1. Il corpo come icona, e come enigma
Per Mapplethorpe il corpo non è mai stato solo corpo. Non era solo pelle, muscolo, posa: era altare, monumento, problema. Le sue fotografie sono popolazioni di statue viventi. In particolare il corpo maschile — nella sua pienezza erotica e nella sua fragilità strutturale — è il vero oggetto di culto. Mapplethorpe lo isola, lo cesella con la luce, lo interroga come un archeologo interroga una reliquia. È un corpo che parla senza voce, che mostra la perfezione e insieme la distanza da ogni normalità.
2. L’estetica classica del proibito
Ciò che rende così disarmante la sua arte è il contrasto perenne tra la purezza della forma e la potenza provocatoria dei contenuti. Gli scatti più osé — feticismo, sadomasochismo, nudità spinte — sono composti come nature morte seicentesche, con una simmetria e un rigore degni di Piero della Francesca. Il bianco e nero, per lui, non è una scelta stilistica: è un’etica. Con quel mezzo sottrae ai corpi ogni cronaca, ogni volgarità, e li consegna alla dimensione del mito.
3. Patti Smith: la sorella, la sposa, la testimone
Tra i legami più importanti e poetici della sua vita, c’è quello con Patti Smith. Si incontrarono a New York negli anni Settanta, due giovani spiantati pieni di visioni. Vivere insieme significava condividere tutto: l’arte, la povertà, l’identità in divenire. Patti, nella sua autobiografia “Just Kids”, ha raccontato quell’epoca come un lungo sogno affamato, fatto di amore e metamorfosi. Lei scopriva di essere poeta e rocker, lui di essere fotografo e omosessuale. Si aiutavano a rinascere, ogni giorno.
4. La celebrazione del maschile
Mapplethorpe ha ridefinito l’iconografia del maschio. Non più eroe epico o figura idealizzata, ma corpo reale — erotico, nero, queer, muscoloso, sudato. Fotografava spesso uomini afroamericani, bodybuilder, amanti occasionali: e ogni ritratto era insieme un’adorazione e una provocazione. Mai voyeurismo, mai compiacimento. Solo sguardo lucido, diretto, quasi religioso. Mapplethorpe voleva che il desiderio si vedesse, ma che non fosse mai spiegato.
5. L’arte come scandalo e resistenza
La retrospettiva "The Perfect Moment" del 1989 fu uno spartiacque. Esposta postuma, suscitò uno scandalo violento. In un’America già scossa dalla crisi dell’AIDS e da una nuova ondata conservatrice, quelle immagini vennero viste come una minaccia morale. Mostrare un pene eretto o un gioco BDSM in una cornice da museo significava infrangere un tabù radicale. Il processo culturale che ne seguì fu lungo, doloroso, ma fondamentale per il riconoscimento della libertà espressiva dell’arte queer.
6. I fiori: erotismo vegetale
Nel lavoro di Mapplethorpe non ci sono solo corpi. Ci sono anche fiori — e sono forse la parte più segreta e intensa del suo lavoro. Le sue fotografie di calle, orchidee, tulipani hanno una carica erotica spiazzante. Sembrano organi sessuali, simboli fallici, vulve dischiuse, tutto e niente insieme. Come in Georgia O’Keeffe, il fiore diventa una metafora carnale e spirituale. Anche qui, la composizione è ipercontrollata: fondo nero, luce radente, silenzio assoluto. È come se ogni petalo fosse il volto di un amante.
7. Lo studio come tempio
Per Mapplethorpe il gesto fotografico non era mai casuale. Lo scatto era il risultato di un rito: studio, preparazione, allestimento, luce perfetta, posa studiata. Ogni soggetto entrava in uno spazio sacro, e il fotografo diventava sacerdote. Nulla è improvvisato nei suoi lavori: anche la spontaneità è costruita con maestria. Il suo studio newyorkese era laboratorio alchemico, confessionale, boudoir. In quegli ambienti si mescolavano il glamour e l’abisso, la tecnica e l’istinto.
8. Le polaroid: l’origine e l’urgenza
Mapplethorpe iniziò con le polaroid, negli anni in cui viveva con Patti Smith al Chelsea Hotel. Quegli scatti, più sporchi e immediati, sono un laboratorio di libertà. Sono fotografie impastate di vita, di strada, di poesia. Ritraggono amici, amanti, oggetti strani, piccole vanità quotidiane. In quelle immagini si vede il seme del futuro: la ricerca della composizione perfetta, ma anche la gioia dell’errore, del lampo improvviso. Una bellezza ancora incerta, ma già folgorante.
9. L’ombra della malattia, la luce dell’opera
Negli ultimi anni, Mapplethorpe sapeva. La malattia avanzava e lui lavorava con una furia nuova, una lucidità estrema. Voleva lasciare un’opera compiuta, totale, inconfutabile. Ogni scatto diventava un testamento. Fotografava se stesso, il proprio volto emaciato, gli amici scomparsi, la pelle che cambiava. Ma nulla era pietismo. Solo uno sguardo impietoso e altissimo, come se anche la morte fosse una variazione sul tema della forma.
10. La Fondazione e l’eredità
Prima di morire, nel 1989, Mapplethorpe istituì la sua Fondazione. I proventi del suo lavoro dovevano servire a sostenere l’arte contemporanea e la ricerca sull’HIV. È un gesto radicale di cura e di memoria. Oggi la sua opera continua a vivere nelle collezioni più importanti del mondo, e la Fondazione mantiene vivo non solo il suo nome, ma il suo gesto artistico e politico. Fotografare, per Mapplethorpe, era sempre un atto di giustizia visiva.
La mostra veneziana alle Stanze del Vetro si annuncia come un viaggio dentro questo universo così lucido e abissale. La scelta della trasparenza — del vetro — come metafora non è casuale: Mapplethorpe ha sempre cercato la nitidezza assoluta, anche quando i soggetti erano scandalosi. È una mostra che chiede di guardare, davvero, e non distogliere mai gli occhi.
Lasciamoci alle spalle ogni prudenza e varchiamo del tutto la soglia dell’universo mapplethorpiano, dilatando lo sguardo come lui faceva con la lente: affilata, cerimoniale, sensuale e irrimediabilmente lucida. Il testo si snoderà come un corpo nudo che ruota davanti all’obiettivo, rivelando via via nuove porzioni di sé, nuove superfici, nuove vene d’ombra.
Nel ventre di vetro: l’ingresso nel tempio Mapplethorpe
Entrare nella mostra delle Stanze del Vetro è come infilarsi nella penombra di un tempio non dichiarato. Non c’è incenso, ma luce tagliente. Non c’è altare, ma corpi. E Mapplethorpe è il sacerdote oscuro e ossessivo che officiante fotografa e trasfigura. L’architettura trasparente e rarefatta dell’isola di San Giorgio Maggiore, così perfettamente diafana, si offre come contro-altare alla gravità delle immagini: la materia è il corpo, e la cornice — stavolta — è fatta di luce e aria. L’allestimento è essenziale, silenzioso, come una stanza d’ascolto. E le immagini, pur nel loro rigore, bruciano.
Non si tratta soltanto di una retrospettiva. È piuttosto una lunga confessione pubblica, o un diario visivo interamente scritto con la carne altrui. Una carne che si fa marmo o fiore, metallo o specchio, ma mai solo pelle. Le fotografie, selezionate con cura curatoriale e poetica, non seguono un ordine meramente cronologico. Piuttosto, ci si muove tra temi, ossessioni, corrispondenze: una geografia del desiderio.
Patti Smith e il patto iniziale
All’inizio c’è lei: Patti Smith. Non solo musa, ma complice, sorella e testimone. La sua presenza nella mostra è la porta d’ingresso, la voce che ci accompagna, quasi come Virgilio in un inferno fatto non di dannati ma di corpi offerti in sacrificio estetico. I ritratti di Patti non sono celebrazioni dell’icona rock, ma veri e propri scambi di identità: Robert e Patti si travestono l’uno nell’altra, si imitano, si reinventano, sfumando i contorni di genere, di ruolo, di potere. Già in questi scatti iniziali, si intuisce che per Mapplethorpe la fotografia è un laboratorio di alchimie sessuali e spirituali.
Il nudo maschile: carne e forma
Quando si varca la soglia delle nude maschili, si entra nella vera camera oscura dell’anima mapplethorpiana. Lì il corpo dell’uomo diventa archetipo, non soggetto. C’è un rigore quasi liturgico nelle pose, un equilibrio michelangiolesco che scompone e ricompone la fisicità come fosse geometria sacra. Ma non c’è mai pornografia, anche se le immagini possono essere dichiaratamente erotiche, talvolta violentemente esplicite.
Mapplethorpe non cerca lo shock. Cerca la purezza del gesto. L’erotismo, per lui, è forma assoluta, controllo. Ogni scatto è il risultato di una costruzione maniacale della luce, della composizione, del contrasto. Il desiderio non è lasciato esplodere: è congelato, inciso, immortalato come se fosse una statua greca trafitta dalla contemporaneità.
Alcuni dei soggetti ricorrenti — uomini neri muscolosissimi, spesso ritratti con frontalità ieratica — pongono interrogativi profondi sul rapporto tra desiderio e potere, bellezza e feticismo, bianco e nero (sia in senso fotografico che razziale). Ma Mapplethorpe non risolve. Espone. Lascia che lo sguardo dello spettatore si perda o si riconosca.
Fiori e vetro: erotismo naturale
Poi ci sono i fiori. Le fotografie floreali sono forse le più ingannevoli del suo repertorio. Apparentemente pacificate, sono in realtà altrettanto cariche di tensione erotica e simbolica quanto i suoi nudi. Una calla bianca, ad esempio, in una stampa in bianco e nero dai contrasti esasperati, si offre come una vulva d’ombra. Una rosa in decomposizione può essere un’allusione al corpo che invecchia, che muore, che sfiorisce. Il fiore è per Mapplethorpe un doppio del corpo umano, una maschera biologica perfetta. E, all’interno delle Stanze del Vetro, questa serie risplende: si riflette, si sdoppia, dialoga con l’ambiente e con lo sguardo.
L’interazione tra trasparenze architettoniche e trasparenze iconografiche raggiunge qui una vertigine poetica. Il vetro, infatti, si comporta come la fotografia: separa e rivela, isola e ingrandisce, protegge e taglia. Non è un caso che la mostra sia allestita proprio in questo luogo, dove lo sguardo è filtrato, sempre, da qualcosa di fragile.
Il corpo femminile: presenza e sfida
Spesso considerato un fotografo "del corpo maschile", Mapplethorpe ha invece costruito anche un corpo femminile intensissimo, forte, frontalissimo. Celebre la sua serie con Lisa Lyon, campionessa di body building, che posava per lui con una combinazione esplosiva di grazia e potenza. Le donne di Mapplethorpe non sono mai muse, né oggetti. Sono sfide. Non vengono desiderate, ma affrontate. Sono statue di sale, combattenti, presenze totemiche.
Il suo sguardo sul femminile è strutturato e composto, ma mai addomesticato. Più si osservano queste fotografie, più ci si accorge che l’artista le considera una controparte fondamentale alla sua visione virile: sono specchi, talvolta minacciosi, talvolta magnetici.
Sado e censura: le immagini proibite
Nella parte più controversa dell’esposizione (a Venezia trattata con intelligente equilibrio), trovano spazio alcune immagini tratte dal ciclo X Portfolio: scene BDSM, giochi di dominazione, autoritratti colpiti da una ferocia oscura. È in questi scatti che Mapplethorpe diventa davvero sacerdote del desiderio. La camera fotografica si fa confessionale, ma senza assoluzione.
Non c’è pornografia, di nuovo. C’è rito. C’è precisione. C’è oscurità e offerta. Sono immagini che hanno suscitato scandali, processi, censure — soprattutto nella puritana America degli anni Ottanta — ma che oggi, a distanza di decenni, si mostrano per quello che sono: riflessioni sulla vulnerabilità e sul potere, sulla carne e sulla sua sublimazione.
Lo sguardo che resta: Mapplethorpe oggi
Oggi, che ogni cellulare è una camera oscura tascabile, che milioni di immagini di corpi circolano senza più contesto né cura, l’opera di Robert Mapplethorpe appare ancora più necessaria. Perché ci ricorda che lo sguardo è sacro. Che il corpo, per essere visto davvero, deve essere desiderato con attenzione. Che la bellezza non è un dato oggettivo, ma una costruzione precisa, carica di pericoli e significati.
La mostra veneziana ci restituisce tutto questo. Non come omaggio, ma come testamento. Ogni fotografia diventa così una lettera non spedita. Una dichiarazione d’amore. Una sfida al tempo e al giudizio.
E ora spalanchiamo davvero le porte di questa cattedrale segreta che è stata la relazione tra Sam Wagstaff e Robert Mapplethorpe. Perché in fondo la loro storia non è solo un episodio dell’arte americana del secondo Novecento: è un’allegoria della bellezza e del potere, dell’amore e del controllo, del desiderio come architettura dell’arte. E i diari – sebbene ellittici, spezzati, disseminati – sono le reliquie più intime di questa liturgia laica.
Un’estetica dell’ossessione: Sam Wagstaff prima di Mapplethorpe
Per capire il ruolo di Sam Wagstaff non basta etichettarlo come “mecenate” o “collezionista”. Bisogna immaginare la sua mente come un dispositivo ottico: una camera oscura, un negativo sviluppato lentamente nel tempo. Nato a New York nel 1921, era cresciuto in un ambiente aristocratico e repressivo, circondato da tutto tranne che dalla libertà d’espressione. Aveva studiato storia dell’arte con rigore accademico, ma ciò che davvero lo muoveva era un impulso da collezionista non verso l’oggetto, bensì verso l’aura. Ciò che conservava, in fondo, era l’epifania che un’immagine può generare. Per lui ogni fotografia non era semplicemente “bella”, ma era un’esplosione silenziosa: una visione.
Negli anni Sessanta lavora come curatore al Wadsworth Atheneum e successivamente al Detroit Institute of Arts, dove promuove l’arte concettuale con fiuto pionieristico. Ma dietro la figura elegante e cerebrale, cova un bisogno personale e quasi fisico: dare un corpo al proprio desiderio, far coincidere l’estetico e l’erotico. La fotografia, con la sua ambiguità tra documento e visione, tra rivelazione e allusione, diventa il suo strumento prediletto.
L’incontro con Mapplethorpe come detonazione esistenziale
Quando nel 1972 conosce Robert Mapplethorpe, Wagstaff ha cinquantuno anni e un’aura di potere sobrio; Robert ne ha ventisei, e irradia una sensualità crudele, cristallina, quasi liturgica. L’incontro tra i due non è soltanto una seduzione: è un’implosione. Wagstaff capisce subito che Robert non è un giovane fotografo come gli altri. Lo vede, prima ancora che come artista, come un’icona da scolpire, da incoraggiare e offrire al mondo. Ma anche da proteggere, da nutrire, da spingere oltre i limiti.
Da quel momento, tutto inizia a ruotare intorno a lui. Sam lo finanzia, lo introduce alle gallerie più influenti, ne cura la presenza scenica, lo sostiene nelle esplorazioni del sadomasochismo, della pornografia, della rappresentazione queer come gesto politico. E Robert – che è tanto inquieto quanto ambizioso – trova in Sam il suo specchio adulto, il suo produttore d’anima, il suo Virgilio nel mondo brutale dell’arte.
I due condividono tutto: letti, viaggi, studi, serate nei locali underground e aste d’antiquariato. Ma soprattutto condividono un’idea precisa dell’arte: quella che non può essere separata dalla carne, dal desiderio, dalla morte.
I taccuini, le lettere, i vuoti: l’altra faccia della passione
Se i diari di Sam Wagstaff non sono diari nel senso canonico – continui, lineari, ordinati – sono però tracce potentissime. Annotazioni rapide, frasi spezzate, lettere mai spedite, elenchi di fotografie, giudizi lapidari. E soprattutto silenzi. I silenzi che solo chi ama veramente può scrivere. In queste carte si percepisce un desiderio che non cerca soddisfazione, ma significato. Sam non vuole possedere Robert, ma consacrarlo. Farne un’icona non solo per se stesso, ma per la storia dell’arte.
Molti studiosi (come Philip Gefter nella sua biografia fondamentale) parlano di un amore quasi ascetico, dove la distanza e la discrezione erano atti di rispetto. Wagstaff sa di essere un satellite: potente, necessario, ma mai centrale. Sa di star contribuendo a qualcosa che lo supererà. E lo accetta, non senza sofferenza.
“L’arte è la forma più pura del desiderio,” annota in una delle sue riflessioni.
“E lui [Robert] è il mio desiderio che ha trovato forma.”
Questa frase, apparentemente semplice, racchiude un intero universo di tensioni: tra potere e sottomissione, tra spirito e carne, tra bisogno di controllo e abbandono.
Una vita a due che diventa monumento condiviso
Mentre Mapplethorpe crea immagini che fanno tremare le istituzioni – uomini nudi in pose scultoree, fiori carichi di erotismo, autoritratti come icone cristologiche – Wagstaff continua a collezionare fotografie con precisione maniacale. La sua collezione privata diventa una delle più importanti al mondo, con oltre 5.000 opere. È come se, attraverso la raccolta, cercasse di “preparare il terreno” per la ricezione del lavoro di Robert. Una strategia culturale, ma anche un atto d’amore: creare un mondo che sia pronto ad accoglierlo.
Quando nel 1984 Wagstaff dona gran parte della collezione al Getty Museum, lo fa non solo per motivi pratici, ma per garantire che ciò che ha creato sopravviva oltre la sua malattia. È già affetto dall’AIDS, e anche Robert sa di essere malato. La fine è incombente, eppure nessuno dei due cede alla tragedia. Trasformano la decadenza in un’estetica. Fanno della morte un’estensione del desiderio.
Robert morirà nel 1989, due anni dopo Sam. Prima di andarsene, organizza la sua retrospettiva più grande, e lascia indicazioni precise sulla gestione della sua immagine. È come se volesse chiudere il cerchio iniziato con quel primo scatto fatto da Sam tanti anni prima.
L’eredità: più che un amore, una costruzione mitologica
Oggi, parlare di Sam Wagstaff solo come “il compagno di Mapplethorpe” è riduttivo. Fu un costruttore di contesti, un architetto invisibile della cultura visiva queer, un sacerdote laico dell’immagine. I suoi scritti, se letti con attenzione, raccontano di un’intelligenza che ha saputo sacrificarsi per una visione più grande: quella della bellezza assoluta, anche se dolorosa. La loro relazione è diventata materia di romanzi, documentari, opere teatrali. Ma nessuna narrazione riesce davvero a cogliere il mistero sottile di quegli anni: la gioia malinconica con cui due uomini, nel cuore dell’America puritana, hanno ridisegnato la storia dell’arte con un abbraccio che ancora ci riguarda.
Una cronologia intrecciata delle vite di Sam Wagstaff e Robert Mapplethorpe, come un montaggio parallelo tra due traiettorie destinate a convergere, scontrarsi, completarsi. Una linea del tempo che non è solo successione di eventi, ma tessitura emotiva, intellettuale, estetica. Subito dopo, possiamo approfondire alcune note e frammenti testuali di Wagstaff custoditi nei Getty Research Institute Archives, con un'analisi critica.
Cronologia intrecciata: Sam Wagstaff & Robert Mapplethorpe
1921 – Sam nasce a New York, figlio di una famiglia agiata dell’establishment WASP (White Anglo-Saxon Protestant). Riceve un’educazione formale, rigida, e coltiva da giovane una passione silenziosa per l’arte. Cresce in un contesto che non ammette l’omosessualità: imparerà a mascherarla con l’intelligenza.
1946 – Sam studia storia dell’arte a Yale, dopo aver prestato servizio nella marina militare durante la Seconda Guerra Mondiale. Si fa strada nel mondo dei musei come giovane curatore.
1946 – Robert nasce a Floral Park, Long Island. Cresce in una famiglia cattolica, di classe media. La madre è devota, il padre severo. Fin da ragazzo, Mapplethorpe sente di essere “diverso” ma non ha ancora un linguaggio per definirsi. Comincia a disegnare, collezionare immagini, ritagliare icone da riviste patinate.
1960 – Sam lavora al Wadsworth Atheneum di Hartford, dove organizza mostre d'avanguardia. La sua visione si distingue per il taglio concettuale e per un gusto raffinato verso l’arte non convenzionale.
1963 – Robert si iscrive al Pratt Institute di Brooklyn per studiare pittura e grafica. Inizia a esplorare l’identità queer e a vivere la propria sessualità in modo più aperto, ma sempre in conflitto con le aspettative della famiglia.
1967 – Robert incontra Patti Smith, con cui stringe un legame profondo. Vivono insieme al Chelsea Hotel e condividono povertà, bellezza e ambizione. È Patti a incoraggiarlo ad abbandonare il collage e a scattare le prime fotografie con una Polaroid.
1970 – Sam lascia Detroit per tornare a New York, più disilluso dal mondo museale e più attratto dal collezionismo fotografico. È tra i primi a intuire che la fotografia può diventare arte museale, come la pittura o la scultura.
1972 – Sam e Robert si incontrano a una mostra organizzata da George Dureau. È un colpo di fulmine intellettuale, fisico, esistenziale. Comincia un sodalizio profondo: Sam compra a Robert la sua prima Hasselblad, lo introduce nel circuito galleristico newyorkese, lo sprona a formalizzare la propria visione.
1973–1980 – È il periodo d’oro. Mapplethorpe perfeziona il suo stile: nudi maschili classicamente composti, fiori come simboli sessuali, autoritratti inquietanti. Sam intanto costruisce la sua collezione fotografica, una delle più raffinate del secolo, con scatti di Atget, Cameron, Evans, Nadar.
1983 – Sam inizia a mostrare i primi sintomi dell’AIDS. Anche Robert contrae il virus, ma nessuno dei due smette di lavorare. La malattia diventa parte della loro estetica: la decadenza come memento mori erotico.
1984 – Wagstaff dona parte della sua collezione fotografica al Getty Museum. Un gesto non solo filantropico ma anche profondamente strategico: garantisce alla fotografia uno statuto museale duraturo.
1987 – Sam muore a 66 anni. Robert è al suo fianco. È la prima grande perdita. Robert si immerge nella creazione della sua ultima opera-testamento.
1989 – Robert muore il 9 marzo, a 42 anni. Pochi mesi dopo la sua retrospettiva al Whitney Museum, consacrata come evento epocale. Il loro mito si completa: non più semplicemente fotografo e mecenate, ma costruttori di un’estetica della disobbedienza e del sublime.
Note, lettere e frammenti dai Wagstaff Papers (Getty Research Institute)
Il Sam Wagstaff Papers Archive contiene corrispondenza, diari frammentari, annotazioni su fogli volanti, elenchi e cartoline. Alcuni dei brani più intensi sono questi:
1. Nota senza data, ritrovata in una cartella intitolata “Robert – Temple”
“He brings me visions like no one else ever did. Not even pain comes without a frame. He frames even pain.”
(Trad. libera: “Mi porta visioni come nessun altro. Neanche il dolore arriva senza cornice. Lui incornicia anche il dolore.”)
Analisi:
Questa nota rivela l’estrema consapevolezza estetica di Wagstaff, che percepisce Mapplethorpe non solo come artista, ma come filtro assoluto della realtà. Tutto ciò che Robert tocca – perfino la sofferenza – diventa forma, significato, arte.
2. Frammento da una lettera non spedita (1975)
“You are becoming what I can only admire and never imitate. I give you all I have – and it’s not enough – but perhaps it’s the right kind of not-enough.”
(Trad. libera: “Stai diventando ciò che io posso solo ammirare e mai imitare. Ti do tutto quello che ho – e non basta – ma forse è il giusto tipo di ‘non basta’.”)
Analisi:
Qui affiora una dichiarazione di vulnerabilità. Sam non cerca di possedere Robert, ma di offrirgli una condizione ideale per esplodere artisticamente. La sua “insufficienza” diventa una forma nobile di supporto.
3. Lista manoscritta trovata in una cartelletta di pelle nera (1980 circa)
Robert as:
– Angel
– Killer
– Christ
– Narcissus
– Gladiator
– God
– Frame.
Analisi:
Una lista folgorante, che trasforma Mapplethorpe in archetipo. Ogni voce è una maschera mitica che Sam gli attribuisce. L’ultima parola, “Frame”, è cruciale: Robert è anche la cornice, non solo l’immagine. È l’autore della visione e il limite entro cui si manifesta.
Rileggiamo “Black White + Gray” (2007), il documentario di James Crump che non è un semplice biopic o un omaggio tardivo, ma un’intelligente, profonda meditazione su come l’amore, il potere e l’estetica si intrecciano nella relazione tra Sam Wagstaff e Robert Mapplethorpe, con Patti Smith come terzo vertice di un triangolo spirituale.
“Black White + Gray”: anatomia di un documentario
Il film si apre su una nota malinconica: la voce fuori campo ricorda la scomparsa di Sam Wagstaff nel 1987, appena due anni prima di quella di Mapplethorpe. È da questo tempo già concluso che il documentario parte, per ricostruire a ritroso una storia d’amore e influenza reciproca che ha scosso le fondamenta del mondo dell’arte americano degli anni ’70 e ’80.
Il titolo, Black White + Gray, richiama non solo la scala di grigi della fotografia, ma anche le zone di ambiguità, desiderio, controllo e identità sessuale che permeano il rapporto tra i due protagonisti. Nulla è netamente bianco o nero: ogni gesto, ogni fotografia, ogni decisione è il risultato di un equilibrio precario tra libertà e possesso, tra estetica e potere, tra eros e intelletto.
Una relazione che rifonda l’arte
Sam Wagstaff è raccontato come il grande “invisibile” della storia dell’arte americana: un collezionista visionario, che prima di ogni altro intuì il valore artistico della fotografia in un mondo ancora ossessionato da pittura e scultura. Il documentario mostra le sue scelte di collezionista come atti performativi: la fotografia di Nadar, di Evans, di Atget non sono per lui reliquie, ma armi culturali.
Ma è solo con l’incontro con Robert Mapplethorpe che questa intuizione si incarna. Sam trova in Robert il veicolo perfetto per la sua visione. L’uno fornisce i mezzi (materiali, sociali, critici), l’altro li trasforma in immagine, scandalo, culto. Le testimonianze di amici, curatori, artisti – tra cui Dominick Dunne, George Dureau, la stessa Patti Smith – non parlano solo d’amore o passione, ma di una fame comune di forma e potere.
Crump non costruisce un ritratto “romantico”, ma piuttosto una mappa di influenza: Mapplethorpe non sarebbe diventato Mapplethorpe senza Wagstaff. E Wagstaff non avrebbe mai lasciato un’impronta così indelebile senza il giovane fotografo che ha amato, protetto e ammirato.
Il triangolo con Patti Smith
Patti Smith, intervistata con grazia e intensità, offre lo sguardo della “sacerdotessa” del trio. Lei è testimone e partecipe, musa e sorella. Racconta con lucidità il modo in cui Wagstaff guardava Robert, come lo incoraggiava a osare, a non fermarsi davanti a nulla: “Sam lo guardava come si guarda qualcosa che non si possiede mai davvero”.
La sua presenza nel documentario è centrale per sfatare l’idea di una relazione a due. L’universo di Mapplethorpe è, fin dall’inizio, un crogiolo di affetti scelti, un sistema aperto dove eros e affinità elettive si contaminano. E la voce di Patti, lirica e sobria insieme, ricorda quanto Mapplethorpe fosse capace di amare con brutalità e devozione, con cinismo e dolcezza.
Il corpo, la collezione, la morte
Una delle parti più toccanti del film è quella che si concentra sulla malattia e il lento disfacimento dei corpi. Crump monta con precisione immagini, interviste e spezzoni d’archivio per mostrare come l’estetica mapplethorpiana non si sia mai separata dalla morte: i corpi perfetti che lui ritrae sono già cadaveri in potenza, icone che sfidano il tempo proprio mentre lo celebrano.
Wagstaff e Mapplethorpe muoiono a poca distanza l’uno dall’altro, entrambi per complicazioni legate all’AIDS. Ma nel documentario non c’è retorica del martirio: la loro morte è la continuazione della loro arte, non il suo epitaffio. Le immagini finali – le fotografie che scivolano sullo schermo come reliquie sacre – sono montate come una processione silenziosa: non c’è lutto, ma metamorfosi.
Un’eredità estetica e politica
Il documentario è anche un’analisi sul potere: quello economico (la ricchezza di Sam), quello sociale (l’ingresso nelle gallerie), quello simbolico (la costruzione di un’estetica queer che non chiede permesso, che impone la propria centralità).
Crump mostra come la coppia abbia trasformato il panorama artistico americano. Non solo facendo entrare la fotografia nei musei, ma portando la sessualità – queer, esplicita, rituale – al centro della riflessione culturale. Le polemiche, la censura, le mostre bloccate: tutto viene rievocato per mostrare la forza di un’estetica che non si è mai piegata.
Analizzare l’impianto formale e registico di “Black White + Gray” significa entrare in una struttura narrativa e visiva che non si limita a raccontare, ma mette in scena – quasi fosse una mostra – il rapporto tra Sam Wagstaff, Robert Mapplethorpe e Patti Smith. Il regista James Crump non realizza un semplice documentario biografico: costruisce una vera e propria installazione audiovisiva, dove l’intreccio tra parola, immagine e ritmo visivo assume la funzione di uno spazio espositivo mentale, stratificato, immersivo.
La regia come curatela
Crump si muove come un curatore museale: seleziona con precisione il materiale d’archivio, ne studia la disposizione e la giustapposizione, non per offrirci un resoconto cronologico, ma per evocare un clima estetico, un’aria rarefatta e sensuale che è la vera protagonista del film. L’impressione è quella di camminare dentro una galleria fatta di voci e immagini: il montaggio si comporta come un sistema di sale espositive, ciascuna dedicata a un aspetto della relazione, della carriera, dell’epoca.
Il documentario non impone uno sguardo univoco, ma lascia lo spettatore libero di muoversi tra gli “oggetti” esposti: le fotografie di Mapplethorpe, le opere collezionate da Wagstaff, le testimonianze di amici, i documenti visivi della New York underground. Il risultato è una narrazione polifonica, visivamente nitida ma concettualmente ambigua, proprio come le fotografie al centro della vicenda.
Il montaggio come ritmo curatoriale
Il montaggio alterna con fluidità interviste frontali, filmati d’epoca, riproduzioni fotografiche e spezzoni televisivi, costruendo un ritmo che richiama le dinamiche della visione in mostra: ci si avvicina, si osserva, si torna indietro, si accosta una voce a un’immagine, si creano contrasti e corrispondenze.
La partitura visiva evita il sensazionalismo, preferendo una pulizia formale quasi liturgica, con momenti di silenzio pieni di senso, sguardi sospesi, stacchi meditativi che permettono di “guardare” e non solo di “ascoltare”. La fotografia del film è curata nei toni come se si stesse sviluppando in camera oscura: il bianco e nero viene evocato non solo nei contenuti, ma nell’intera grammatica visiva, che gioca su contrasti, profondità, sfocature simboliche.
Lo spazio scenico delle interviste
Le interviste non sono mai casuali: vengono collocate in ambienti che rispecchiano le personalità degli intervistati, con una composizione dell’inquadratura che richiama i ritratti formali. Dominick Dunne, George Dureau, Patti Smith sono ripresi come fossero quadri viventi. L’effetto è duplice: da un lato aumenta l’autorevolezza delle testimonianze, dall’altro sottolinea la teatralità insita nel racconto stesso della memoria. Chi parla, si espone: ogni parola è messa in vetrina come una reliquia emotiva.
Le luci, la distanza, la scelta dell’angolazione trasformano il documentario in una coreografia lenta e ordinata della memoria collettiva, che non vuole rispondere a tutto, ma piuttosto porre lo spettatore davanti a un enigma estetico ed emotivo.
L’uso della musica come raccordo emotivo
La colonna sonora, mai invasiva, gioca un ruolo di raccordo tra i frammenti, come un tappeto che unisce le sale della mostra. Le musiche originali si alternano a momenti di silenzio eloquente, mentre la voce di Patti Smith diventa a tratti una sorta di cantilena epica, come se stesse officiando una liturgia del ricordo. Le sue parole scandiscono i momenti di passaggio, ma non spiegano: guidano, come una luce flebile nella penombra.
Un’opera da attraversare, più che da vedere
In definitiva, “Black White + Gray” lavora come una mostra virtuale in cui lo spettatore è invitato a un pellegrinaggio interiore tra i resti e i fasti di una storia d’amore, di potere, di immagine. La regia di Crump si pone al servizio di un’esperienza più che di una narrazione: ci fa sentire la texture dei tessuti, il nitore delle stampe, la voce distante della morte. È un’opera da attraversare come una sala vuota piena di fantasmi eleganti.
Per un’analisi formale approfondita di alcune sequenze chiave di “Black White + Gray”, possiamo esaminare la costruzione visiva e simbolica di momenti particolarmente significativi, come quelli che riguardano la malattia di Sam Wagstaff, il ritratto di Mapplethorpe e il potere simbolico della fotografia, che vengono sviluppati con una grande cura stilistica da James Crump.
1. La Malattia di Sam Wagstaff: Una stanza vuota
La sequenza in cui viene trattata la malattia terminale di Sam Wagstaff è una delle più intense e d’impatto. In questa parte del film, il montaggio alterna le immagini di Wagstaff in ospedale a quelle di Mapplethorpe, che lo guarda e si prende cura di lui. La regia di Crump sceglie di ridurre al minimo la musica e lasciare che il silenzio e il vuoto visivo diventino i veri protagonisti di questa scena.
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Composizione e inquadrature: Le inquadrature di Wagstaff sono spesso vuote, stese, con un contrasto forte tra la luce fredda dell’ospedale e l’ombra che circonda il suo corpo. Questo gioco tra luce e ombra suggerisce simbolicamente l’avvicinarsi della morte e la fine della sua esistenza. La luce artificiale che illumina il volto di Wagstaff sembra quasi un faro solitario, distante, come se stesse per esaurirsi. L’uso del contrasto tra chiaro e scuro in questa sezione evoca il tema della transitorietà della vita, già presente nelle fotografie di Mapplethorpe.
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La fotografia come testimonianza: In parallelo, le immagini di Mapplethorpe sono tratte da un ambiente più domestico e intimo, in cui la sua passione per l'arte si manifesta nel suo modo di documentare la malattia attraverso la macchina fotografica. In queste sequenze, la macchina fotografica diventa un testimone della sofferenza e del processo di decadenza, ma anche della bellezza intrinseca a tale trasformazione. L'estetica della decadenza è un tema ricorrente nel lavoro di Mapplethorpe e la sua presenza in questa parte del film sembra non solo una documentazione visiva, ma anche una riflessione sul ruolo che la fotografia ha nel mantenere l'epifania della bellezza di un corpo che sta per svanire.
2. Il ritratto di Mapplethorpe: simmetria e potere
La sequenza che esplora l’evoluzione del ritratto di Mapplethorpe è fondamentale per comprendere il suo approccio alla fotografia come meccanismo di potere e possesso. Crump mette in risalto l’estrema simmetria nelle fotografie di Mapplethorpe, che catturano corpi, volti e oggetti in posizioni geometriche perfette. Il corpo umano, in particolare, diventa una scultura vivente, un oggetto che si piega e si trasforma sotto l'occhio della macchina fotografica.
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Inquadrature e composizione: In questa sequenza, la simmetria visiva delle immagini (tipica di Mapplethorpe) si manifesta con un impianto formale preciso e rigoroso: il corpo umano viene esposto alla macchina fotografica in modo che ogni dettaglio, ogni curva, ogni linea venga esaminata come un oggetto di studio. Le figure fotografate, quasi sempre in pose statuarie, sono riprese in forti primi piani, che riducono l’umanità a forme astratte, come se il corpo fosse solo una superficie da esplorare, separata dall'individuo che lo possiede. Questo tipo di fotografia diventa un gioco di potere, dove chi guarda (l'artista, il fotografo) stabilisce il controllo sulla rappresentazione del corpo.
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Ritmo del montaggio: Il ritmo del montaggio è volutamente lento e meditativo, come una danza solenne. Le immagini scorrono lentamente, permettendo allo spettatore di osservare ogni dettaglio del corpo umano rappresentato, quasi a fornirgli il tempo necessario per assorbire il controllo e la manipolazione estetica che Mapplethorpe esercita sulla realtà fisica.
3. Il potere simbolico della fotografia: Il corpo e la censura
Una sequenza chiave del documentario riguarda la risposta pubblica alla fotografia di Mapplethorpe. Crump non si limita a mostrare le fotografie, ma mette in evidenza il loro impatto nella società americana, evidenziando la polemica suscitata dalle sue immagini più provocatorie. La reazione del pubblico e della critica è un tema che esplora il potere della fotografia come mezzo di trasgressione.
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Inquadrature e sequenze di censura: In questa parte del film, le fotografie più esplicite, quelle che trattano il corpo nudo e il sesso in maniera frontale, sono mostrate con un distacco quasi cinematografico, come se la censura stessa fosse parte integrante dell’opera. Il film alterna immagini di pubblicità e di eventi politici, mettendo in contrasto le fotografie di Mapplethorpe con i tentativi di censura che le hanno accompagnate. Le immagini stesse vengono talvolta distorte o sfocate, come se la censura stessa diventasse un’altra forma di arte.
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Sospensione e ruolo della censura: Crump utilizza anche pause sospese nelle immagini, facendo lentamente rientrare il visibile, come se la censura fosse una forma di teatro. La decisione di mostrare solo parzialmente le immagini fotografiche, oppure di interporre dettagli sfocati, forme nere, o immagini che vengono sovrapposte da testi o dichiarazioni pubbliche, trasforma la censura da un atto repressivo in un elemento estetico. Si crea un’interessante tensione visiva tra la potenza delle immagini e il loro tentativo di essere limitate o oscurate.
La fotografia come narrazione di potere e bellezza
L’approccio formale di Crump in “Black White + Gray” trasforma la storia di Mapplethorpe e Wagstaff in una riflessione su arte, potere e bellezza. Ogni sequenza, dal silenzio carico della malattia al ritmo serrato delle immagini fotografiche, gioca con l’idea di possedere, controllare e trasformare l’oggetto fotografato, che sia un corpo nudo o un oggetto d’arte.
La fotografia diventa in questo film una metafora della memoria e del controllo, ma anche della decadenza e della morte. Crump riesce a portare alla luce non solo l’influenza reciproca tra i due protagonisti, ma anche come il medium fotografico abbia avuto il potere di trasformare e immortalare, di rendere eterno un frammento di vita, una relazione o un corpo.
La scena in cui Patti Smith parla del potere del ritratto fotografico in “Black White + Gray” è una delle più intense e rivelatorie del film. La sua riflessione va ben oltre la semplice descrizione della tecnica fotografica: diventa un'esplorazione profonda del rapporto tra l’immagine e l’identità, del potere dell’arte di congelare il tempo e di come una fotografia possa prendere vita e significato in modo complesso.
Il contesto della sequenza
Patti Smith, che è una delle voci narranti più potenti del film, si esprime in una scena apparentemente semplice, dove la fotografia di Mapplethorpe viene messa sotto la lente della sua introspezione poetica. È una riflessione sul come il ritratto non sia solo un'istantanea di un momento, ma un veicolo di memoria, un documento che può restare eterno. In queste riflessioni, Smith non parla solo della sua esperienza diretta con Mapplethorpe, ma affronta la questione del potere che un ritratto ha nel formare la percezione del soggetto ritratto, e nel come l'artista, attraverso l'atto del fotografare, controlli e plasmi l'immagine che il mondo avrà di una persona.
Impianto formale: La sequenza visiva
La sequenza è costruita con una struttura intima e riflessiva, in cui Smith parla direttamente alla macchina da presa, mentre la sua voce, lenta e misurata, si mescola con il montaggio delle fotografie di Mapplethorpe e di alcuni dei suoi ritratti più iconici, tra cui le immagini di Patti stessa. La fotografia di Mapplethorpe, soprattutto nelle immagini di Smith, diventa un punto d'incontro tra l'intimo e l'artistico, dove ogni scatto sfuma i confini tra soggettività e oggettività.
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L'inquadratura è stretta, quasi intima, con un gioco di luci soffuse che mette in risalto il volto di Patti Smith mentre riflette. Non c'è l'energia frenetica tipica dei concerti, ma piuttosto una calma meditativa, che fa riflettere sulla forza silenziosa di una fotografia che cattura non solo l’aspetto esteriore ma anche l'anima del soggetto.
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Il montaggio alterna immagini di Patti in diversi momenti della sua vita e della sua carriera, creando una forte connessione tra il suo corpo, il suo viso e l'arte di Mapplethorpe. La fotografia diventa un modo per "congelare" e dare significato a frammenti di vita che altrimenti svanirebbero nel tempo. Ogni fotografia è una dichiarazione sulla vulnerabilità e sulla forza di un individuo, ma anche sulla capacità di un artista di imporre un’immagine che diventa parte della storia collettiva.
La voce di Patti Smith e il significato del ritratto
Patti Smith, nel raccontare come Mapplethorpe la ritraeva, si concentra su un aspetto fondamentale: l’atto di posare e di essere "guardati" da un fotografo. La sua riflessione ruota attorno alla consapevolezza che ogni scatto è una negoziazione tra chi si fa fotografare e chi scatta la foto. Mentre Smith ammette che Mapplethorpe la rendeva consapevole della sua presenza fisica, la sua interpretazione va ben oltre la bellezza estetica del corpo. Parla della sublime violenza che la fotografia può avere, nel senso che l’artista, attraverso l'obiettivo, prende il controllo di un momento e decide come esso sarà ricordato, visto e interpretato.
- Il ritratto e il potere: Quando Patti Smith riflette sul ritratto fotografico, dice che il fotografo ha un potere tremendo. Ha il potere di prendere una parte di te, di renderla eterna, di farla diventare simbolo. Non si tratta solo di un’istantanea fisica, ma di una costruzione emotiva e simbolica che rimane nel tempo. Il ritratto di Mapplethorpe non era mai solo una rappresentazione del corpo, ma un modo di svelare un'anima, di creare un'immagine che si sovrappone all'identità.
Il potere estetico della fotografia: L’arte del congelamento
L’idea che la fotografia abbia il potere di "congelare" un momento è fondamentale nel pensiero di Patti Smith. La sua dichiarazione suggerisce che una fotografia non è mai una semplice copia della realtà, ma è un atto creativo che interpreta e trasforma. Nella sua esperienza con Mapplethorpe, il ritratto non era un mezzo per documentare la sua esistenza, ma un’esplorazione della sua identità, della sua visione del mondo e della sua esperienza artistica.
- Il ritratto come memoria e identità: Il potere della fotografia, secondo Smith, risiede anche nel fatto che ciò che è fotografato diventa "memoria", un qualcosa che si allontana dalla temporaneità del corpo fisico. Un ritratto come quello di Mapplethorpe non riguarda solo l'immagine di una persona in un dato momento, ma diventa un oggetto eterno, qualcosa che durerà nel tempo, rivelando sempre nuove interpretazioni a chi lo osserva. Patti descrive la sua connessione con il ritratto come un atto di fiducia e, al contempo, un gioco di potere tra l’artista e il soggetto.
La fotografia come linguaggio dell'anima
Questa scena, quindi, è centrale nel documentario perché mette in evidenza il ruolo cruciale che la fotografia di Mapplethorpe ha avuto non solo nella carriera artistica di Patti Smith, ma anche nel processo di costruzione della sua identità pubblica e personale. Il ritratto non è solo un’immagine esteriore, ma un atto di rivelazione che può diventare una metafora di chi siamo e di come il mondo ci vede. La fotografia non è mai solo un mezzo di documentazione, ma una forma di comunicazione profonda, un linguaggio che ha il potere di cristallizzare l'essenza di una persona.
L'analisi della scena in cui Patti Smith riflette sul potere del ritratto fotografico in Black White + Gray non può essere separata dal contesto più ampio del film, che esplora la relazione complessa e trasformativa tra Robert Mapplethorpe e Sam Wagstaff, e l’influenza che Mapplethorpe ha avuto sul mondo dell'arte contemporanea, specialmente riguardo alla fotografia e all'iconografia del corpo umano. In questa scena, Patti Smith non solo discute la sua esperienza personale con Mapplethorpe, ma lancia anche una riflessione più universale sul ruolo della fotografia nella costruzione dell’identità e sul suo potere simbolico. La scena interagisce in modo profondo con il resto del film, rivelando i temi centrali del lavoro di Mapplethorpe, e incorniciando il rapporto tra arte e vita che è alla base di molte delle sue opere.
La fotografia come "specchio" e come "costruzione"
Una delle dinamiche più potenti che emergono dalla scena di Patti Smith è la riflessione sul ritratto fotografico come specchio, un tema che è centrale in tutto il film. La fotografia in Black White + Gray non è mai presentata come un semplice strumento di documentazione, ma come un atto di rivelazione dell’anima, dove l’artista non si limita a catturare un'immagine, ma costruisce una realtà. Questa idea è particolarmente evidente nella relazione tra Mapplethorpe e i suoi soggetti. L'influenza di Smith in questo contesto è cruciale, perché rappresenta la sua evoluzione da musa a co-creatrice. La sua riflessione sulla fotografia, quindi, non è solo un commento sulla sua esperienza, ma diventa anche un ponte tra le varie motive estetiche e filosofiche che il film cerca di esplorare.
Nel film, Mapplethorpe si muove tra diverse tensioni: quella tra il suo desiderio di espandere il limite della pornografia e dell'arte, e la sua spinta a affermare la purezza dell’arte attraverso la forma fotografica. La scena con Patti Smith funge da "interludio contemplativo" che aiuta lo spettatore a capire meglio le contraddizioni dell'artista. Mapplethorpe non era solo un fotografo provocatorio, ma un ricercatore della verità interiore, spesso indagando su temi di identità sessuale, corpo, e sensualità, ed è in questo contesto che le parole di Patti Smith assumono un significato ancora più profondo.
La scena come "interludio poetico" e connessione con la visione di Mapplethorpe
L’interazione tra la scena di Patti Smith e il resto del film assume il suo massimo valore quando consideriamo che il film stesso si sforza di combinare il linguaggio poetico di Mapplethorpe con il suo approccio documentaristico e provocatorio. Mentre il film racconta il lato più fisico e diretto del lavoro di Mapplethorpe – spesso crudo, a tratti scabroso – la riflessione di Smith introduce una dimensione poetica e filosofica, che completa e amplifica il linguaggio visivo del fotografo. Il suo discorso è un contrappunto necessario, che dà voce a quella parte di emozione e introspezione che non sempre emerge nelle immagini di Mapplethorpe, ma che è sempre implicita nelle sue composizioni.
La scena in cui Patti Smith riflette sul potere del ritratto può essere vista come un momento di distensione emotiva che prepara il terreno per le sequenze successive. Il film, infatti, segue un flusso che passa da momenti di durezza e intensità, a riflessioni più delicate, come quelle di Patti. Questo passaggio di tono è significativo perché riflette la struttura poliedrica di Mapplethorpe come artista: un uomo capace di provocare, ma anche di creare legami intimi e profondi con i suoi soggetti. Smith stessa, con la sua intelligenza emotiva, è la persona giusta per esprimere questa dualità: il corpo come oggetto di desiderio e di sfida, ma anche come simbolo di una bellezza fragile e universale.
Il ritratto come "memoria" e il ritorno al corpo
Nel film, la fotografia di Mapplethorpe viene costantemente esplorata sotto l’aspetto della memoria e della traccia lasciata dal corpo umano. La scena in cui Patti Smith parla del ritratto fotografico si inserisce perfettamente in questa riflessione, perché sottolinea come ogni scatto non solo cattura un momento, ma diventa un atto di memoria che sfida il tempo. Molte delle opere di Mapplethorpe, come le sue famose immagini in bianco e nero di corpi nudi, cercano di esprimere la bellezza effimera del corpo umano, ma anche di renderla eterna, di trasformarla in icona. Le fotografie di Mapplethorpe, quindi, diventano una memoria fisica e una memoria storica, e la riflessione di Smith aiuta a capire quanto il corpo, per Mapplethorpe, non fosse solo un soggetto da fotografare, ma un luogo di riflessione profonda su ciò che è visibile e ciò che resta nascosto.
Inoltre, la scena di Patti Smith si intreccia con il tema del ritorno al corpo che è al centro della sua carriera musicale e artistica. La riflessione sulla fotografia come specchio diventa anche un ritorno al corpo come memoria viva, e a come la fotografia riesca a "tradurlo" in arte, in una forma che non solo rende visibile il corpo, ma lo trasforma in un concetto universale, in un elemento che va oltre il singolo individuo per diventare un simbolo della condizione umana.
Un’interazione intima e fondamentale
La scena con Patti Smith è, quindi, una delle sequenze chiave in Black White + Gray perché ci offre una profonda connessione tra il lavoro di Mapplethorpe e la visione più personale e artistica di chi ha interagito intimamente con lui. La riflessione sulla fotografia come potere di fissare l’identità e di costruire un’immagine che sfida la temporalità si intreccia perfettamente con il lavoro di Mapplethorpe e con la sua ricerca di un’immortalità estetica. Questa scena, apparentemente semplice, diventa il fulcro di un dialogo tra il corpo, la memoria e l’arte, e sottolinea come le immagini che Mapplethorpe ha creato non siano mai soltanto fotografie, ma elementi viventi di una narrazione che va ben oltre la fotografia stessa.
PER TORNARE AL PUNTO DI PARTENZA
La mostra dedicata a Mapplethorpe alle Stanze del Vetro di Venezia, che resterà aperta fino al 6 gennaio 2026, si configura come un’occasione imperdibile per esplorare la poliedrica e rivoluzionaria carriera di uno dei fotografi più audaci e visionari del XX secolo. Le Stanze del Vetro, con la loro particolare attenzione alla fusione tra arte e contemporaneità, sono il palcoscenico ideale per raccontare la forza iconica delle opere di Mapplethorpe, che non solo hanno rivoluzionato il modo di guardare il corpo umano, ma anche la percezione della fotografia come mezzo espressivo e la sua capacità di trasformare la realtà in un’arte assoluta.
Attraverso una selezione che attraversa tutta la sua carriera, dai celebri ritratti in bianco e nero agli audaci nudi e alle composizioni floreali, la mostra permette di immergersi nel mondo di Mapplethorpe, ricco di contraddizioni e sfumature, e di cogliere il suo approccio estetico meticoloso e provocatorio. Il percorso espositivo offre l’opportunità di osservare da vicino il suo stile formale impeccabile, la sua ricerca incessante sulla bellezza e sul corpo, e la sua capacità di sfidare i confini sociali e morali attraverso l’arte fotografica. Le opere non solo raccontano una storia personale ed emotiva, ma pongono interrogativi universali sulla identità, la sessualità e la rappresentazione del corpo.
In un contesto come quello delle Stanze del Vetro, la mostra si inserisce in una conversazione continua tra tradizione e innovazione, e attraverso le fotografie di Mapplethorpe, offre al pubblico un’occasione di riflessione sulla capacità dell’arte di trasformare e reinterpretare la realtà, di sfidare le convenzioni e di offrire nuove modalità di percezione visiva e intellettuale. L'esposizione diventa così non solo una celebrazione di un artista iconico, ma anche un tributo a quella forza sovversiva dell’arte che, come Mapplethorpe stesso ha dimostrato, è capace di rompere barriere e ridefinire significati.