mercoledì 8 gennaio 2025

L'arte di resistere in silenzio nella galassia dei social media

Le nuove mosse di Zuckerberg su Meta sembrano l’ennesima puntata di una serie distopica che ormai conosciamo troppo bene. L’apertura a Trump, la fine del fact-checking e questa bizzarra idea di libertà d’espressione – che assomiglia più a un invito a mentire senza conseguenze – delineano un panorama sempre più inclinato verso il caos. Sullo sfondo, Musk fa da cheerleader con la solita esuberanza, applaudendo ogni cedimento del confine tra verità e finzione.

A questo punto mi chiedo: vale la pena restare? Ho già lasciato X (ex Twitter, ormai un’arena per gladiatori dell’odio), e forse è arrivato il momento di lasciare anche Facebook, Instagram e Threads. BlueSky potrebbe diventare l’unico rifugio, una sorta di villaggio isolato dove il chiacchiericcio non soffoca, per ora, il buon senso. Certo, il rischio è ritrovarsi in pochi, come a una festa con musica bassa e niente open bar, ma almeno si riesce a sentire cosa dice l’altro.

Il punto, però, non è solo la mia fuga personale. Il problema è la portata del pubblico. Se X, con i suoi 250 milioni di utenti, è un campo di addestramento per la manipolazione, Meta gioca su scala planetaria, con miliardi di persone coinvolte. È qui che la realtà si piega, dove le falsità non restano episodi isolati ma diventano narrazioni dominanti, capaci di ridefinire il mondo sotto i nostri occhi.

Questa deriva non è nata oggi. I NoVax durante la pandemia non sono stati solo un fenomeno curioso o folkloristico: erano il segnale di qualcosa di più grande, un’onda che oggi vediamo trasformarsi in marea. Quella spinta verso il falso ha creato una corsia preferenziale per un tecnofascismo sempre più sdoganato, sempre più accettato.

Stiamo scivolando verso un futuro dove la verità sarà un articolo di lusso, e chi la cerca rischierà di trovarsi in una minoranza sempre più piccola. La domanda resta: scappare e lasciarli affogare nel rumore o restare e provare a mantenere in vita almeno un angolo di realtà?

Restare, certo, ha un che di romantico. È l’idea di presidiare l’ultima trincea, di difendere un pezzetto di terreno come quei giapponesi che non si arresero mai, nascosti su un’isola deserta per decenni. Ma a quale prezzo? Restare significa esporsi a un costante rumore di fondo fatto di complottisti, meme tossici e l’onnipresenza di algoritmi che ti mostrano proprio ciò da cui vorresti fuggire.

Andarsene, invece, ha un fascino liberatorio. Chiudere gli account, fare tabula rasa, vivere fuori dai radar di Zuckerberg e compagnia. Ma poi, inevitabilmente, arriva il dubbio: lasciare spazio vuol dire consegnarlo senza combattere. È come abbandonare la piazza e guardarla riempirsi di urla e torce accese, sperando che prima o poi smettano di gridare.

E intanto c’è chi ha già deciso per tutti noi. Meta continua a plasmare l’opinione pubblica, e X, nella sua nuova veste di gabbia di matti, crea leader e movimenti con la stessa velocità con cui li distrugge. L’informazione diventa una battaglia tra chi grida più forte e chi riesce a mettere in dubbio anche l’evidenza.

Forse il punto non è andarsene o restare, ma resistere in modo diverso. Trovare nuovi modi di parlare, di creare piccoli spazi di dialogo autentico, lontani dal clamore generale. Perché in fondo è sempre stato così: le rivoluzioni iniziano nei salotti, tra poche voci che si scambiano idee, non nei megafoni delle piazze digitali.

E allora forse il rifugio non è un social alternativo, ma la parola scritta, l’incontro fisico, la lentezza delle conversazioni che non si consumano in 280 caratteri. Resta solo da capire se questo basterà per arginare la marea.

Ma la marea, si sa, non la fermi con un secchio. Puoi rallentarla, forse deviarla un po’, ma alla fine trova sempre una fessura da cui filtrare. E così, mentre ci raccontiamo che bastano le parole giuste, un post ben scritto o un thread pacato per fare la differenza, dall’altra parte avanzano fiumi di disinformazione che viaggiano più veloci, più seducenti, più semplici da digerire.

Eppure, c’è ostinazione nel credere che anche il piccolo valga la pena. Come se scrivere una frase che scalfisce il pensiero di una persona fosse già un atto di resistenza sufficiente. È un po’ come piantare un seme sapendo che crescerà lentamente, mentre intorno ci sono bulldozer pronti a spianare tutto.

Quello che resta è il bisogno di trovare alleati. Non tanto nel senso di grandi movimenti – quelli finiscono per somigliare troppo ai sistemi che vorrebbero combattere – ma piccole comunità. Gente che legge ancora per il piacere di capire, che non si lascia trascinare dalla furia dei like e dei cuoricini. Forse non siamo così pochi, solo che non facciamo rumore.

E forse è proprio questo il problema. La discrezione non paga nell’epoca del tutto-e-subito. Chi tace non esiste, chi sussurra viene sommerso. Ma gridare come gli altri significa giocare con le loro regole, diventare parte di quel caos che volevi evitare.

A pensarci bene, però, c’è anche una bellezza nel rifiuto di stare al gioco. Non si tratta di superiorità morale, ma di una forma di eleganza. Resistere con stile, coltivare l’arte della sottrazione, come certi vecchi dandy che si rifiutano di indossare scarpe da ginnastica anche per andare a prendere il pane.

Forse il futuro non è nella fuga o nella lotta aperta. Forse è nel restare in piedi, immobili, mentre il mondo digitale impazzisce intorno. Non per orgoglio, ma per il semplice fatto che la bellezza, la verità e persino la gentilezza, quando resistono abbastanza a lungo, finiscono per sembrare rivoluzionarie.

È quasi commovente l’idea di restare immobili mentre tutto intorno corre e sbanda. Come stare nel mezzo di una piazza durante un temporale, con l’ombrello chiuso per scelta. Ti guardano, forse ti giudicano, ma in fondo è proprio quel non piegarsi alla frenesia che diventa un atto politico, anche se silenzioso.

Il paradosso, però, è che il silenzio oggi fa quasi paura. Abituati come siamo a riempire ogni spazio con parole, immagini e notifiche, ci sembra che chi tace sia colpevole di qualcosa. Di non avere opinioni, di non schierarsi, di non essere abbastanza coinvolto. Eppure, il silenzio può essere una forma di protesta. Un rifiuto di partecipare al circo che ogni giorno si ripete uguale a se stesso.

E allora, forse, il trucco sta nel coltivare piccole isole di senso. Spazi dove la lentezza non sia una colpa e dove le idee possano maturare senza l’ansia di dover generare immediatamente una reazione. È un ritorno alle radici, alla conversazione intima, allo scambio che avviene lontano dai riflettori.

Il punto è che non serve fare rivoluzioni spettacolari. A volte basta scrivere qualcosa che non cerca approvazione, ma che mette un sassolino nella scarpa di chi legge. Quel fastidio leggero che ti accompagna durante la giornata, che non riesci a scrollarti di dosso. E magari, pian piano, qualcuno inizia a domandarsi se davvero vale la pena continuare a correre dietro al rumore.

Forse è questo il nostro compito: non urlare più forte, ma costruire luoghi dove il rumore non arriva. Riscoprire il valore della sottrazione, come togliere una parola di troppo da un testo perché è nel vuoto che rimane che si nasconde il senso vero.

E mentre il mondo digitale si riempie fino a scoppiare, noi restiamo lì, a piantare semi in una terra che forse nessuno guarda più. Ma basta che uno germogli per sapere che ne è valsa la pena.