martedì 29 aprile 2025

I miei libri disfatti nella notte

I miei libri disfatti nella notte,
serpenti ciechi avvolti nelle ombre,
bisbigliano il tormento delle pagine
dove il peccato stilla lento e amaro.

Nel vento urlano i fogli dispersi,
sangue rappreso in lettere ferite,
e intorno al lume fioco della veglia
si stringe il buio, fiero della preda.

Oh, quante voci straziano il silenzio,
nell’eco di memorie già corrotte,
che fremono nei margini anneriti
come ossa incise sopra un patibolo.

E l’aria grava, immobile e malsana,
pregna di antiche colpe senza volto,
mentre il mio nome, inciso nelle tenebre,
si piega all’ombra della sua condanna.

La polvere s’addensa sui pensieri,
si insinua lenta come un morbo infetto,
e ogni parola nata dalla penna
è un sussurro d’angoscia che m’accusa.

Le stanze si contorcono in segreti,
nell’ombra si dilatano gli specchi,
riflettono miraggi e forme vuote,
i simulacri spenti della mente.

E odo passi fievoli, lontani,
spettri di cera muti nel chiarore,
che sfiorano le porte con le unghie,
desiderando carne per rivivere.

L’aria si tinge d’incubi e presagi,
nell’angolo sussurra una preghiera
una bocca invisibile e beffarda,
che ride piano, e intanto mi divora.

I lumi oscillano in un vento d’ombra,
soffocano le fiamme come grida,
e nella penna scorre un inchiostro livido
che odora di abisso e di condanna.

Scrivo parole d’ossa e di veleno,
ogni riga è un solco sopra il corpo,
ogni pensiero un chiodo dentro il cranio,
ogni memoria un’ombra che ritorna.

E vedo il tempo avvolgersi in spire,
grondare come un viscido sudario,
e dentro il suo respiro avvelenato
si scioglie il mio passato in polvere.

Le mura sussurrano nomi spenti,
i volti dei defunti si dissolvono
nei vetri appannati dal respiro
dell’ora che si stringe attorno al cuore.

Un suono rauco striscia nella stanza,
lamenti di voci senza carne,
un canto di condanna inesorabile
che inchioda l’anima alla sua rovina.

Oh, nero abisso, bocca mai sazia,
divora il giorno, inghiotte la speranza!
Io sono il mio stesso aguzzino,
io sono il fumo della mia fine.

Ma ancora scrivo, scavo, lacero,
il foglio è un sudario, la penna un pugnale,
l’inchiostro cola come sangue denso,
sigillo di un’anima ormai consunta.

E il buio ride, siede accanto al letto,
mi osserva come un padre misericorde,
mi accarezza con dita gelide e lunghe,
sussurra il mio nome, mi chiama piano.

La notte non finisce, si dilata,
le pareti si piegano, si spezzano,
mi trovo in un corridoio senza tempo,
le porte sono bocche spalancate.

Entro in una stanza senza volto,
il pavimento sussurra i miei passi,
le finestre danno su un cielo vuoto,
le stelle sono occhi spenti e neri.

E dentro un angolo, curvo e pallido,
un uomo scrive lo stesso mio nome,
ripete i miei versi con labbra mute,
e nel suo viso io vedo il mio volto.

Lentamente si volta, mi sorride,
la sua bocca si scioglie in polvere,
le sue mani si frantumano in cenere,
i suoi occhi si svuotano di luce.

Io sono lui, e lui è il mio riflesso,
eco distorta di un tempo svanito,
ombra fra ombre, spirito perduto,
prigioniero del suo stesso sogno.

Ma il sogno ora si lacera, si torce,
si spalancano voragini d’abisso,
e ogni passo che faccio si dissolve
come cenere sparsa nel nulla.

Sul soffitto appaiono voci incise,
i nomi di chi è morto nel silenzio,
i versi mai letti, le lettere perse,
le frasi incomplete dell’oblio.

E odo un battito fioco e lontano,
il cuore del tempo che sta morendo,
sibilo oscuro, rantolo soffuso,
l’agonia dell’eterno che svapora.

Ogni mia ruga è un graffio di condanna,
ogni mio sguardo un abisso di fumo,
e mentre il tempo si sfalda e si spezza
mi trovo sospeso tra ombra e cenere.

Chi sono io? Lo sanno solo i muri,
lo sanno i libri disfatti dal vento,
lo sanno i chiodi dentro la mia mente,
lo sanno le dita d’inchiostro e sangue.

E quando infine il foglio è tutto nero,
quando ogni verso è un’eco della morte,
soltanto il buio veglia sulla stanza,
sopra il mio volto spento e senza nome.



Postfazione dell’autore

Ho scritto I miei libri disfatti nella notte senza sapere davvero se stessi scrivendo qualcosa. O se, piuttosto, stessi trascrivendo una voce che mi ha parlato nel dormiveglia, nel margine tremolante fra la veglia e il sogno (cara, amata Ortese), quando la mente non ragiona ma affonda, ascolta, traccia. Non era un’urgenza letteraria. Non era un testo “pensato”. Era un ronzio cupo, qualcosa che raschiava da dentro, come una lingua che volesse riformarsi per dire ciò che di solito non si dice, ciò che viene tenuto lontano: l’idea della dissoluzione. Della perdita di forma. Della fine del gesto di scrivere come l’ho conosciuto.

La notte in cui è nato questo testo, stavo rovistando tra vecchi fogli e taccuini, cartelle digitali piene di brani dimenticati, poesie amputate, diari interrotti. Mi sono accorto – con una specie di sgomento quieto – che molti di quei testi non significavano più nulla per me. Non solo erano “vecchi”: erano muti. Come se qualcuno li avesse scritti, ma non io. O forse io, ma io di un tempo che non riconosco più. È una sensazione familiare, per chi scrive da tanto: ci si guarda indietro e si scopre che si è cambiati, che si sono cambiate le parole, e anche le crepe del pensiero. Ma quella notte fu diversa. Fu come se tutti quei libri scritti – pubblicati o no, rifiniti o approssimati – si stessero sfaldando in diretta, dentro un’eco che mi accompagnava da giorni.

Scrivere allora è diventato un gesto contrario. Non più raccogliere, ma disperdere. Non più costruire, ma rimettere in circolo i detriti. E proprio da quei detriti, da quelle ceneri umide, si è formato il corpo vischioso di questa poesia. L’ho seguita come si segue una creatura selvatica nel buio. L’ho lasciata andare dove voleva. Non le ho imposto cornici, né strutture, né ornamenti. Le ho lasciato usare un linguaggio sporco, viscerale, pieno di simboli e immagini che scivolano. L’ho lasciata diventare una camera segreta, dove i miei doppi si sono incontrati, senza più fingere di non conoscersi.

Ci sono parole, dentro questo testo, che tornano ossessive. Parole-talismano, che non spiegano ma espongono. La penna che diventa pugnale, l’inchiostro che diventa sangue, le stanze che si contorcono. E poi i libri stessi, che non sono solo oggetti cartacei ma emblemi del meccanismo stesso dell’identità: cosa resta di noi nei segni che lasciamo? Che fine fanno le versioni precedenti del nostro io? Possono disfarsi, ma allora chi scrive ancora? Chi resta? Ecco, forse la domanda da cui tutto è scaturito è proprio questa: chi resta?

Chi resta quando tutto il resto si disgrega?

C’è un momento, verso la fine, in cui compare quell’uomo curvo e pallido che scrive il mio nome. Non l’ho cercato, è venuto da solo. Ma lo conoscevo. È quello che ho cercato di non essere, e che pure è rimasto con me. È il testimone. Il replicante. Il sismografo. Mi spia, mi ripete, mi giudica e – se mi ama – lo fa in silenzio, senza approvazione. È la parte di me che non è interessata alla pubblicazione, al pubblico, al successo o al fallimento. È ciò che resta quando l’autore non c’è più. E anche questa poesia, forse, è il suo atto.

Non so se questi versi abbiano un valore poetico. Non lo so davvero. Non so nemmeno se volevo che lo avessero. So che mi hanno sorpreso. Che sono sgorgati da uno spazio oscuro, come le parole che si sussurrano nel delirio della febbre. So che vengono da un territorio dove non ci si difende più con le belle metafore, ma ci si offre, quasi nudi, quasi disarmati. È un testo che ha paura, e che mostra la sua paura. Ed è per questo, forse, che non ho voluto correggerlo troppo. Perché ogni sbavatura era fedele alla notte da cui era nato.

Scrivere non mi consola più come una volta. Ma scrivere mi espone. E ogni tanto mi riconosce. Così accade anche qui, nella visione dei libri disfatti: non c’è salvezza, ma forse c’è la possibilità di dire addio. Di accompagnare i propri testi alla soglia e sussurrare loro che ora sono liberi. Che possono disfarsi. Che hanno fatto la loro parte.

Così, questa poesia non è un epitaffio. È un gesto di rilascio.

È il mio modo, ancora una volta, di restare in ascolto.

l’autore