lunedì 28 aprile 2025

Rivelazioni in forme e parole: L'influenza di Rodin, Cézanne e la poetica di Rilke

Il rapporto tra Rainer Maria Rilke e Auguste Rodin fu una delle esperienze più decisive e profonde nella formazione intellettuale e spirituale del poeta austriaco, un crocevia raro in cui l’incontro tra parola e materia, tra pensiero e gesto plastico, si fece incarnazione di un'etica dell’arte. Quando Rilke conobbe Rodin, era ancora un giovane autore in cerca della propria voce, sospeso tra simbolismo, inquietudine religiosa e aspirazione a una poesia che fosse, al tempo stesso, epifania e oggetto, visione e scultura interiore. Rodin, invece, era già un artista celebre, quasi mitico, capace di imprimere nella pietra, nel bronzo, nel gesto stesso dello scalpello, una forza primordiale e insieme meditativa. Il loro incontro fu un evento di rara intensità: da un lato, un poeta che voleva “imparare a vedere”, dall’altro uno scultore che scolpiva come se ogni forma emergesse dalla notte del mondo.

Rilke fu presentato a Rodin nel 1902, e poco dopo, nel 1903, pubblicò “Auguste Rodin”, un saggio nato come articolo per una rivista tedesca, poi ampliato e trasformato in un vero e proprio omaggio letterario, che trascende la biografia per diventare riflessione metafisica sull’arte. Il testo è scritto con l’ammirazione trepida di chi ha trovato un maestro. Ma non è un’agiografia: è l’intelligenza di Rilke che cerca, tra le pieghe del marmo e del bronzo, una risposta alla domanda che lo accompagnerà per tutta la vita: cosa significa vivere da artista?

Nel 1905, Rilke si trasferì a Parigi con la moglie Clara Westhoff, che era stata allieva di Rodin, e accettò di lavorare per un anno come segretario personale dello scultore. Quella convivenza, apparentemente felice, si rivelò per Rilke tanto illuminante quanto dolorosa. Da un lato, l’esperienza gli permise di osservare da vicino la disciplina feroce e il silenzio costruttivo di Rodin, la sua concentrazione quasi monastica, la capacità di trarre vita da ogni forma, da ogni dettaglio anatomico. Dall’altro, Rilke sperimentò anche l’insofferenza del maestro verso chi lo idealizzava troppo, la distanza affettiva, il bisogno di difendere la propria solitudine creativa. Rodin, infatti, lo licenzierà senza troppe spiegazioni nel maggio del 1906, probabilmente infastidito dalla presenza troppo intellettuale e poetica del giovane segretario.

Eppure, il tempo trascorso accanto allo scultore fu per Rilke un’educazione esistenziale. In “Auguste Rodin”, la sua prosa si trasforma in una sorta di liturgia della forma. Rilke non descrive le opere: le evoca, le ascolta, le interroga. Parla delle mani scolpite da Rodin come di sinfonie di movimento, tensione e riposo, capaci di raccontare l’intera vita di un corpo. Cita, ad esempio, "Le mani di Dio", una composizione di due mani che si sfiorano senza toccarsi, e vi legge il desiderio e la distanza, la creazione e il vuoto. Per Rilke, ogni mano di Rodin è un poema plastico che pensa, sogna, trattiene una memoria. "In nessuna parte del corpo umano si esprime il movimento in modo più ricco, più vario, più incalzante che nelle mani", scrive, dando voce a un’estetica in cui la materia non è mai muta, ma gravida di interiorità.

Rodin diventa così, nel testo rilkeano, una figura archetipica: non tanto uno scultore, ma l’incarnazione stessa dell’artista che si dona al mondo attraverso il lavoro. Per Rilke, lavorare come Rodin significa vivere senza distrazioni, senza compiacimento, immergersi nelle cose fino a farsi cosa, Ding. La poesia rilkeana muterà per sempre dopo quell’incontro: dai versi lirici dei primi anni si passa a una parola più concreta, oggettiva, una parola che non descrive ma plasma. Nei “Nuovi Poemi” (Neue Gedichte), pubblicati tra il 1907 e il 1908, la poesia si fa infatti “cosa”, Ding-Gedicht, e ogni oggetto – una pantera, un vaso, un torso – diventa epifania ontologica.

Questo slittamento è una diretta conseguenza della lezione rodiniana: la scultura come atto di concentrazione, la forma come accoglienza del tempo. Rodin non scolpisce il gesto fugace, ma ciò che nel gesto resta. L’arte, allora, non è espressione dell’io, ma epifania del reale. Per Rilke, imparare da Rodin significò imparare il silenzio, la durata, la dedizione. Lontano dalla parola che canta, il poeta si fa artigiano, monaco della visione. Così scrive nel saggio: "La pazienza è tutto. Non esiste arte che sia fatta senza di essa. Non esiste grandezza che non sia nata dal silenzio."

E in quel silenzio, tra la polvere degli atelier e le ombre dei corpi scolpiti, Rilke trovò il suono nuovo della sua voce. Non più la voce di un io romantico, ma quella di un testimone che parla perché ha visto, e ha toccato con lo sguardo. In questo senso, “Auguste Rodin” è anche un’autobiografia indiretta, una confessione poetica in forma di ritratto. Rodin, in fondo, è l’“altro” che permette a Rilke di diventare se stesso.

Il saggio “Auguste Rodin” di Rainer Maria Rilke, scritto in lingua tedesca e pubblicato per la prima volta nel 1903 (poi ampliato nel 1907), si compone di una struttura articolata che segue, con ritmo meditativo, una traiettoria ascensionale: dall’uomo all’artista, dall’artista all’opera, dall’opera alla concezione spirituale dell’arte come forma di vita. Ogni sezione – benché non esplicitamente titolata da Rilke – corrisponde a una fase ben riconoscibile nel movimento del pensiero e dell’ammirazione poetica. Di seguito, esploro ciascuna parte nel dettaglio, come se il saggio fosse una partitura musicale in quattro movimenti.

1. Ritratto dell’uomo: Rodin come figura interiore

La prima parte è dedicata alla figura di Rodin come essere umano. Rilke si sofferma sulla sua nascita modesta, la formazione incerta, i primi fallimenti, la lunga invisibilità presso il pubblico e la critica. Questo non è solo un contesto biografico: è una sorta di racconto iniziatico. Rodin diventa un eroe silenzioso, quasi un santo laico dell’arte. Rilke lo descrive come un uomo assorto, severo, poco interessato al mondo esterno, e del tutto fedele a un impulso interiore che lo guida verso la forma. È in questa parte che emergono le radici esistenziali della sua poetica: l’artista non è tale per grazia, ma per necessità; la solitudine non è una condizione da temere, ma da custodire. La figura di Rodin assume contorni ascetici, quasi francescani, come se la materia stessa fosse da lui “ascoltata” e non dominata. Il giovane Rilke, che osserva, ne trae un modello etico più che estetico.

2. Il lavoratore: l’arte come mestiere

Qui Rilke si sofferma sul metodo di Rodin, sulla sua quotidianità. È forse la parte più importante per comprendere l’etica del lavoro che Rodin incarna agli occhi del poeta. Rilke osserva che Rodin non si abbandona a ispirazioni vaghe, non attende il fuoco sacro: lavora. E lavora come un artigiano antico, con la pazienza del contadino, con la precisione dello scienziato, con la fede del monaco. Ogni giorno Rodin affronta la materia senza vanità, convinto che l’arte sia fatta di attenzione, pazienza, perseveranza. Rilke cita il fatto che Rodin abbia studiato per anni l’anatomia, che abbia copiato instancabilmente le figure antiche, che abbia scolpito mani, piedi, torsioni, senza pretendere di “creare”, ma solo di vedere meglio. È qui che emerge la famosa affermazione: "L’arte è lavoro." Una frase che per Rilke diventa un motto, e che riecheggerà poi nella sua Lettera a un giovane poeta, dove l’arte è intesa come vocazione che si manifesta nella fatica, non nel sogno.

3. Le opere: la materia che pensa

Questa sezione costituisce il cuore estetico del saggio. Rilke entra nel dettaglio delle sculture, ma non lo fa da critico d’arte: le descrive come se fossero presenze vive, anime incarnate nella materia. La parola poetica si piega qui al servizio della scultura. Rodin non rappresenta, dice Rilke, ma rivela. Le sue figure non sono immagini statiche: sono movimento che ha trovato la propria quiete, gesto che si è fatto corpo, tempo che si è condensato nella forma. Celebri sono i passaggi dedicati alla Porte de l’Enfer, al Pensatore, a San Giovanni Battista, al Bacio, alla Cattedrale. In quest’ultima opera (due mani che si sfiorano come archi gotici), Rilke riconosce una spiritualità muta, un senso del sacro che non ha bisogno di dogmi. E ancora, la riflessione sulla Pantera anticipa direttamente il celebre poema, in cui la prigionia e la dignità dell’animale diventano simbolo dell’uomo moderno. Qui l’osservazione si fa visionaria, e la scultura diventa una teologia del corpo.

4. La visione: Rodin come simbolo dell’artista universale

Nell’ultima parte, Rilke lascia progressivamente la cronaca, la descrizione e perfino la figura stessa di Rodin, per elevarsi a una visione quasi metafisica dell’artista. Rodin è ormai un archetipo: l’uomo che ha saputo ascoltare il mondo con le mani. L’artista, dice Rilke, deve “vivere nel fare”, deve essere “totalmente dedito all’opera”, senza mai chiedere nulla in cambio. L’arte non è consolazione, né celebrazione, ma immersione radicale nell’esistente. Così la solitudine di Rodin diventa paradigmatica: l’arte vera si compie nel silenzio, nella lentezza, nella rinuncia. “La vita dell’artista è un lungo avvicinarsi a sé”, scrive Rilke, e l’eco di questa frase attraverserà tutta la sua produzione successiva.

Rodin è dunque, per Rilke, la prova che si può vivere al servizio della bellezza senza cedere alla tentazione del narcisismo. E in questo senso, l’intero saggio non è tanto una monografia quanto una meditazione su cosa significhi essere, davvero, un artista.

L’eco dell’esperienza di Rainer Maria Rilke accanto a Rodin — intesa come immersione in una visione dell’arte fondata sul lavoro, sulla forma, sulla fedeltà alla realtà concreta e silenziosa — si diffonde come una corrente sotterranea ma potente in molte delle sue opere successive, assumendo toni diversi, ma sempre riconoscibili. Tre fra i testi più emblematici in questo senso sono La pantera, le Elegie duinesi e I quaderni di Malte Laurids Brigge. Ognuno di essi traduce, in forma poetica, narrativa o lirico-filosofica, il nucleo spirituale che Rilke aveva visto incarnato in Rodin: una visione dell’arte come lotta interiore per dare forma all’invisibile.

La pantera (1902)

Scritta poco dopo l’incontro con Rodin e considerata da molti il primo vero risultato della poetica “scultorea” di Rilke, La pantera è un componimento breve ma densissimo, che trasforma l’animale in gabbia dello zoo di Jardin des Plantes in una figura tragica e ieratica, degna delle sculture rodiniane.

La pantera è, in un certo senso, l’equivalente animale di un’opera d’arte compressa: il suo corpo è forza trattenuta, potenza che non può manifestarsi. Rilke la descrive come prigioniera, sì, ma non solo della gabbia fisica — anche di una prigione esistenziale. Lo sguardo dell’animale “ha stancato tanto il vedere, / che nulla più trattiene” e il suo movimento circolare sembra un rituale, un gesto che si è scolpito nella carne, come una figura che Rodin avrebbe potuto modellare nella cera o nel bronzo.

La lezione di Rodin è tangibile: l’arte non deve spiegare, ma far essere. La pantera non è un simbolo, non è allegoria: è presenza, è forma. E Rilke la osserva con lo stesso silenzioso rispetto con cui Rodin osservava un muscolo, una spalla, un piede. La poesia stessa si fa oggetto, scolpita nella lingua, densa come una figura marmorea.

Elegie duinesi (1912–1922)

Qui la lezione di Rodin si fa visione cosmica. Le Elegie sono attraversate da un’intuizione centrale che può essere considerata una trasfigurazione filosofica dell’insegnamento rodiniano: l’uomo come creatura sospesa tra il visibile e l’invisibile, chiamata a “trasformare l’amore terrestre in qualcosa di eterno”.

Rodin aveva mostrato a Rilke che l’artista non rappresenta: traduce il visibile in una forma capace di durare. Così, nelle Elegie, l’uomo è chiamato a “lodare il mondo”, a trasfigurare la realtà attraverso lo sguardo amoroso, a farsi “angelo”, cioè messaggero tra il sensibile e l’ultrasensibile. La seconda elegia, in particolare, si interroga sul rapporto tra vita e arte, tra esistenza e forma. La vita, dice Rilke, è effimera, ma l’arte può essere una “figura del transitorio” che perdura.

L’eco di Rodin risuona anche nell’attenzione quasi plastica alle immagini: le Elegie sono costruite per visioni, per apparizioni. I corpi, le mani, i gesti — elementi così cari a Rodin — riappaiono trasfigurati, ma intatti nella loro forza archetipica. E l’artista, nelle Elegie, non è più solo uno scultore: è l’interprete dell’umano, colui che deve dare forma al dolore, all’estasi, all’assenza, come Rodin aveva dato forma alla Pietà, alla Cattedrale, al Bacio.

I quaderni di Malte Laurids Brigge (1904–1910)

In questo romanzo in forma di diario, Rilke porta all’estremo la riflessione sulla visione, sull’isolamento e sul rapporto con il reale. Malte, alter ego dell’autore, vaga per Parigi (la città dove visse e lavorò con Rodin) e registra ciò che vede con uno sguardo acutissimo e insieme vulnerabile, come se ogni cosa avesse una voce segreta.

Qui Rodin è ovunque — ma come fantasma. Non viene mai nominato esplicitamente, ma l’intero romanzo è un esercizio rodiniano: imparare a vedere, imparare a stare nelle cose, imparare a soffrire il peso della realtà. Malte si confronta con il dolore, con la povertà, con i volti dei morenti, con la decomposizione. Ma cerca anche — come Rodin — di trovare una forma. E spesso questa forma è la parola.

Come lo scultore che indaga il volto umano attraverso la materia, Malte si avvicina alla realtà per dissolverne le maschere. Il tema della morte, così centrale per Rodin (basti pensare al progetto della Porte de l’Enfer), torna qui come orizzonte di ogni esperienza. Ma ciò che conta non è la morte in sé, bensì la sua trasfigurazione in consapevolezza, in figura.

Malte scrive: “Non è forse vivere un lungo imparare a morire?” — una frase che sembra nascere dalla medesima sorgente etica del saggio su Rodin, dove il fare artistico è un esercizio spirituale, una lotta continua per raggiungere l’essenziale.

L'influenza dell'esperienza di Rainer Maria Rilke accanto ad Auguste Rodin si riflette profondamente e stratificatamente nelle sue opere successive, tra cui La pantera, le Elegie duinesi e I quaderni di Malte Laurids Brigge. In questi testi, Rilke assimila e trasfigura l'insegnamento rodiniano, incentrato su un'estetica della forma, della presenza e del silenzio contemplativo, elevando la parola poetica a strumento di scultura invisibile, capace di modellare l'interiorità, la visione e la risonanza spirituale del reale.

1. La pantera (1902): la forma come gabbia, presenza e energia latente

Composta durante il soggiorno parigino, in piena immersione nella lezione di Rodin, La pantera costituisce un testo di soglia. Rilke osserva l'animale nello zoo del Jardin des Plantes e ne coglie non tanto l'aspetto zoologico quanto la condizione esistenziale e metafisica. La pantera diviene oggetto di contemplazione, ma anche figura esatta dell'imprigionamento ontologico e, al tempo stesso, della potenza incapsulata. In questi versi:

"Del va e vieni delle sbarre è stanco / l'occhio, tanto che nulla più trattiene. / Mille sbarre soltanto ovunque vede / e nessun mondo dietro mille sbarre."

la forma non è solo prigione, ma costrizione strutturata, come la materia per lo scultore. La belva è colta nella sua dignità ieratica, nel suo ritmo interno. L'influenza di Rodin si avverte nella resa plastica, nella frontalità dell'immagine, nell'essenzialità: la poesia non descrive, scolpisce nel linguaggio.

Più avanti:

"Molle ritmo di passi che flessuosi e forti / girano in minima circonferenza, / è una danza di forze intorno a un centro / ove stordito un gran volere dorme."

Qui Rilke entra nel cuore stesso della visione rodiniana: l'energia del gesto come forma che abita il tempo, l'inerzia come attesa gravida, e il movimento interno che si oppone all'apparente stasi. Il "gran volere" che dorme è la creatura creativa, come Rodin stesso nel suo studio: l'arte come concentrazione incandescente.

2. Elegie duinesi (1912–1922): la trasfigurazione del visibile e il pathos della forma

Nelle Elegie duinesi, l'eco dell'insegnamento rodiniano si innesta su una riflessione cosmica e ontologica più ampia. L'artista non è più solo testimone, ma mediatore tra visibile e invisibile. Rodin aveva insegnato a Rilke a vedere, a sentire le cose nel loro esserci, nella loro massa silenziosa e nel loro lavorìo interiore. Le Elegie trasformano questo atto percettivo in canto metafisico.

"Angelo, se io gridassi, chi mi udrebbe dalle schiere degli angeli? / E se pure uno mi stringesse all'improvviso al cuore: io svanirei / per la sua più forte esistenza."

L'angelo, figura centrale, è la controparte del corpo inerte delle sculture di Rodin. È pura forma spirituale, ma intollerabile alla materia. È l'equivalente poetico del tentativo impossibile di Rodin di scolpire l'invisibile, l'attimo, l'anima.

Più avanti:

"La bellezza non è che l'inizio del tremendo, che ancora sopportiamo appena..."

Questo "tremendo" è lo stesso che Rodin intuiva nella tensione delle sue figure, nel dramma delle superfici, nella nudità come verità ontologica. Le Elegie portano all'estremo questa intuizione, laddove la forma diviene destino, ferita, apertura all'altro.

3. I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910): l’osservazione come gesto scultoreo

Nell’unico romanzo di Rilke, l’influenza di Rodin si manifesta attraverso una scrittura del dettaglio, della visione tagliente, della concentrazione assoluta sul visibile. Malte è un flâneur metafisico che attraversa Parigi come se fosse uno studio di scultura. Ogni figura, ogni volto, ogni mendicante è colto nella sua verità essenziale, nella sua dignità tragica.

"Ci sono giorni in cui tutto intorno a noi è lucente, leggero, appena accennato nell’aria chiara e pur nitido. Le cose più vicine hanno già il tono della lontananza, sono sottratte a noi, mostrate a noi ma non offerte."

Questa fenomenologia della visione è una delle eredità più profonde di Rodin: osservare senza giudicare, vedere fino a che l’oggetto perda la sua superficie e riveli la propria sostanza. Malte guarda le cose come uno scultore, in silenzio, senza pathos, ma con assoluta pietà. La città diventa laboratorio d’anima.

"Dobbiamo pensare che la povertà non sia ancora visibile abbastanza. Ecco perché la sua immagine si moltiplica nelle strade, deve gridare la propria presenza."

È la stessa compassione che Rodin metteva nel modellare i corpi dei miserabili, dei dannati, dei lavoratori piegati. Malte vede con l’occhio che Rodin ha insegnato a Rilke: l’occhio che si fa mano, che plasma il reale dentro la scrittura.

4. Altre poesie: la materia delle cose e il silenzio che parla

L'influenza di Rodin si irradia anche in poesie meno note, dove la contemplazione della forma, della materia, della quotidianità muta, si traduce in versi scolpiti. Nella poesia Archaïscher Torso Apollos, ad esempio, la percezione della statua mutila diventa visione trasfigurante:

"Denn da ist keine Stelle, / die dich nicht sieht. Du musst dein Leben ändern."

("Perché non v'è parte / che non ti veda. Devi mutare la tua vita.")

Qui la lezione rodiniana dell’intensità della presenza, della potenza comunicativa della forma anche spezzata, si fa imperativo esistenziale. La poesia si chiude con un’epifania morale: la forma osservata ha trasformato il soggetto osservante. La scultura diventa specchio e ferita.

In Der Löwe, il leone è modellato come figura regale e impenetrabile, non distante per forza simbolica dalla Pantera, ma dotato di una calma che è tempo condensato. La contemplazione di Rilke lavora qui come cesello:

"Wie eine Wölbung in sich selbst gekrümmt..."

("Come una cupola ripiegata in sé stessa...")

La bestia è una forma chiusa, assoluta, non minacciosa ma inattingibile: la contemplazione si fa gesto di rispetto e distacco, lo stesso con cui Rodin trattava le sue figure, togliendo enfasi per restituire peso.

Persino nei Sonetti a Orfeo riaffiora il gesto rodiniano, quando la voce poetica diventa scultorea, e l’essere si manifesta attraverso le forme più semplici: un albero, una brocca, un gesto danzante. Il silenzio, come in Rodin, è la cornice della presenza:

"O ihr zarten! Versucht doch, die großen / Lüfte zu fassen, die Luft außen."

("O voi delicati! Provate a contenere / i grandi venti, l’aria di fuori.")

Il corpo, lo spazio, il vuoto: ogni elemento è tratto da una grammatica plastica, quella che Rodin ha scolpito nel marmo, e Rilke nella parola.


Attraverso La pantera, le Elegie duinesi, I quaderni di Malte e numerose altre poesie, Rilke ha prolungato l'opera di Rodin nella parola. Se Rodin scolpiva la carne per renderla spirito, Rilke ha scolpito lo spirito per farne carne verbale. La poesia e la prosa diventano allora la nuova materia, e il poeta, come lo scultore, un artigiano dell’invisibile.

Il confronto tra il metodo compositivo di Rainer Maria Rilke e quello di Auguste Rodin svela un’intensa affinità di visione artistica, in cui entrambi gli artisti abbracciano l’idea che l’arte sia un atto di ascolto profondo, di immersione nell’essere, piuttosto che una mera espressione di intenzioni preconcepite. Se da un lato la scultura di Rodin è improntata sulla contemplazione della materia e sul movimento intrinseco alla sua forma, dall’altro la poesia di Rilke assume un atteggiamento di grande rispetto verso la realtà, cercando di tradurre in parole ciò che è nascosto dietro la superficie visibile. Entrambi rifiutano l’arte come decorazione o simbolo e ne fanno una via di conoscenza, un processo di penetrazione nelle profondità del reale.

1. La contemplazione come gesto generativo

Rodin, come un «scultore della realtà», si immerge completamente nel mondo che lo circonda, non tanto per imporsi su di esso, ma per recepirne l’essenza, plasmando la materia per far emergere la verità che essa porta in sé. Egli lavora la pietra, il bronzo, il marmo con il gesto di chi si lascia guidare dal suo interno, come se ogni colpo di scalpello fosse una rivelazione, un atto di fiducia. Rilke, nel suo saggio su Rodin, descrive quest’approccio come una sorta di «gesto di umiltà» da parte dell’artista: “Il grande scultore non inizia con un’idea precostituita, ma con il rispetto per ciò che la materia gli sussurra”. Questo rispetto per la realtà, questa paziente attesa affinché la forma si riveli, è alla base anche della scrittura di Rilke, che, nei suoi Quaderni di Malte, ci dice che scrivere non è imporsi sulla realtà, ma lasciarla parlare.

Se Rodin plasma la materia, Rilke scolpisce la parola, ma entrambi lo fanno attraverso l’esperienza diretta, l’ascolto, la contemplazione. L’atto creativo non è mai un atto di dominio, ma di relazione, di fusione tra l’artista e la sua materia.

2. L’arte come esperimento di tempo e spazio

Nel caso di Rodin, il tempo si concretizza nella sua scultura: la forma che emerge da una massa grezza di marmo o bronzo è una traccia del tempo stesso, un’impronta di ciò che è passato. Lo scultore non crea un’immagine eterna, ma una testimonianza di un momento, di un movimento che è in costante tensione. La Pietà di Rodin, per esempio, è tanto una scultura quanto un movimento catturato nel tempo, un respiro congelato. La stessa concezione del tempo è al centro della poesia di Rilke, in particolare nelle Elegie duinesi, dove il poeta riflette sulla transitorietà della vita e sulla sua tensione verso l’eterno.

Questa concezione del tempo è una convergenza tra i due artisti. Rodin non cerca la perfezione della forma, ma la sua capacità di evocare la realtà del momento. Rilke, analogamente, non cerca l’architettura chiusa della forma poetica, ma la sua capacità di cogliere il divenire del pensiero e dell’emozione.

3. Il confronto con Cézanne

Se Rodin è il maestro della scultura in movimento, Cézanne è il pittore che lavora sulla stasi e sulla costruzione della forma attraverso il colore e la prospettiva. Entrambi, però, si allontanano dall’idea di una realtà già definita e la ricercano attraverso la propria pratica, attraverso il gesto artistico che abbatte le convenzioni. Come Rodin, Cézanne rifiuta le forme tradizionali e le rappresentazioni facili. Il suo lavoro è quello di far emergere, attraverso il colore e il segno, la struttura intima delle cose. Per Rilke, questo approccio ha una profonda affinità: l’osservazione della realtà non è un atto passivo, ma un lavoro che apre nuove prospettive, nuove modalità di relazione con l’essere.

Il parallelismo tra Rodin e Cézanne si fa evidente nella tensione che entrambi pongono tra materia e forma. Come Rodin modella la pietra e il bronzo per far emergere la vita che si cela al loro interno, Cézanne costruisce la tela con pennellate che svelano la forma nascosta nel paesaggio. Rilke si trova a rielaborare questi concetti nella sua poesia, dove l’essere non è mai fermo, ma sempre in evoluzione, come nel passaggio della luce attraverso il paesaggio di Cézanne.

4. Un’analisi tecnica della forma poetica

Nella scrittura di Rilke, la forma poetica diventa un mezzo per esprimere la densità dell’esperienza umana. La sua poesia non si conforma a schemi fissi, ma si adatta alla fluidità del pensiero e dell’emozione. Nei Sonetti a Orfeo, per esempio, Rilke gioca con la metrica e la ritmica, alternando versi liberi a sonetti tradizionali, creando una musicalità che riflette la continua trasformazione dell’essere. La struttura dei suoi versi non è mai rigida, ma si adatta al contenuto: l’armonia della forma non è mai separata dalla ricerca interiore.

La costruzione dei suoi versi è spesso elusiva, ma sempre pregnante: ogni parola è scelta con grande cura, ogni immagine costruita come se fosse una pennellata su una tela. I suoi versi non sono mai semplici o ovvi, ma ricchi di sfumature e di profondità. Un esempio emblematico di questa tecnica si trova nell’«Elegia seconda» delle Elegie duinesi, dove la parola “cadere” si ripete e si dilata, creando un senso di flusso che sembra quasi un respiro che si prolunga nell’infinito:

„Ogni angolo nasconde / il nostro passaggio... inizia / il volo, la solitudine e il silenzio.

Non c’è niente di semplice nella struttura di Rilke, ogni forma si fa via via più complessa e ricca di significati. La poesia non è mai un atto di imitazione, ma una creazione radicale, una trasmutazione del visibile in qualcosa che trascende.

Conclusioni

Il confronto tra il metodo compositivo di Rilke, Rodin e Cézanne evidenzia una convergenza profonda nelle modalità di lavoro e nell’approccio alla realtà. Tutti e tre sono alla ricerca di una verità nascosta, di una dimensione ulteriore che emerge attraverso il lavoro: la scultura di Rodin, la pittura di Cézanne e la poesia di Rilke sono un continuo indagare l’essenza delle cose, un atto di amore verso la loro natura più profonda. Rilke, in particolare, ha saputo assorbire da Rodin non solo l’idea che l’arte sia un processo di scavo, ma anche il concetto che la verità non sta nell’apparenza, ma nella forma nascosta, nel movimento che trasforma la materia in spirito. Questo approccio si riflette nella sua poesia, che è sempre un atto di rivelazione, mai di esposizione. Come in Rodin, la forma poetica di Rilke non è mai definitiva, ma è sempre un processo, un continuo divenire.