martedì 1 luglio 2025

Processi di autoriparazione nel calcestruzzo romano: analisi archeometrica e implicazioni per l’ingegneria dei materiali

Un’indagine sul ‘hot mixing’ e sulla durabilità strutturale nell’edilizia antica



Abstract

Per secoli, il cemento romano è stato ammirato per la sua durabilità, ma frainteso nei suoi principi costitutivi. Questo saggio esplora come una nuova interpretazione dei cosiddetti “difetti” nella miscela antica — i grumi di calce viva — abbia portato a una rivoluzione nella comprensione dei materiali da costruzione romani. Grazie alle ricerche recenti condotte dal MIT, emerge che i romani praticavano una tecnica deliberata, oggi definita hot mixing, in grado di rendere il calcestruzzo capace di autoripararsi. L’articolo ripercorre la storia del pregiudizio accademico che ha oscurato per secoli questa conoscenza, intrecciando dati scientifici, archeologia dei materiali e riflessioni culturali sul rapporto tra costruzione e durata. Ne risulta un invito a riconsiderare il valore dell’intelligenza ingegneristica antica come fonte di innovazione sostenibile per l’edilizia contemporanea.



Indice

  1. Introduzione – La fragilità dei nostri edifici moderni
  2. Il Pantheon e la memoria della pietra
  3. Il mistero dei grumi bianchi
  4. Un pregiudizio accademico durato secoli
  5. Il ritorno al cantiere: il cemento vivo dei romani
  6. La scoperta del MIT e la "hot mixing"
  7. L’autoguarigione dei materiali: un’intuizione perduta
  8. Dal genius loci al genius ingegneriae
  9. Le implicazioni per l’edilizia del futuro
  10. Conclusione – Archeologia dell’intelligenza

1. Introduzione – La fragilità dei nostri edifici moderni

Viviamo circondati da cemento e vetro, eppure spesso abbiamo la sensazione che le nostre città stiano invecchiando male. I ponti crollano, le gallerie si sbriciolano, le facciate si sgretolano appena un po’ di pioggia decide di essere più insistente del solito. E allora ci chiediamo: è davvero questo il massimo che possiamo fare? Con tutta la nostra tecnologia, davvero le nostre opere sono destinate a durare così poco?

In fondo, una domanda elementare attraversa la mente di chiunque cammini tra le rovine dell’antichità: com’è possibile che certe costruzioni romane, seppur consumate dal tempo, stiano ancora in piedi dopo venti secoli?

Questa è la storia di un errore di valutazione durato oltre mille anni. Ma è anche il racconto di una forma di intelligenza costruttiva che abbiamo ignorato, e che ora — forse — possiamo tornare ad ascoltare.


2. Il Pantheon e la memoria della pietra

Il Pantheon è lì, al centro di Roma, come se il tempo non potesse sfiorarlo. Nessun edificio moderno potrebbe sopportare quello che ha sopportato la sua cupola. La più grande mai costruita in calcestruzzo non armato, ancora oggi considerata un capolavoro insuperato.

Perché non si è crepata? Perché non è crollata? La risposta non sta solo nella forma architettonica, nel genio di Apollodoro di Damasco o nella visione di Adriano. Sta in ciò che regge quella forma: il materiale.

Il cemento romano non è il nostro cemento. Non è solo più resistente: è diverso nella sua intima natura. Vive, reagisce, cambia. E lo fa secondo principi che abbiamo faticato a comprendere.


3. Il mistero dei grumi bianchi

Durante i restauri e le analisi condotte su diverse strutture romane — dal Pantheon agli acquedotti, dai templi alle ville imperiali — si notavano sempre quegli strani grumi bianchi nel calcestruzzo. Per secoli gli archeologi e gli ingegneri li hanno interpretati come impurità, residui di lavorazione, difetti dovuti alla scarsa omogeneità degli impasti.

Erano troppo evidenti per non notarli, ma troppo anomali per essere capiti. L’idea dominante era che si trattasse di segni di un’epoca ancora primitiva della tecnologia costruttiva. I romani, in fondo, non avevano a disposizione la raffinata filiera industriale del cemento moderno.

Niente di più sbagliato.


4. Un pregiudizio accademico durato secoli

Lo sguardo moderno si è sempre sentito superiore. Con una punta di condiscendenza, la scienza del Novecento ha guardato al passato come a un periodo da cui trarre al massimo spunti storici, non certo soluzioni tecniche. Gli studiosi dei materiali classificavano le tecnologie antiche come rudimentali, ingenue, prive di metodo.

Ma quello che mancava non era la tecnica degli antichi: era la nostra capacità di ascoltare. Di guardare oltre il paradigma industriale.

Nel caso del cemento romano, questo pregiudizio ha oscurato per secoli una verità semplice: quel materiale funzionava meglio del nostro.


5. Il ritorno al cantiere: il cemento vivo dei romani

Per capire davvero come funzionava quel cemento, bisognava abbandonare il laboratorio e tornare là dove tutto era nato: il cantiere.

I romani non usavano solo calce, pozzolana e aggregati. Usavano la calce viva — non spenta completamente — e la mescolavano a caldo con gli altri materiali. Questo processo, chiamato oggi hot mixing, generava all’interno del composto dei frammenti di calce non idratata. Apparentemente caotici, ma fondamentali.

Nel tempo, quando l’acqua penetrava in una fessura, questi frammenti reagivano chimicamente, formando nuove strutture cristalline: carbonato di calcio, capace di richiudere le crepe dall’interno.

Un cemento capace di autorigenerarsi. Più si danneggia, più si ripara.


6. La scoperta del MIT e la "hot mixing"

Il laboratorio di antichi materiali del Massachusetts Institute of Technology ha pubblicato una ricerca destinata a cambiare la storia dell’ingegneria. Il gruppo guidato da Admir Masic ha riprodotto il processo del hot mixing e ha confermato che quei grumi bianchi non erano impurità, ma veri e propri nodi attivi nel meccanismo di rigenerazione.

La scoperta è stata verificata in laboratorio: campioni danneggiati artificialmente e poi esposti all’acqua mostrano capacità di autoriparazione. L’acqua penetra, i grumi reagiscono, il cemento si risana.

Una funzione biologica in un materiale inorganico. Una sorta di memoria strutturale. Un’architettura chimica pensata per durare.


7. L’autoguarigione dei materiali: un’intuizione perduta

Oggi la scienza dei materiali studia con enorme interesse i composti autoriparanti: polimeri intelligenti, materiali reattivi, superfici sensibili. Ma i romani ci erano arrivati con duemila anni di anticipo, e con mezzi ben più semplici.

Il cemento romano era stato progettato per adattarsi all’ambiente. Reagiva con l’acqua, con l’anidride carbonica, con il tempo. Era parte del ciclo naturale. Non si opponeva alla degradazione: la trasformava in forza rigenerativa.

Questa concezione del materiale come organismo vivente è scomparsa con l’età moderna. È stata sostituita dall’idea di controllo, di staticità, di previsione totale. Ma la materia non si lascia dominare così facilmente.


8. Dal genius loci al genius ingegneriae

La cultura romana non separava l’arte dalla tecnica, né la materia dallo spirito. Il cantiere era un luogo sacro quanto il tempio, e l’ingegnere era quasi un sacerdote.

La costruzione seguiva non solo regole fisiche, ma simboliche. La pietra parlava. Il calcestruzzo non era una miscela, ma una combinazione alchemica. Il genius loci di un edificio era inscindibile dal genius ingegneriae che lo aveva concepito.

La longevità degli edifici non era solo una questione di calcolo: era una promessa. Di permanenza, di dialogo col tempo. L’architettura doveva durare, ma anche cambiare. Rigenerarsi, come fa un corpo vivo.


9. Le implicazioni per l’edilizia del futuro

Oggi che il cambiamento climatico ci obbliga a ripensare le nostre modalità costruttive, il modello romano torna ad avere una voce potente.

Costruire in modo più sostenibile non significa solo usare materiali ecologici. Significa concepire gli edifici come sistemi dinamici, capaci di adattarsi, ripararsi, durare.

Replicare la tecnologia del cemento romano potrebbe significare ridurre drasticamente i costi di manutenzione, allungare la vita utile delle infrastrutture, diminuire l’impatto ambientale dei cantieri.

E soprattutto: reintrodurre una forma di intelligenza costruttiva basata sull’ascolto della materia, e non sulla sua forzatura.


10. Conclusione – Archeologia dell’intelligenza

Nel grumo bianco che per secoli abbiamo considerato un difetto, c’era nascosta una filosofia. I romani non costruivano per l’oggi, ma per l’eternità. E lo facevano con una forma di umiltà attiva: quella di chi non pretende di dominare la materia, ma la accompagna.

Abbiamo impiegato duemila anni per capirlo. Ma forse non è troppo tardi. In un’epoca in cui la fragilità è la nostra condizione strutturale, ritrovare il segreto di un cemento che guarisce da sé potrebbe essere più di una scoperta tecnologica.

Potrebbe essere il primo passo verso una nuova alleanza con il tempo.




Note a piè di pagina

  1. Il Pantheon di Roma fu completato intorno al 125 d.C. sotto l’imperatore Adriano. La sua cupola ha un diametro di 43,3 metri ed è tuttora la più grande cupola in calcestruzzo non armato mai costruita.
  2. I frammenti bianchi osservati nel cemento romano sono stati a lungo identificati come “lime clasts”, cioè grumi di calce viva rimasti inalterati durante il processo di miscelazione.
  3. L’ipotesi del difetto costruttivo era predominante nei testi di archeologia del Novecento, complice l’idea che l’evoluzione tecnica fosse necessariamente lineare e progressiva.
  4. Il processo chiamato oggi hot mixing prevede la miscelazione della calce viva con aggregati a temperature elevate, prima dell’idratazione completa. Questo produce punti reattivi all’interno della matrice cementizia.
  5. Admir Masic, professore associato al MIT, ha condotto insieme al suo team un'analisi chimica e mineralogica del calcestruzzo romano, pubblicata su Science Advances nel 2023.
  6. Le microfratture vengono sigillate grazie alla formazione di calcite (carbonato di calcio) a partire dai grumi di calce, che reagiscono con l’acqua e l’anidride carbonica presenti nell’ambiente.
  7. La tecnologia moderna dei “self-healing materials” (materiali autoriparanti) è oggi oggetto di ricerca in vari ambiti: edilizia, ingegneria aerospaziale, nanotecnologie.
  8. La concezione romana del costruire è legata al concetto di firmitas, utilitas e venustas, come indicato da Vitruvio nel De Architectura, I sec. a.C.
  9. I processi di decarbonizzazione dell’edilizia passano anche attraverso l’analisi retrospettiva di tecnologie antiche: l’uso della pozzolana e della calce in chiave ambientale è oggi oggetto di rinnovato interesse.
  10. L’archeologia dei materiali non è solo ricostruzione del passato, ma strumento per l’innovazione del futuro: recuperare ciò che è stato perduto può significare trasformare radicalmente il nostro presente.