtà che ci circonda, trasformando ogni esperienza in un percorso che va oltre il visibile e il percepibile.
Il conflitto tra la luce e l’ombra: Il contrasto tra la luce e l’ombra è un altro tema che emerge costantemente nell’opera di Ortese, un conflitto che non si risolve mai e che trova una sua espressione in un’analisi delle diverse dimensioni dell'esistenza, da quella fisica a quella psicologica, da quella materiale a quella spirituale. Questo conflitto diventa una delle chiavi di lettura della sua scrittura, un modo per far emergere non solo la contraddittorietà dell’individuo, ma anche la relatività della percezione umana. La luce, pur essendo la forza che illumina, è anche la fonte del dolore, della sofferenza, della solitudine, mentre l’ombra, pur essendo associata al buio, all’incertezza, alla paura, è anche la via che porta alla comprensione del mistero della vita.
In questo senso, la scrittura di Ortese è sempre un movimento tra due opposti: la luce della ragione e il buio dell'irrazionale. La sua opera, quindi, non si limita a descrivere la realtà così come è, ma si interroga su di essa, cercando di esplorarne ogni piega, ogni angolo nascosto, rivelando la sua duplice natura di bellezza e sofferenza, di verità e illusione. L’autrice non è mai accontentata della superficie, ma spinge sempre oltre, cercando di comprendere e di restituire la verità delle cose attraverso la molteplicità di sensazioni, emozioni e pensieri che si sovrappongono e si intrecciano nei suoi personaggi. La verità, per Ortese, non è un’unica, solida realtà, ma è fatta di strati, di sfumature, di significati che vanno oltre il visibile e che si rivelano solo a chi è disposto a guardare oltre l’apparenza.
Il ruolo del sogno: Un altro aspetto centrale nella scrittura ortesiana è il ruolo del sogno e dell’onirico. Per Ortese, il sogno non è mai un semplice riflesso della realtà, ma una dimensione parallela in cui la coscienza si libera dalle costrizioni della logica e della razionalità, per confrontarsi con la parte più nascosta di sé. Nei suoi romanzi, il sogno non è solo un’espansione della realtà, ma una realtà a sé stante, che è tanto significativa quanto il mondo fisico, ma che sfugge alla nostra comprensione diretta.
In Il mare non bagna Napoli, Ortese mescola con maestria il sogno e la realtà, creando un mondo in cui i confini tra il visibile e l’invisibile sono sfumati, dove i personaggi sembrano vivere in un limbo sospeso tra l’essere e il non essere. Il sogno diventa il luogo in cui la verità si rivela in tutta la sua ambiguità, dove il personaggio si confronta con la sua propria natura e con i suoi desideri più profondi, ma anche con le sue paure più nascoste. In questo spazio onirico, la realtà non è mai una certezza, ma una materia che si modifica, si trasforma e si reinventa, proprio come le immagini che emergono nel sogno.
Ortese non si limita a trattare il sogno come un mero strumento narrativo, ma lo rende un elemento centrale della sua poetica, una modalità attraverso cui scoprire nuovi modi di essere e di pensare. Il sogno diventa per lei una forma di resistenza, una possibilità di sfuggire alla tirannia della realtà quotidiana, e al contempo, una via per entrare in contatto con quella dimensione più profonda dell’animo umano che la ragione non è in grado di comprendere.
La centralità dell’individuo e la sua lotta con la realtà
Un altro aspetto fondamentale della scrittura di Ortese è la centralità dell'individuo, inteso non come parte di un sistema sociale o collettivo, ma come un’entità isolata, che vive una relazione di conflitto con il mondo che lo circonda. Le sue opere sono popolati da personaggi che vivono un’esistenza solitaria, sempre alla ricerca di un senso che non riescono a trovare nelle convenzioni sociali o nelle regole imposte dalla società. I personaggi ortesiani sono spesso figure emarginate, marginali, persone che si trovano a fronteggiare una realtà che non li comprende, che non li accetta, e che spesso si rivela ostile, indifferente, perfino crudele.
In L’iguana, la protagonista è un’anima lacerata, divisa tra il bisogno di entrare in contatto con gli altri e la consapevolezza che, per quanto ci provi, l’isolamento è il suo destino. Le sue interazioni con il mondo sono intrise di una tristezza malinconica, di una rassegnazione che non è però mai passiva, ma è sempre accompagnata da un tentativo di resistenza, di ricerca di un significato che possa giustificare il dolore e la solitudine.
La solitudine è un tema che ritorna in molte delle opere ortesiane. Non si tratta di una solitudine passiva, ma di una condizione esistenziale che diventa il punto di partenza per una riflessione profonda sulla natura dell’essere, sulla difficoltà di trovare un posto nel mondo e di dare un senso alla propria vita. La scrittura di Ortese è sempre un’indagine sull’individuo, un’indagine che non si limita alla superficie della sua vita, ma che va a scavare nelle profondità della sua psiche, nei suoi sogni, nelle sue paure, nei suoi desideri più reconditi.
La solitudine, quindi, non è per Ortese qualcosa di negativo in sé, ma diventa una condizione che, pur dolorosa, consente al personaggio di raggiungere una comprensione più profonda di sé stesso e del mondo che lo circonda. È solo attraverso questa solitudine che il personaggio può trovare una risposta alle domande più esistenziali e aprirsi a una nuova consapevolezza della sua condizione. Non è mai una ricerca facile, né un percorso lineare, ma è una lotta continua con la realtà, con le sue contraddizioni, con le sue ingiustizie, ma anche con le sue potenzialità, le sue bellezze, i suoi misteri.
La bellezza come percorso doloroso
La bellezza, nell’opera di Ortese, è sempre qualcosa che si raggiunge attraverso la sofferenza. Non è mai un’estasi, ma una consapevolezza che emerge dalla difficoltà, dal dolore, dall’esperienza di un mondo che è spesso brutale, indifferente e ingiusto. La bellezza ortesiana è una bellezza che si fa strada tra le macerie dell’esistenza, una bellezza che nasce dalla lotta, dalla resistenza, dalla ricerca incessante di un senso che non si trova mai nella superficie delle cose, ma che si nasconde dietro le ombre della realtà.
La bellezza di Ortese non è mai facile, non è un conforto, ma una conquista che nasce dalla consapevolezza del dolore e della finitezza dell’essere. È una bellezza che non ha nulla di consolatorio, ma che ha una potenza che proviene dalla sua stessa difficoltà, dal suo stesso essere frutto di una continua e faticosa ricerca. In questo senso, la scrittura di Ortese è anche un invito a guardare il mondo con occhi nuovi, a non accontentarsi della visibilità superficiale delle cose, ma a cercare ciò che si nasconde oltre l’apparenza, a scoprire la bellezza che giace dietro la sofferenza, nel cuore della condizione umana.