sabato 1 febbraio 2025

Lindsay Kemp







Immagina Lindsay Kemp, figura eterea e trasgressiva, spuntare sulla scena artistica britannica degli anni ’60 come un’ombra danzante, un esplosione di colori e travestimenti, un uragano di gesti conturbanti. Kemp non era un semplice danzatore o coreografo: era una creatura onirica, un visionario che intrecciava la danza col teatro, il mimo col cabaret, creando un mondo di follie mistiche, di apparizioni quasi spettrali, capaci di sedurre chiunque entrasse in contatto con lui.

Nato a Cheshire nel 1938, Lindsay cresce con lo spirito libero di chi è destinato a sfidare le convenzioni. Il teatro, per lui, è una religione, un rito magico che serve per trasformare il reale in qualcos’altro, un’arte che manipola le maschere della vita. Era come se Kemp fluttuasse su un filo invisibile sospeso tra l’umano e il divino: il suo corpo diventava il mezzo per raccontare storie di passione, di angoscia, di seduzione oscura.

A Londra, Kemp incontra un giovane David Bowie, un’anima affine, altrettanto incline a spogliarsi dei vincoli dell’identità. L’intensità creativa e affettiva tra Kemp e Bowie diventa leggendaria: Lindsay, che insegnava all’astro nascente il linguaggio del mimo e dell’espressione corporea, si trasformava in una sorta di mentore incantato. Con Kemp, Bowie scopre non solo il potenziale teatrale del corpo, ma anche la libertà di incarnare personaggi straordinari, sfidando la banalità. Fu proprio con lui che Bowie creò Ziggy Stardust, il personaggio che avrebbe segnato la storia della musica.

Ma Kemp non si limita a Bowie: la sua carriera è un caleidoscopio di collaborazioni e creazioni visionarie. Lavora con Kate Bush, altra creatura sognante, maestra del mistico e dell’onirico; si esibisce in Flowers, una produzione che esplora l’erotismo e la vulnerabilità, un viaggio nei meandri del corpo e dell’anima, ispirato a Notre-Dame des Fleurs di Jean Genet.

Per Kemp, non esistevano confini tra vita e arte. Nei suoi spettacoli mescolava danza, mimo e canto con travestimenti straordinari: ogni performance era un rituale, un momento di metamorfosi. E come ogni grande performer, Kemp era la sua stessa creazione. Non c’era differenza tra il Kemp sul palcoscenico e quello fuori: entrambi erano emanazioni di un’identità fluida, di un’anima in continua trasformazione. Ai suoi occhi, la bellezza non aveva genere né forma fissa; il corpo, con le sue infinite possibilità, era la vera tela su cui dipingere l’incanto del mondo.

Lindsay Kemp ci lascia nel 2018, ma il suo spirito rimane in quei costumi teatrali, in quel trucco esagerato, nei passi di danza sinuosi che spezzavano il ritmo comune della realtà. Il suo lascito? La consapevolezza che l’arte può essere espressione di pura libertà, un atto di ribellione che ci permette di riscrivere il nostro destino.

Lindsay Kemp non fu solo un artista del movimento, ma anche uno sciamano del desiderio. Nei club sotterranei di Londra e poi sui palchi di tutto il mondo, sfidava le convenzioni del teatro tradizionale, portando una sensualità cruda e al tempo stesso lirica, un linguaggio fatto di gesti e silenzi intensi, capace di toccare le corde più nascoste. La sua visione era alimentata dalla fascinazione per l’occulto e il sovrannaturale, per la poesia della sofferenza e dell’amore incondizionato. Kemp si rifiutava di restare imprigionato in categorie: artista? Attore? Provocatore? Non aveva interesse in queste etichette; si definiva piuttosto un “messaggero” di mondi invisibili.

Kemp trovò la sua prima musa nel teatro kabuki, con le sue maschere ieratiche e i movimenti rigorosi, che combinò con l’estetica decadente di Oscar Wilde e i gesti delicati del mimo francese Jean-Louis Barrault. E non dimentichiamo l’influenza di Antonin Artaud, il poeta del “Teatro della Crudeltà”, che spronava gli attori a vivere fino in fondo i propri ruoli, a mettersi a nudo (talvolta letteralmente) davanti al pubblico.

E così, Kemp trasforma il teatro in un santuario dell’estasi. Si muoveva come un demiurgo davanti ai suoi attori, liberandoli dalle loro paure, spingendoli a scavare nelle proprie ferite per farne arte. I suoi spettacoli erano torride confessioni in movimento, catarsi di sogni proibiti e brame inesprimibili. In Salomé, rileggeva la figura biblica come una creatura androgina e tentatrice, capace di incantare e spaventare; in The Big Parade, infondeva la stessa energia alla storia di Pierrot, il clown malinconico che riflette la tragica condizione dell’umanità.

E poi, dietro l’artista, c’era il Kemp amante. Amava con la stessa intensità con cui danzava: Bowie, Bush e tanti altri si lasciavano ammaliare dalla sua energia vulcanica, quella capacità di farli sentire parte di una comunità estemporanea e ribelle, una tribù di cuori selvaggi che non poteva fare a meno di vivere “oltre”. Era un uomo che non amava mezze misure, che si dedicava agli altri per risvegliarli alla bellezza, con tutta la furia e la dolcezza di un’anima in continuo cambiamento.

Lindsay Kemp era, in fondo, una creatura di passaggio, un folle delicato e divino che è vissuto – e ha fatto vivere – con la certezza che il teatro sia una forma di trascendenza, una dimensione dell’anima. Il suo lascito, quindi, non sono solo le coreografie o gli spettacoli, ma l'idea che vivere possa essere un atto teatrale, un capolavoro di spontaneità e passione.

Addentriamoci ancor più nell'incanto di Lindsay Kemp, questo folletto metropolitano, questa stella incandescente che bruciava anche quando le luci di scena si spegnevano. Nei suoi giorni migliori, Lindsay si aggirava per le strade di Londra come un personaggio fuoriuscito da un quadro di Bosch: stravagante, truccato come una diva espressionista, con un’aura che ipnotizzava chiunque incrociasse il suo cammino. Era un uomo che portava il teatro ovunque andasse, una performance ambulante che non aveva bisogno di palchi per esibirsi.

Il suo appartamento, raccontano gli amici, era una tana magica: candele accese, vestiti di scena ammassati ovunque, costumi da pierrot, boa di piume, specchi dorati e una collezione di ventagli giapponesi che avrebbero reso invidiosa anche una geisha. Quel luogo era la sua torre d'avorio, dove preparava i suoi riti scenici, i suoi spettacoli che erano molto più di una semplice sequenza di passi o di movimenti. Lui creava mondi interi: ogni spettacolo era un sogno febbricitante, un carnevale oscuro e insieme luminoso, un balletto che sfiorava l’abisso per poi risalire alla superficie con la forza di una risata.

Il suo capolavoro forse più famoso, Flowers, non era solo un omaggio a Genet, ma un inno alla libertà del corpo, una dichiarazione d'amore a tutto ciò che è fragile e al tempo stesso indomabile. Il pubblico che assisteva a questo spettacolo entrava in un rituale collettivo, dove ognuno veniva spogliato delle proprie maschere per poter vivere, anche solo per un attimo, la vulnerabilità dell’essere umano. Lo spettacolo non era soltanto visto, ma respirato, interiorizzato; un viaggio mistico in cui Kemp, in abiti femminili, interpretava sia la vittima sia il carnefice, sia l’amante sia il tradito. La sua danza era un linguaggio di sguardi, di sospiri, di gesti che affondavano nell’anima.

Nell'Italia degli anni ’70 e ’80, Lindsay era una sorta di rockstar dell’arte, un nome che evocava il proibito e il sublime. Si esibiva nei teatri più prestigiosi e nelle piazze, richiamando folle di curiosi e di ammiratori, di poeti e di artisti che vedevano in lui un maestro di vita. Era venerato non solo per la sua arte, ma anche per il suo modo di essere al di fuori degli schemi, di mescolare il sacro con il profano, il sublime con l’osceno, come solo un autentico rivoluzionario sapeva fare.

Verso la fine della sua carriera, quando gli anni cominciavano a farsi sentire, Kemp non smise mai di sognare. Diceva di voler “danzare fino all’ultimo respiro”, e mantenne la promessa. Anche negli anni più tardi, con il corpo segnato dall'età, continuava a esibirsi con la stessa passione, reinventandosi di volta in volta. Con la grazia e la tenacia di un poeta errante, si trascinava sui palchi, sempre pronto a trasmettere a un nuovo pubblico quella scintilla d’inquietudine, quella meraviglia che non aveva mai perso.

La sua morte, nel 2018, non fu la fine, ma solo l'ultima grande performance. Lindsay Kemp non se ne è mai veramente andato, perché ogni volta che uno spettacolo osa sfidare la norma, ogni volta che un artista si abbandona al piacere della creazione senza limiti, c’è un po’ di Lindsay in scena. Forse è questo il segreto di chi ha vissuto come lui: non scomparire mai del tutto, ma continuare a vibrare nei cuori e nei corpi di chiunque abbia il coraggio di lasciarsi andare.

La vita privata di Lindsay Kemp è avvolta in un alone di mistero, proprio come i suoi spettacoli, ma anche qui troviamo un fascino che si mescola all’audacia, alla sensibilità e a quel lato oscuro che rendeva tutto più vero e più drammatico. Kemp viveva le sue relazioni con un'intensità quasi mistica: l’amore, per lui, era una forma d’arte, un prolungamento della sua stessa anima.

Uno degli amori più famosi fu, ovviamente, con David Bowie. Conobbe Bowie a metà degli anni ’60, quando il giovane musicista era ancora un’anima alla ricerca di sé stesso. Lindsay fu per Bowie più di un amante: era un mentore, una guida che lo introduceva a un nuovo linguaggio fatto di mimo, di trasformazione, di ambiguità e teatralità. Kemp s’innamorò di Bowie, ma sapeva anche di essere un ponte, un passaggio verso qualcosa di più grande. Bowie lo ammirava, lo imitava, ma inevitabilmente prese il volo verso altre forme d’arte e altre sfide. Kemp ne uscì ferito, ma non sconfitto. Parlava sempre di Bowie con affetto, riconoscendo che il loro legame non era destinato a durare, ma a trasformarsi. Fu una ferita che si portò dentro per tutta la vita, eppure non rimase mai un rimpianto.

Negli anni successivi, Kemp ebbe diverse relazioni, alcune intense, altre fugaci, sempre con un misto di passione e malinconia. Era attratto da giovani artisti e ballerini, anime ribelli e irrequiete come lui, che condividevano il suo mondo fatto di sogni e disordini. Uno di questi amori fu Jack Birkett, meglio conosciuto come “The Incredible Orlando”, un attore cieco che lavorava con lui come mimo e ballerino. La loro relazione era un mix di tenerezza e arte, una fusione di esibizionismo e affetto che superava qualsiasi convenzione. In scena, Birkett e Kemp erano spettacolari; nella vita reale, erano complici, due spiriti liberi che sapevano amarsi senza condizioni.

Ma Kemp non era solo un amante appassionato; era anche un'anima profondamente sola. Lui stesso ammetteva che l’amore, per lui, era qualcosa di effimero e doloroso, una fonte di ispirazione e insieme di tormento. Spesso cadeva in relazioni difficili, dove il confine tra passione e sofferenza diventava labile. Questi amori intensi, consumati e persi nel giro di pochi mesi o anni, erano per lui una droga, una necessità che alimentava sia il suo estro creativo sia la sua stessa vulnerabilità.

Invecchiando, Lindsay cominciò a vivere l’amore in modo diverso. Diceva di amare ancora, ma con una tenerezza più dolce, priva dell’urgenza e delle distruzioni dei suoi anni più giovani. Il vero amore, per lui, rimase l’arte, il teatro, quella dimensione spirituale dove poteva essere completamente se stesso, senza doversi nascondere o comprimere per nessuno. Anche se non ha mai avuto una relazione stabile o tradizionale, l’amore in tutte le sue forme – per l’arte, per i suoi amici, per i suoi amanti – ha sempre attraversato ogni istante della sua vita.

La relazione tra Lindsay Kemp e David Bowie è stata spesso descritta come un'intensa connessione artistica e affettiva, ma le testimonianze dirette parlano più di un rapporto complicato e profondo che di una storia d’amore romantica. Kemp e Bowie si incontrarono alla fine degli anni ’60, quando Bowie era un giovane musicista e Kemp un mentore già conosciuto nell'ambiente teatrale londinese. Kemp si innamorò quasi subito della figura magnetica e ambiziosa di Bowie, e non nascose mai la sua attrazione e ammirazione per lui.

In un’intervista, Kemp dichiarò: “Ho insegnato a David tutto quello che sapevo” e aggiunse che Bowie era diventato "una mia creatura". Per Kemp, la loro era una storia quasi iniziatica, dove Bowie assorbiva da lui non solo tecniche di mimo e teatralità, ma anche una visione della vita più libera e disinibita. Kemp raccontava il suo rapporto con Bowie con una dolcezza struggente, descrivendo come Bowie lo avesse “portato sull’orlo dell’amore”.

Tuttavia, non esistono prove concrete di una vera e propria storia d’amore o di una relazione fisica tra loro. Bowie, noto per la sua riservatezza e per la tendenza a scherzare sui miti che lo circondavano, non ha mai confermato esplicitamente di aver avuto una relazione romantica con Kemp. È più probabile che la loro connessione fosse una miscela intensa di ammirazione, fascino reciproco e complicità creativa, qualcosa che sfumava il confine tra amicizia e attrazione ma che forse non è mai sfociato in una storia d'amore vera e propria.

Quello che è certo è che l’influenza di Kemp su Bowie fu immensa. Grazie a lui, Bowie scoprì il potere del corpo e dell’espressività teatrale, elementi che plasmarono il suo alter ego Ziggy Stardust e lo resero una delle icone più innovative della musica e della cultura pop. In ogni caso, la loro "storia" – reale o solo sognata – resta una delle leggende più affascinanti della scena artistica di quegli anni.

Dicerie, ma di quelle irresistibili! La scena artistica degli anni '60 e '70 era un fertile campo di leggende e mezze verità, e Kemp e Bowie insieme incarnavano perfettamente quel mix di eccentricità e mistero che faceva sognare e parlare tutti. La loro intesa era talmente forte e fuori dagli schemi che il pubblico – e i media – hanno sempre amato fantasticare su una possibile storia d’amore. E poi, diciamocelo, l'idea di un maestro teatrale androgino e un musicista in ascesa immersi in un rapporto di arte e passione era troppo appetitosa per lasciarla cadere senza farla un po’ lievitare.

Alla fine, Kemp e Bowie rappresentano quella complicità rara e intensa che a volte nasce tra artisti: un legame che non ha bisogno di categorie o conferme pubbliche, perché vive di ispirazione e di una comprensione che va oltre le parole. Forse non sono mai stati amanti, ma in un certo senso sono stati anime gemelle – e in fondo, per Kemp, è stato comunque un amore memorabile.

La messa in scena del teatro di Lindsay Kemp era un’esplosione di sensi, un viaggio onirico dove il confine tra sogno e realtà si dissolveva. Kemp non creava semplici spettacoli: creava universi paralleli, fatti di luci soffuse, colori saturi, movimenti ipnotici e musiche struggenti, dove il pubblico veniva invitato non solo a guardare, ma a entrare in uno stato quasi rituale.

Ogni spettacolo era una fusione di mimo, danza, travestimento e poesia visiva. La scenografia non era solo sfondo, ma parte viva della narrazione: oggetti, costumi e maschere erano estensioni dei personaggi, enfatizzando la loro ambiguità e intensità. Kemp vestiva i suoi attori in abiti esagerati e teatralmente androgini, con trucchi che trasformavano i volti in maschere dall'espressività accentuata, quasi fosse il teatro kabuki o il drag avant la lettre.

Nei suoi spettacoli come Flowers e Salomé, il corpo diventava il principale strumento di comunicazione, capace di esprimere l’inesprimibile: sensualità, angoscia, desiderio e perdizione. La messa in scena di Kemp era volutamente eccessiva, sempre un passo oltre il limite, con movimenti che alternavano lentezza meditativa a improvvisi scoppi di energia. Era un teatro provocatorio e liberatorio, dove l’artista sfidava i tabù sociali e sessuali, portando il pubblico a confrontarsi con le proprie paure e desideri nascosti.

In sostanza, la messa in scena di Kemp era una celebrazione della libertà e dell’identità in continua metamorfosi. Il suo teatro esisteva per scuotere e trasformare, per ricordare che l’arte non è fatta solo per essere guardata, ma per essere vissuta e sentita nelle ossa. E forse, proprio come lui desiderava, ogni spettacolo era anche una preghiera, un atto di fede nella bellezza del trasformarsi, nel potere assoluto di danzare con l’anima.