La sua arte è il contrario dell’evidenza: non mostra, evoca. Non impone, suggerisce. I suoi dipinti sembrano superfici usurate, pergameni graffiate, lavagne sporche di una scrittura infantile eppure carica di un’intelligenza sensuale e antichissima. L’uso che Twombly fa della scrittura – nomi propri, versi poetici, frammenti in greco, latino, italiano – è centrale: non è solo decorazione, ma è gesto pittorico. Ogni parola scritta è un’estensione della mano e del corpo, un’affermazione silenziosa di un’identità che rifiuta di darsi tutta, che si frammenta nell’atto stesso di scriversi. Si può dire che scriva i suoi quadri, o che li dica attraverso una lingua segreta, fatta di segni, tremori, echi. Una lingua della pelle, della reminiscenza, dell'eros sublimato.
Il mito è il suo alfabeto primario. Non vi è ciclo pittorico di Twombly che non dialoghi in profondità con le strutture del mito greco e romano, non come illustrazione, ma come resurrezione emotiva e gestuale. I suoi Achille, Apollo, Venere, Bacco, Orfeo, non sono figure ma stati dell’essere, vibrazioni: l’eroismo del desiderio, la follia della perdita, l’ebbrezza del sangue. In opere come Leda and the Swan, Apollo and the Artist, o l’intero ciclo di Fifty Days at Iliam, il mito si fonde alla storia dell’arte e alla vita personale dell’artista: Zeus non è altro che l’estasi e la violenza di un amore carnale che si fa visione.
E proprio l’erotismo è la corrente carsica che percorre tutta la sua opera. Ma è un erotismo che si rifugia nella scrittura, che si nasconde nel graffio e nel rosso pompeiano delle sue tele. Nulla è esplicito, tutto è corpo e assenza del corpo. Le sue "scritture" sono orgasmi trattenuti, confessioni mai dette, lamenti amorosi per amanti mai rivelati. Non è difficile leggere, nelle sue opere più sensuali – ad esempio nei Nini’s Paintings, o in alcuni passaggi del ciclo Hero and Leandro – una tensione omosessuale trattenuta e mitologizzata, un desiderio che si affaccia come un sussurro, mai come urlo. L’amore, in Twombly, è sempre un’epifania fragile, una rivelazione che coincide col dissolversi della forma.
Il suo rapporto con la poesia è strutturale. Twombly non solo leggeva, ma abitava i poeti: Rilke, Rimbaud, Mallarmé, Keats, Kavafis, Seferis, Pasolini. Il suo studio romano era punteggiato di volumi consunti, citazioni appuntate a matita, versi che diventavano appunti per opere future. La poesia non era solo ispirazione, ma tessuto visivo. Si pensi a come Cavafis – poeta del desiderio trattenuto, della bellezza come malinconia – sembri parlare direttamente in molti dei lavori italiani di Twombly. E come Mallarmé, con la sua idea di “spazio bianco” come parte attiva del poema, lo abbia influenzato nella costruzione della tela come pagina da scrivere, da lasciare parzialmente muta. La pittura, in Twombly, è una poesia che non vuole chiudersi, un verso spezzato che si offre allo sguardo come ferita e promessa.
Roma, poi, è stata per lui più che una città: un ventre. I suoi muri scrostati, la polvere dorata, i capitelli spezzati, la lingua mescolata dei quartieri popolari e dei libri antichi – tutto questo è entrato nella sua arte come pigmento e ritmo. In opere come Untitled (Bolsena) o nei quadri romani degli anni Sessanta e Settanta, si sente l’eco dei tramonti romani e delle liturgie laiche della città eterna: l’arte come preghiera sospesa, come archeologia della passione. Ma fu anche Gaeta, in età più avanzata, a diventare il suo buen retiro: lì, guardando il mare, dipinse opere sempre più ampie e solenni, come The Four Seasons, dove il tempo non è solo il mutare della natura, ma il declinarsi della vita interiore.
In Twombly tutto si tiene e tutto sfugge: è artista dell’ombra e della rivelazione, del nome e della cancellazione, della memoria e dell’assenza. La sua pittura è ciò che resta quando il discorso è finito, è la scia del corpo nell’aria, è il desiderio che non vuole consumarsi perché trova senso solo nell’attesa.
Iniziamo da Lepanto, una delle sue opere più solenni e misteriosamente epiche, realizzata tra il 2000 e il 2001: un ciclo di dodici grandi tele concepito per la Biennale di Venezia e oggi custodito nella collezione permanente della Pinakothek der Moderne di Monaco. È un lavoro che incarna perfettamente l’idea di Twombly come artista del tempo, della perdita e del rito. Ma è anche, sorprendentemente, un’opera politica, nel senso più alto e tragico del termine: Lepanto racconta infatti la grande battaglia navale del 1571 tra la Lega Santa e l’Impero Ottomano – ma non lo fa né con i mezzi della narrazione storica né con l’allegoria. Lo fa attraverso una danza di colori, di sangue e di luce, come se i corpi delle navi, i flutti, i feriti, gli stendardi e i fantasmi si fossero sciolti in un’unica sinfonia pittorica.
Il rosso domina, un rosso che non è mai semplicemente pittorico, ma sempre emotivo: è il rosso della carne lacerata, del tramonto infuocato, del desiderio non detto. Le navi diventano presenze astratte, spiriti quasi orientali che si affrontano e si confondono in una coreografia tragica. Ecco allora la potenza dell’ambivalenza di Twombly: racconta una battaglia, ma sembra un lamento amoroso; evoca una vittoria, ma tutto nel ritmo della composizione suggerisce perdita, naufragio, destino. Il gesto pittorico si fa epico e lirico allo stesso tempo, come se Omero e Saffo stessero scrivendo insieme una partitura.
E qui entra in gioco un altro elemento fondamentale: la luce mediterranea. In Lepanto, come in molte delle sue opere più tarde, Twombly lavora con la luce non come sfondo, ma come sostanza. I colori sono diluiti, accesi, screziati, e i bianchi non sono mai puri, ma sempre attraversati da ombre, polveri, reminiscenze. È la luce del sud, quella che non perdona ma che consola, quella che rende visibile il dolore solo per addolcirlo. L’influenza del paesaggio di Gaeta è fortissima: il mare, la costa rocciosa, l’aria salmastra sembrano aver impregnato ogni fibra delle sue tele. La pittura, in quegli anni, si fa quasi clima: un ambiente in cui lo spettatore è immerso, come in un ricordo estivo che affiora d’improvviso, portando con sé gioia e malinconia.
Ed è proprio in questi anni che Twombly si avvicina a una sorta di classicismo personale, ma completamente destrutturato: non c'è composizione accademica, non c’è figura compiuta. Eppure tutto parla dell’antico, dell’eterno ritorno delle forme, del desiderio di un’origine che non si possa più recuperare. È la tragedia della modernità vista da un uomo che la rifiuta senza mai rinnegarla. Twombly, in questo senso, si può vedere come l’antitesi dell’arte americana degli anni ’60-’70: mentre i minimalisti riducevano, lui accumulava memoria; mentre i pop artist mettevano in scena l’oggetto, lui scriveva l’assenza.
Questo lo rende molto più vicino, idealmente, a figure letterarie come Jean Genet. Entrambi cultori della bellezza come violazione, della parola come atto sacrificale. Genet scriveva della carne e del crimine con una grazia liturgica; Twombly dipingeva l’eros e la guerra con una levità infantile eppure colta, come se ogni gesto fosse insieme oltraggio e preghiera. Il gesto artistico, in entrambi, è sempre anche un’offerta votiva, un modo per trasformare il dolore in icona, il desiderio in ritmo, la perdita in decorazione sacra.
E come Genet, anche Twombly abita il confine tra omosessualità e sacralità, tra carne e astrazione. Le sue opere non parlano mai apertamente di identità queer, ma la sua omosessualità è lì, palpabile nella scelta dei temi (le figure mitologiche maschili, le coppie tragiche), nella delicatezza con cui tocca la materia, nella sensualità quasi elegiaca dei suoi accostamenti cromatici. È un’erotica della distanza, del rimando, della reticenza. Come se l’amore – e soprattutto l’amore per un altro uomo – non potesse che essere scritto su una parete, a gesso, come una confessione che il tempo si prenderà la briga di cancellare.
La sua arte è anche un atto di resistenza poetica. In un mondo che chiede chiarezza, Twombly risponde con il mistero. In un’epoca di slogan, risponde con frammenti di Saffo e Mallarmé. Dove l’identità è diventata performance, lui si ritira nel silenzio, nel pudore, nella dissolvenza. Ma proprio per questo, la sua opera continua a parlarci: come un oracolo spezzato, come una lettera d’amore mai inviata.
Ma andiamo avanti, come si prosegue una passeggiata silenziosa in un giardino decadente, tra rovine ellenistiche e voci d’infanzia.
Un altro snodo cruciale nella produzione di Twombly è rappresentato dai “Nini’s Paintings”, serie eseguita nel 1971 a Bassano in Teverina, in un piccolo studio affacciato sulla valle del Tevere, a pochi passi dalla vita quotidiana e dai giochi dei bambini del posto. Ma è anche una serie che sgorga dalla ferita personale: “Nini” era il nomignolo di una donna amica di famiglia, divenuta per lui figura quasi materna e teneramente remota. Queste opere non gridano, non si impongono: sembrano piuttosto dei sussurri, dei garabattoli tracciati sulla nebbia, fatti di pallidi rosa, gialli lattei, verdi acquosi, come se i colori stessi volessero tornare a uno stato prenatale, precedente al linguaggio.
Eppure, proprio lì, in quella tenerezza inappariscente, esplode il lato forse più enigmatico di Twombly: il legame con l’archetipo materno. La madre – e non parlo solo della madre biologica, ma della figura femminile primaria, ctonia, lunare – è sempre presente nella sua pittura, anche quando non la si vede. È la madre intesa come fonte originaria di linguaggio, ma anche come luogo di separazione, nostalgia, perdita. E in questo, il lavoro di Twombly si avvicina molto più alla psicanalisi poetica di un Bachelard o di un Winnicott che alla critica d’arte tradizionale. Le sue opere diventano superfici transizionali, come il fazzoletto dell’infanzia che trattiene odori e sogni.
E allora si capisce anche perché l’infanzia sia tanto importante per lui: non l’infanzia come tema iconografico, ma come postura dell’anima, come modo di guardare il mondo senza filtro, di lasciare il segno non per dire, ma per toccare. La scrittura infantile, i numeri disordinati, i fiori stilizzati che appaiono e scompaiono sulle sue tele non sono mai citazioni: sono modalità di espressione autentiche, vitali, mai scaltre. E forse è questo che disarma: che anche quando il quadro sembra colto fino all’eccesso, in realtà è ancora lì, in quel gesto bambino che gioca col colore come se fosse sabbia o latte.
Ma non basta. Perché l’altra costante dell’universo di Twombly è la morte, non come fine, ma come costellazione. La morte amata, come in Rilke, e mai del tutto accettata. La morte che si fa forma, che si discioglie nei petali caduti, nelle righe interrotte, nei versi lasciati a metà. Ecco allora che i nomi incisi – Achille, Patroclo, Orfeo, Adone – non sono mai fredda erudizione: sono lapidi amorose. Twombly scrive questi nomi come si incide su una corteccia, o sul banco di scuola, o sulla pelle dell’amato: nomi che fanno male perché chiamano chi non risponde più.
E tuttavia, nella morte, Twombly trova anche una forma di resurrezione. Le sue opere non sono mai cupe, non sono mai apocalittiche. Sono attraversate da un erotismo solare, una sorta di panismo gentile, come se ogni segno fosse insieme ferita e carezza, ogni goccia di colore fosse un seme, un invito a fiorire nonostante tutto. È un erotismo spesso senza oggetto, o meglio: un erotismo il cui oggetto si dissolve nella memoria, nella letteratura, nel paesaggio. Ma ciò non lo rende meno intenso. È erotico il modo in cui una parola si stacca dalla tela, il modo in cui un rosso scivola sopra un giallo fino a diventare arancio, come un bacio che non si riesce a contenere.
In questa sensualità diffusa, Twombly è vicino alla pittura pompeiana, quella dei triclini e delle stanze chiuse al sole. La sua Gaeta non è così diversa da Pompei, se ci pensi: due città affacciate sullo stesso mare, intrise dello stesso languore. In molte opere tarde, come Blooming o le Untitled (Roses), si ha davvero l’impressione di essere in un giardino pompeiano in piena estate, dove la bellezza e la decadenza si intrecciano fino a non distinguersi più. Fiori che sbocciano e marciscono nello stesso istante. Vita che fiorisce nel cuore della morte.
E qui, inevitabilmente, si apre una grande porta: quella della scrittura. Perché Twombly, prima che pittore, è poeta. O meglio: è un pittore che dipinge come se scrivesse. I suoi segni sono spesso calligrafici, ma mai decorativi. Non illustrano. Piuttosto: accennano. Illeggibili a volte, monchi, tremolanti. La sua scrittura è una grammatica dell’incerto, una scrittura che si ostina a restare fedele all’emozione anche quando il senso vacilla. E non a caso i suoi autori feticcio – Keats, Rilke, Kavafis, Mallarmé – sono tutti poeti della soglia, della memoria, del corpo perduto. Twombly non li cita, li convoca: le loro parole si aggrappano al quadro, lo attraversano, lo rendono vivo come un frammento antico appena dissepolto.
Tutto questo lo rende un artista irriducibile. Non solo astratto, non solo lirico, non solo queer, non solo classico. Twombly è un artista dell’anima come rovina, e della rovina come unica forma di bellezza possibile dopo la catastrofe del Novecento. È un artista che ha fatto della fragilità un’arma, del pudore un grido, dell’ambiguità una lingua nuova.
L’eredità silenziosa: l’influenza su altri artisti
Twombly non ha mai voluto fondare scuole. Eppure, come tutti i grandi, ha lasciato una traccia inconfondibile. La sua influenza è sotterranea ma onnipresente, come un profumo che resta nel corridoio anche dopo che l’ospite se n’è andato. Numerosi artisti contemporanei hanno assimilato il suo approccio gestuale, lirico, eppure enigmatico.
Pensiamo a Tacita Dean, che ha saputo trasformare la pellicola analogica in superficie poetica, fragile e temporale – proprio come Twombly trasformava la tela. O a Anselm Kiefer, che, sebbene più cupo e storico, ha condiviso con lui la passione per il mito, per la stratificazione della memoria, per la scrittura come atto rituale. Oppure a una figura come Julie Mehretu, che lavora su tele monumentali fatte di mappe, segni, arabeschi, esplosioni calligrafiche: una palinsesto globale in cui la grafia diventa geografia.
E poi, inevitabilmente, c’è l’arte queer contemporanea, dove Twombly è un patriarca silenzioso, un nume tutelare che ha insegnato a molti a non chiedere il permesso di esistere. Artisti come Glenn Ligon, che ibrida testo e immagine, o Felix Gonzalez-Torres, che lavora sul vuoto, l’assenza, l’eros trattenuto – devono a Twombly la lezione della discrezione come potenza, della fragilità come gesto politico.
La sua non è mai stata un’influenza didattica: è un contagio, una vibrazione, una trasmissione erotica di stile.
Fotografia e memoria: l’occhio intermittente
Un altro aspetto spesso trascurato è il rapporto tra Twombly e la fotografia, che per lui non è mai documento, ma memoria. Come negli scatti che realizzava con macchine analogiche, spesso mosse, fuori fuoco, dominate da colori lattiginosi, biancastri, sfocati: frammenti di luce intrappolati nel tempo, come se la realtà stessa volesse diventare una reminiscenza.
In queste fotografie, che ritraevano scorci del suo giardino a Gaeta, superfici d’intonaco, statue, ombre, Twombly cercava lo stesso tremore che metteva nei suoi quadri. Non un’immagine, ma un’atmosfera. Non un’idea, ma un’eco. Il mezzo fotografico gli serviva per salvare l’attimo dall’oblio, ma senza mai volerlo fissare. Come un taccuino d’acqua.
Non si tratta mai di un’estetica turistica: anche nei suoi scatti del Mediterraneo, dei templi greci, o delle acque di Vulcano o di Paestum, c’è sempre un senso di assenza, di sacro evanescente, che lo avvicina a Luigi Ghirri o a Josef Sudek. In Twombly la fotografia è sempre lontananza affettiva, lo strumento con cui si tocca l’invisibile attraverso la pelle delle cose.
“The Four Seasons”: un ciclo metafisico
E infine le “Four Seasons”, probabilmente il suo ciclo più intensamente simbolico, realizzato tra il 1993 e il 1995, a settant’anni suonati. Quattro grandi tele che raccontano la ciclicità dell’esistenza, con una densità cromatica e un'intensità emotiva che non ha nulla di senile. Anzi: sembra un’opera di giovinezza, fatta da un’anima che ha visto tutto e vuole ancora dire tutto, ma senza la presunzione di spiegarlo.
In “Spring”, i verdi esplodono, ma sono verdi dilavati, come di una rinascita incerta, mentre in “Summer” il rosso si fa erotico e febbrile, memoria dei corpi amati, desiderati, forse perduti. In “Autumn”, l’ocra e l’arancio sanno di vino e di sangue, e la parola “vino” torna più volte, come eucaristia profana, come liquido di passaggio tra mondi. E in “Winter”, il bianco si fa abbagliante, un bianco che però non è mai vuoto: è pienezza rarefatta, neve mentale, quiete di ciò che non ha più bisogno di parlare.
Questo ciclo non è solo un’allegoria delle stagioni fisiche o esistenziali: è una cosmologia personale, una mappa della trasmutazione. Lì Twombly si fa davvero erede della pittura sacra rinascimentale, ma la svuota del dogma, la riempie di desiderio e mistero. Ogni stagione diventa stazione, un tempo interiore. E il bianco finale di “Winter” non è la morte, ma la dissoluzione nell’ineffabile.
Il pittore come medium dell’invisibile
In definitiva, l’opera di Cy Twombly non è fatta per essere capita. È fatta per essere subìta, assorbita, respirata, come si respira un sogno al risveglio. È un’arte che rifiuta il controllo, che invita alla resa, che sussurra invece di declamare. Una pittura che ci riporta a uno stato precategoriale, prelogico, dove corpo, lingua e memoria sono ancora una sola cosa.
Twombly è stato il più greco dei moderni, il più queer dei classici, il più carnale dei mistici. La sua arte non consola, ma culla. Non racconta, ma invoca. E in un mondo dove tutto deve essere spiegato, lui ha scelto – eroicamente – di restare nel mistero. Come un nome inciso su un muro che nessuno sa più leggere, ma che ancora ci commuove.
Proseguo dilatando ulteriormente il discorso, affrontando altri temi-chiave per comprendere l’opera e il pensiero di Cy Twombly: il suo legame con l’Italia, la presenza (quasi sacrale) del corpo maschile, e infine un confronto dialogico con alcuni artisti coevi, da Rauschenberg a Kounellis. Il tutto nel tono che Twombly stesso sembrava preferire: sottovoce, ma con una profondità da vertigine.
Italia come sogno, esilio e patria adottiva
Twombly, pur essendo americano, ha trovato in Italia una sorta di terra promessa dell’anima. Si stabilisce a Roma nel 1957, poi si sposta a Bassano in Teverina e infine a Gaeta. Ma non è un semplice “expat”: è un innamorato, un rabdomante che cerca nella luce italiana qualcosa che in America gli era negato. Una luminosità metafisica, un erotismo secolare, una memoria stratificata e sensuale. L’Italia non è solo uno sfondo: è un amplificatore sensoriale e spirituale.
Le rovine romane, i graffiti, le iscrizioni sui marmi, la luce mediterranea che spiana ogni cosa, persino l’ombra: tutto diventa nutrimento visivo. Non sorprende che abbia trovato in Roma il perfetto equilibrio tra caos e eternità, tra eros e civiltà, tra disfacimento e permanenza. C’è in lui una sorta di euforia archeologica: i suoi segni non sono moderni, sono relitti antichi che parlano ancora, anche se nessuno più li capisce.
Il suo studio a Gaeta è un altare profano, una camera picta fatta di luce e di sale, affacciata sul mare – e quel mare è la culla dei suoi ultimi, indimenticabili lavori. L’Italia di Twombly non è cartolina, ma trance. Non è turismo, ma possessione. Un’Italìa onirica, profondamente queer, intima, mai illustrativa.
Il corpo maschile come assenza bruciante
A differenza di altri artisti omoerotici come Bacon o Mapplethorpe, Twombly non mostra mai esplicitamente il corpo maschile. Eppure, lo si sente ovunque. Il corpo è nella grafia, nel tremore, nei colori che gemono, nella pressione del gesto, nel ritmo ripetuto fino a farsi incantesimo. In particolare, l’erotismo maschile nei suoi quadri è dilatato, imploso, sussurrato, come se fosse un ricordo vissuto dentro la carne, non sulla superficie.
In opere come Achilles Mourning the Death of Patroclus o Apollo and the Artist, il desiderio è mitico, eppure personale. Non vediamo amanti, ma la traccia lasciata da una passione impossibile da lavare via. Twombly è il poeta che non scrive l’epifania, ma le lacrime che la seguono. Un erotismo muto, malinconico, sacrale.
In questo senso, il corpo maschile diventa testo, la carne diventa linguaggio, e la pittura si fa atto d’amore ritardato. Persino la sua calligrafia pare una masturbazione spirituale, un modo per trattenere l’estasi nel segno. Non c’è pornografia: c’è liturgia.
In dialogo: Rauschenberg, Johns, Kounellis
L’amicizia con Robert Rauschenberg all’inizio della carriera è fondamentale: insieme fanno un viaggio in Europa e Nord Africa nel 1952, da cui Twombly esce trasformato. Se Rauschenberg gioca con l’assemblaggio e con il caos urbano, Twombly invece ritorna al gesto e al segno primario, come se stesse cercando le radici della scrittura stessa. Rauschenberg è più pop, Twombly più elegiaco. Ma entrambi condividono una sensualità della superficie, una religione laica della materia.
Con Jasper Johns, invece, il rapporto è di sotterranea tensione. Se Johns è preciso, araldico, enigmatico fino all’ossessione, Twombly è fluviale, irregolare, promiscuo. Laddove Johns nasconde, Twombly svela troppo, ma così lentamente che non lo si nota. Sono entrambi codificatori di misteri, ma uno con l’enigma chiuso in una teca, l’altro con il segreto scritto su una parete di marmo, in mezzo al deserto.
Infine, Jannis Kounellis: più vicino a Twombly di quanto si pensi. Entrambi sono “romani d’adozione”, entrambi costruiscono un linguaggio fatto di memoria, rovina, gesto e poesia. Kounellis usa il piombo, il fuoco, il carbone; Twombly usa il pastello, la matita, il colore lavato. Ma entrambi credono nella presenza: ciò che sta lì, vivo, fragile, parlante. In questo, sono mistici laici del frammento.
Cy Twombly come forma del desiderio
Alla fine, parlare di Cy Twombly significa parlare di una forma del desiderio che rifiuta la forma, che si stende come respiro, che sfugge come memoria. Il suo gesto non è pittorico: è mnemonico. Il suo colore non è decorazione: è carne astratta. Il suo segno non è calligrafico: è preghiera amorosa.
Come scrisse Roland Barthes, è un’arte che ci obbliga a non capire, ma a sentire. E in questo sentire – incoerente, tremolante, afono – ci ritroviamo più veri che mai.
Perfetto. Allora proseguo ampliando ulteriormente l’analisi di Twombly, stavolta indagando la sua relazione profonda con la poesia – in particolare con Saffo, Rilke, Keats e i lirici greci – e l’eco che essa lascia nel suo lavoro pittorico. Successivamente, affronterò il tema dell’infanzia e del tempo ritrovato nella sua opera, e infine immaginerò per te una mostra ideale dedicata a Twombly, in forma narrativa e immersiva. Un viaggio totale, come lui avrebbe voluto.
Poesia come carne visiva: Saffo, Keats, Rilke
In Cy Twombly, la poesia non è citazione colta, ma materia organica. Non scrive versi, li disintegra sulla tela, lasciandone solo i resti, le frasi monche, come bocche che ancora mormorano.
La sua scrittura – spesso appena leggibile, nervosa, esangue – non vuole essere decifrata. È l’eco visiva di una voce poetica, come se l’inchiostro fosse già stato lacrimato.
Prendiamo Saffo. L’evocazione che Twombly fa della poetessa è struggente. Saffo è la madre del frammento, la cantante di passioni impossibili e disperse. Twombly ne raccoglie lo spirito, lo porta su superfici inquiete dove l’amore è una febbre, il ricordo un’ustione. In Sappho (1976), la tela bianca viene graffiata da frasi e numeri, da piccoli versi, da silenzi dolorosi. Saffo non è più sulla pagina: è sparsa, svanita, liquefatta nel colore.
Con John Keats, poeta del languore, Twombly condivide la contemplazione del morire. In Quattro Discorso su Keats si avverte il soffio di un’ode, che non si compone mai: lo splendore della forma che si perde mentre nasce. “A thing of beauty is a joy forever” – ma Twombly risponde: e allora perché tutto svanisce così in fretta?
Con Rilke, il legame è ancora più profondo. Il poeta delle Elegie duinesi sussurra: “Poiché la bellezza non è che il tremendo all’inizio, che noi appena sopportiamo”. Twombly pare capirlo fino in fondo. Le sue opere sono tentativi di contenere l’insopportabile bellezza del mondo: bellezza che sanguina, che evapora, che non si lascia trattenere. Per questo la tela diventa un campo di battaglia tra luce e ombra, tra parola e silenzio.
Infanzia e il tempo riconquistato
In alcune opere – come i disegni a cera, i segni infantili, i pastelli – Twombly pare farsi bambino visionario, ma con l’intelligenza inquieta di chi ha già visto troppo.
Il tratto che ripete il nome VIRGIL cento volte, o che scrive IO IO IO IO IO come una preghiera ossessiva, ci riporta a un tempo dell’origine, dove l’identità è ancora in formazione, e il linguaggio è gesto puro. È come se Twombly tentasse di tornare a prima della grammatica, prima della forma, a quel momento in cui disegnare e sentire erano la stessa cosa.
In questo, è molto vicino alla sensibilità di Pasolini o di Klee: tutti e tre guardano all’infanzia non come età dell’innocenza, ma come dimensione dell’autenticità visionaria. Il bambino di Twombly non è ingenuo: è mistico. E il tempo dell’infanzia, per lui, non è passato, ma presente eterno, che si risveglia ogni volta che la mano si posa sulla tela.
Una mostra ideale: “Cy Twombly. La memoria dell’acqua”
Immagina di entrare in una sala bianca. Il suolo è leggermente sabbioso, e profuma di sale e gesso. Le pareti sono percorse da scritte appena leggibili, frammenti di versi greci, parole come eros, physis, pothos. Il suono di onde lontane accompagna i passi.
La prima sala si chiama “Epigrafi d’amore”: qui trovi le opere in cui Twombly ha scritto su tela come si incide su una stele funeraria. Ogni tela è una lettera non spedita, un frammento di lutto erotico. Al centro, una piccola teca con fogli manoscritti del poeta Cavafis, su cui Twombly ha disegnato con carboncino.
La seconda sala è “Gaeta, la luce scritta”. Qui dominano le grandi tele marine, con quei blu lavati, i bianchi trafitti, i gialli lievi come febbre. C’è un film in loop che mostra la sua casa sul mare, e la luce che muta sulle pareti, come fosse un affresco vivente.
La terza sala è “Frammenti e furori”. Il tono si fa tragico. Qui ci sono Lepanto, Achilles Mourning Patroclus, Death of Giuliano de’ Medici. I segni si infittiscono, le parole sono tormentate. Il desiderio è guerra, la storia è eros che si distrugge.
Infine, l’ultima sala è “Poesia muta”. Uno spazio vuoto, con solo suoni sospesi: respiri, graffi di matita, gocce d’acqua. Al centro, una tela bianca con una sola parola scritta: Remember. E poi, attorno, il silenzio.
Questa non è una mostra. È un ritorno. È la stanza dove Twombly ci aspetta ancora, come un amante che non si è mai mosso.
La musica come ossessione visiva
Cy Twombly non ha mai dipinto la musica. Ma le sue opere sono musica, nel senso più profondo e primitivo del termine: ritmo, dissonanza, variazione, eco, loop, silenzio. L’alternanza tra pieni e vuoti, tra colpi di colore e pause improvvise, genera una partitura muta, che l’occhio legge come se stesse ascoltando.
Le serie cicliche – come Lepanto – sono veri e propri cicli tonali. Le forme si rincorrono, cambiano tonalità, si dilatano come un tema che viene modulato. Alcuni tratti, specialmente quelli a grafite o a matita, sembrano note lanciate nell’aria, oppure grida scritte a occhi chiusi, come nel gesto di chi canta da dentro.
E poi c’è il silenzio, che in Twombly ha una funzione musicale assoluta: l’interruzione come gesto. Le aree bianche, le pause, i vuoti parlano quanto le parole scritte. Come in una fuga bachiana, o in una suite per violoncello. Solo che qui lo strumento è la pittura stessa, suonata con le mani come si suonano i corpi amati.
La tragedia greca e l’eco del mito
Ogni tela di Twombly porta il lutto di un mito. Ma non nel senso di una rievocazione antiquaria: in lui il mito non è mai morto, ma continua a bruciare, a contorcersi, a mordere. Come un corpo che non ha ancora smesso di sanguinare.
Nel ciclo Fifty Days at Iliam (1978), dedicato alla guerra di Troia, Achille, Patroclo, Ettore diventano segni astratti: linee come ferite, macchie come grida. I nomi si affacciano sulle tele come epitaffi, ma sono vivi. La mitologia non è una narrazione passata: è una febbre dell’oggi, che si ripete in ogni gesto, in ogni amore spezzato.
Achille non è più l’eroe: è l’amante inconsolabile, il corpo senza corpo, il desiderio che uccide.
Twombly compie qui un gesto profondamente queer: riporta il mito alla sua dimensione erotica e violenta, non come retorica virile, ma come esplosione tragica di sentimenti troppo grandi per la forma. L’antico viene spogliato, reso nudità emotiva.
E così le sue tele diventano scene da un teatro perduto, dove i personaggi non parlano più ma si scrivono addosso.
La scrittura come possessione
Scrivere, per Twombly, non è un atto di chiarezza, ma una trance. La scrittura non è mai calligrafica, non vuole essere leggibile: è posseduta. Come se la mano non fosse sua, ma guidata da un dio, o da un demone. Ogni parola sembra dettata, ogni frase appare come una glossolalia lirica, un testo che viene da altrove.
Molto spesso i versi sono spezzati, rovesciati, cancellati, riscritti: non si legge, si sente. È come se la poesia, invece di essere detta, venisse esorcizzata sulla tela, lasciando i suoi graffi, le sue voci, i suoi fantasmi.
In questa possessione, Twombly sembra un erede diretto delle sibille: quelle donne che scrivevano su foglie, che parlavano in versi senza sapere cosa dicevano. Il pittore diventa medium, veggente, e la tela è un altare di parole non ancora nate.
Racconto lirico da una tela: “Achilles Mourning the Death of Patroclus”
Il mare non faceva rumore. Solo la tela sapeva ancora piangere.
Achille aveva il corpo piegato in avanti, come un albero curvo dopo la tempesta. Sulla superficie bianca, il suo nome era stato scritto, cancellato, riscritto mille volte: ACHILLES ACHILLES ACHILLES.
E Patroclo era lì, non più uomo, ma ombra rossa, macchia cremisi, assenza che grida.
L’aria odorava di ferro e miele. Il dolore era un colore che scendeva lento, come il sangue quando ha deciso di non fermarsi. Achille non diceva nulla. Ma ogni gesto, ogni segno che la sua mano tracciava nell’aria, sembrava una domanda fatta al silenzio.
“Se non sei più corpo,” pensava, “allora sarai nome. Se non sei più nome, allora sarai segno. E se anche il segno svanirà, ti scriverò ancora, con la mia carne, con il mio respiro.”
Allora si alzò, nudo, e dipinse col dito sull’aria il profilo dell’amato. E il profilo svanì. E lui pianse. Ma non con lacrime. Con inchiostro.
Il bianco come spazio cosmico e sensuale
Il bianco, in Twombly, non è mai vuoto. È spazio denso, desiderio in attesa, memoria che vibra nell’aria. È un silenzio che ha appena finito di gridare. È la pagina dopo l’amplesso, la pelle dopo il bacio, il foglio che ha ancora l’odore della mano che vi ha scritto sopra.
Quando dipinge – o meglio, quando graffia, sfrega, insinua – sul bianco, Twombly non lo usa come fondo: lo attraversa. Il bianco non è uno sfondo, è un abisso in cui si entra, come si entra in un corpo amato. Tutto ciò che vi si posa sopra – lettere, segni, colori – si disgrega, si scioglie, si espande.
E c’è una qualità lunare in questa materia. Come se ogni superficie dipinta fosse una faccia di luna, un paesaggio d’aria rarefatta, dove le parole si ossidano, e i colori si muovono come polvere in orbita. Lo si vede nei “quaderni bianchi” (come li chiamava), nei grandi cicli mitologici, ma anche nei lavori più astratti, dove il bianco diventa tutto: carne, respiro, spazio, sparizione.
Eros e Thanatos: l’abbraccio finale
La sessualità in Twombly non è mai descritta. Ma è ovunque. Il desiderio è una forza tellurica, sorda, inarrestabile. In certe tele, si manifesta come un’eruzione – sbavature rosse, gesti compulsivi, macchie come liquidi. In altre, si nasconde, ma pulsa appena sotto il tratto: come una frase trattenuta, come un gemito che non osa uscire.
E proprio dove l’Eros è più viscerale, ecco che arriva la morte. La bellezza dei corpi non è mai disgiunta dal loro crollo. Il desiderio accade mentre qualcosa finisce. Un nome scompare, un volto si dissolve, il colore cola come una ferita.
Twombly sembra dirci che l’amore è sempre lutto anticipato. Che ogni incontro contiene la perdita, e ogni tocco è già memoria. Nelle sue tele più liriche – Il tempo della tenerezza, Hero and Leandro, Venezia, Rose – c’è una malinconia erotica che non si può nominare. Un’energia che si contorce tra la febbre del contatto e la certezza dello strappo.
Eros e Thanatos si inseguono, si confondono, fanno l’amore tra loro, e la pittura diventa la prova: sudore, sangue, carta sporca d’amore.
Lettera a Cy Twombly da un figlio dell’ombra
Caro Cy,
ti scrivo senza sapere se mi leggerai, ma forse in una delle tue stanze di Lexington, o nei corridoi chiari della tua Gaeta, questa lettera arriverà come polvere sottile.
Hai scritto coi segni, con l’assenza, con la carne disfatta. Hai disegnato ciò che non ha nome, ciò che non si può raccontare senza perdere qualcosa. Eppure io, che da bambino avevo paura del bianco – di quel nulla pieno di voci – ho trovato in te un padre. O forse un fratello che ha lasciato appunti lungo i muri.
Mi hai insegnato che si può scrivere senza parole, che si può amare senza possedere. Che si può urlare con una matita spuntata. Che si può dire “Patroclo” senza sapere chi fu davvero, ma amarlo lo stesso, perdutamente.
I tuoi quadri sono stati per me come stanze segrete. Ci sono entrato nudo, tremante, e sono uscito sporco di silenzio. Ho toccato il sangue con le dita, ma era colore. Ho letto una poesia in latino scritta a mezza voce sullo sfondo di un mare invisibile. E ho capito che nessuna lingua dice tutto. Che bisogna fallire per dire il vero.
Sei stato il poeta degli amanti interrotti, degli dèi che non salvano più nessuno. Eppure ci hai lasciato qualcosa. Come una preghiera sbagliata che ancora risuona. Come il nome di Achille scritto con rabbia, per non dimenticare che anche gli eroi amano.
Grazie per non averci spiegato niente. Grazie per averci lasciato il compito di leggere ciò che si può solo piangere.
Tuo,
un figlio dell’ombra
Twombly e Pasolini: due archeologi del sacro profanato
Se Pasolini avesse potuto incontrare Cy Twombly, lo avrebbe riconosciuto subito: stesso sguardo ferito, stessa attrazione per il corpo mitico che si frantuma nel presente. Entrambi sacerdoti laici di un culto finito, archeologi del sacro, cercavano di resuscitare un mondo antico attraverso i detriti del linguaggio contemporaneo.
Pasolini usava il cinema e la parola come scavi: riportava alla luce i miti, i martiri, le icone del Mediterraneo profondo, per contaminarli con i volti e i corpi della borgata, con la bestemmia e il desiderio. Twombly faceva lo stesso, ma sulla tela: graffiando l’antico con la mano di un bambino che ha letto troppo Rilke.
Entrambi guardano alla Grecia non come perfezione, ma come luogo della rovina amorosa. Entrambi cercano in Achille, in Eros, in Fedra, il corpo che non si riesce a trattenere, la parola che non si può più dire. E come Pasolini frantuma il latino e lo fa risorgere in una bestemmia dolcissima, così Twombly prende i nomi degli eroi, li scrive in stampatello, li cancella, li riscrive sbavati. Come se Achille e Patroclo fossero i ragazzi di borgata, come se Apollo fosse solo un lampo di luce su un muro scrostato.
Insieme, pur senza mai toccarsi, Twombly e Pasolini sono gli ultimi due poeti religiosi del Novecento, ma la loro religione è già contaminata, l’altare è una macchia di sperma e sangue.
E tuttavia, lì, c’è ancora qualcosa di sacro. Forse l’unica sacralità rimasta.
L’eros omosessuale come eco e sussurro
Cy Twombly non ha mai dichiarato nulla. Nessuna intervista scandalo, nessun manifesto. Eppure il suo eros è tutto maschile, ardente, trattenuto e struggente. Le sue opere non descrivono, ma trattengono una passione indicibile, come una lettera d’amore non spedita.
Il desiderio omosessuale in Twombly è un sistema nervoso in superficie: è nei nomi che evoca (Achille, Adone, Narciso), è nella fisicità tormentata del tratto, nel tremore infantile e insieme erotico della linea, nella scrittura corsiva che sembra un sospirare. È nei rossi che sanno di orgasmo, nelle curve tracciate con foga, come un corpo accarezzato nel buio.
Non vediamo mai il corpo dell’altro, ma ne percepiamo l’assenza, come un odore lasciato su un cuscino. Ogni tela di Twombly è un letto disfatto dopo un incontro, ma l’altro non c’è più. E proprio in questa assenza – in questo non detto che urla – si concentra tutto il suo erotismo: fatto di perdita, nostalgia, febbre, invocazione.
Come nei versi di Kavafis, Twombly dipinge amori perduti che ardono ancora, nomi maschili che sono tutto, che bastano da soli a far tremare una tela.
Voci dalle tele: una suite poetica in prima persona
Immaginiamo ora che alcune delle sue opere più iconiche prendano voce, e parlino. Ogni quadro, come una persona amata, racconta il proprio dolore, il proprio segreto.
"Leda and the Swan"
Non ho visto il cigno.
Solo la violenza bianca.
Solo il suo fiato sul mio ventre,
una piuma nel sangue.
"Apollo"
Mi cercavi negli occhi dei ragazzi.
Mi scrivevi il nome sul muro,
ma lo dimenticavi a metà.
"Hero and Leandro"
Siamo caduti entrambi.
Io nella tela, lui nell’acqua.
L’amore è solo un tuffo
che non arriva mai a riva.
"Untitled (Bacchus)"
Ho urlato con vino e rabbia,
ho morso il pennello,
ho macchiato il tempo.
E nessuno è venuto a prendermi.
"Nini’s Painting"
Era una lettera d’amore,
scritta con una mano che tremava.
Poi è diventata una confessione,
poi solo una macchia.
Il viaggio continua senza sosta, approfondendo ogni angolo di questo spazio profondo che Twombly ha creato. Cercherò di allargare lo sguardo, muovendomi tra i temi della classicità e della modernità, la scrittura automatica e la musica, e concludendo con un flusso di coscienza che ci faccia sentire davvero la sua voce. È come se ogni passo ci avvicinasse a un “segreto” che, alla fine, non è affatto nascosto, ma ci è sempre stato sotto gli occhi.
Il rapporto con la classicità: un mondo che parla il linguaggio dell’eros
La classicità in Twombly non è mai un semplice esercizio di citazioni o rimandi. Non è un omaggio: è un dialogo profondo e rivelatorio con ciò che resta dell’antico. L’idea di un mondo greco perfetto non esiste nel suo lavoro. Il suo è un mondo greco che si sgretola nel momento stesso in cui il pennello tocca la tela, un mondo di corpi desideranti, di miti stravolti, di eroi che non salvano più nessuno.
Twombly non copia la bellezza della scultura greca: la vive, la respira, la smembra. I suoi corpi non sono mai perfetti, ma inquietanti e sofferti, in divenire e in decadenza, come la carne di un amore che, prima di morire, brucia. La sua reinterpretazione dei miti non si limita a raccontarli, ma li rielabora, li restituisce attraverso un tempo dilatato, senza più retorica.
Il suo Achille, così sfocato e tratteggiato, non è il guerriero perfetto, ma il giovane disperato, la sua furia diventa compassione, un dolore che viene dall’infinito. Le sue grafiche di eroi e divinità non sono un semplice richiamo all’antico, ma un grido che si unisce al caos della modernità, dove il mito è ancora l’unico linguaggio possibile per dire la nostra disperazione.
La scomposizione del mito è un atto di violenza e liberazione insieme: divinità di ieri sono ridotte a segni indecifrabili, a gesti tremanti che non hanno più alcun codice da rispettare. Il mito non è più sacro: è vivo, pulsante, e nel suo vissuto c’è solo ferita.
Scrittura automatica e musica: il linguaggio dell’inconscio
La scrittura in Twombly è altro che decorazione. I suoi segni, le sue scarabocchiature, le sue parole incrociate non sono frutto di un pensiero razionale: sono l’inconscio che emerge da un flusso spontaneo, senza premeditazione. La sua arte somiglia a quella che, nel Surrealismo, si definisce scrittura automatica: un processo in cui l’artista non si ferma al controllo razionale, ma lascia che sia la mano a dettare il ritmo.
Le linee curve di Twombly sono come musica non scritta, come un solo che si svolge e si arrotola su se stesso senza seguire le regole del pentagramma. Ogni pennellata sembra un accordo spezzato, un silenzio che grida senza suono, un respiro interrotto.
In alcuni lavori più esplicitamente legati al tema musicale, come “Pan” o “Bacchus”, Twombly traduce la violenza ritmica e la confusione della musica contemporanea in un caos figurativo, dove non c’è mai ordine, ma una sorta di energia pulsante, un “suono visivo” che rimbalza nella tela. Il segno si carica di energia elettrica, di un impeto che sembra arrivare da un’altra dimensione, come una musica che fa vibrare l’aria.
In Twombly, la pittura diventa una sinestesia, una fusione di linguaggi che non si sovrappongono, ma si attraversano e si confondono. Ogni sua tela è un poema visivo, ogni traccia, una nota musicale non ancora suonata.
Flusso di coscienza: “Pensieri di Cy Twombly, un ricordo di se stesso”
Ora proviamo a entrare nel flusso di coscienza di Cy Twombly stesso. Immaginiamo la sua mente mentre dipinge, mentre tutto si trasforma in segni:
“Voglio scrivere. No, voglio graffiare. Voglio che la superficie esploda. Ma come posso farlo? È già tutto là. Sono io che non vedo, o sono io che non voglio vedere? Forse è questo il punto: non ci sono risposte. Solo segni. Pochi segni. Ma devono essere giusti. Mi bastano. Mi bastano per dire ciò che non si può dire.
Scrivere, dipingere, sono la stessa cosa. Non ci sono differenze. O forse sono tutte la stessa. Un segno sulla tela è come una parola sul foglio. Come un bacio, come un respiro. Un respiro che svanisce. Ogni movimento è un atto di morte, un atto di vita. Non importa.
"Achille? Forse lo vedo nei miei segni. Forse è un graffio, una riga lunga che non finisce mai. E Narciso, oh, Narciso non si guarda mai davvero. L’acqua lo inghiotte. Ma non c’è mai acqua. C’è solo l’eco di quello che non è mai stato. Il mito è una piccola morte che si ripete."
Questo è l’essenza della pittura di Twombly: un pensiero in continuo movimento, che non può fermarsi, perché ogni segno porta con sé una nuova necessità, una nuova angoscia. Ogni segno è una ricerca, ma non è mai risposta. È il continuo fluire tra il passato e il presente, tra il mito e la realtà.
La pittura di Cy Twombly è un viaggio senza meta, un percorso senza destinazione, dove ogni tappa ci porta più lontano, ma anche più vicini a noi stessi. I suoi segni, le sue parole, i suoi colori non sono mai stati un “messaggio” da interpretare, ma un gesto primordiale da sentire, da vivere. Nelle sue tele, l’unico vero linguaggio è il corpo, e tutto ciò che conta è come quello corpo si muove nel tempo.
Ora possiamo continuare a svelare le imperfezioni sacre, il suo senso del tragico e la sua costante tensione tra vita e morte, tra il gesto che distrugge e quello che crea.
L’immagine del corpo come traccia di un desiderio incatenato
In un mondo dominato dalla fluidità e dalla destrutturazione, Twombly sceglie di tratteggiare il corpo, ma mai come una figura riconoscibile, piuttosto come una traccia del corpo, un indizio di carne che ci sfugge. Non c’è mai una vera forma da abbracciare, ma un desiderio che corre, sfugge, ed è imprendibile.
Il corpo in Twombly non è mai un corpo che può essere oggettivato, non è mai un corpo perfetto che appartiene alla visione classica della bellezza. È un corpo vulnerabile, in continua deperimento, che attraversa la tela lasciando la sua scia come un amante che se ne va senza dire addio.
Ogni linea che scorre sulla tela è un corpo che si perde, un gesto che ha attraversato lo spazio del desiderio senza mai poterlo colmare. La linea di Twombly diventa la traccia di un desiderio inafferrabile, un corpo che si allontana, che muore e rinasce, ma che non trova mai la sua forma definitiva. È una carne che non si definisce mai, come i baci di Adone e Afrodite, che restano scolpiti nel mito, ma la cui carne non è mai mostrata.
Il desiderio in Twombly non è un oggetto da possedere. È sempre l’eco di un incontro mai avvenuto, il respiro di una passione che resta sospesa nell’aria. Il corpo, nel suo linguaggio, è un segno incompleto, una ferita che non guarisce mai completamente, ma che si fa eterno nella sua incompiutezza.
La forza della ripetizione: un linguaggio che non smette mai di tornare
L’aspetto che più colpisce nell’opera di Twombly è la ripetizione. Le sue tele non sono mai una novità che segue un altro, ma piuttosto un ritorno continuo a un gesto primordiale, come un tamburo che non smette mai di battere, come il richiamo di un amore che non cessa di ripetersi.
La ripetizione di un segno, di una parola, di una figura che torna in un’altra versione, non è un ritorno nostalgico, ma un ritorno che genera vita. Ogni volta che Twombly ripete un gesto, quel gesto è come se rinascente, un’esplosione che rinasce.
Non è un caso che i temi da lui trattati siano spesso mitologici, quasi come se, ripetendo sempre le stesse storie, Twombly cercasse di riscrivere il mito, di restituirgli la sua vitalità, di sottrarlo alla ripetizione sterile per farlo tornare a essere energia pulsante. La ripetizione è quindi un atto di potenza, una forza che incarna l’atto stesso di vivere.
Ripetendo, Twombly libera il tempo dalle sue convenzioni. La ripetizione non è mai monotona, mai simile a una copia. È un atto che si carica di energia nuova, di un tempo che non si ferma mai, che non è mai fermo. La ripetizione è un sguardo che si rinnova, che impara qualcosa ogni volta che torna.
L’arte come incanto e distruzione: la morte che crea
Un altro tema forte nella pittura di Twombly è il continuo intreccio tra creazione e distruzione, tra vita e morte. La sua arte è il frutto di un dialogo con la morte, ma non è mai una morte “finale”, è piuttosto una morte che fa rinascere qualcosa. Un movimento che si distrugge per poter continuare a muoversi, una creazione che si fa distruzione per diventare vita.
Prendiamo, per esempio, l’opera “Leda and the Swan”, dove la violenza dell’incontro è rappresentata in tutta la sua fisicità, ma dove la violenza stessa diventa qualcosa di poetico, di assoluto, che rompe il confine tra il sacro e il profano. Il corpo violato di Leda, come quello del cigno, è un atto di morte, ma è anche l’inizio di qualcosa di nuovo.
E “Bacchus”, con la sua esplosione di rosso, non è solo un momento di euforia, ma è il punto in cui la passione si fa quasi eccessiva, in cui l’incontro tra il corpo e l’ebbrezza diventa devastante. È il momento in cui il piacere si mescola con il dolore, e, come la morte del vino, è destinato a creare qualcosa di nuovo.
La distruzione, in Twombly, non è mai un fine, ma un mezzo per l’inizio di una nuova creazione. Come il desiderio che deve continuamente rinascere dalla sua stessa morte, così anche le sue opere si basano sulla costante necessità di distruggere per rinascere.
La poesia visiva: l'arte che si fa voce
In Twombly la scrittura non è mai solo decorativa. È poesia visiva. Non sono segni per costruire una frase, ma segni per evocare una sensazione, un’emozione, un ricordo. Le sue scritture, quando non sono semplici gesti impulsivi, sono versi che non si leggono ma si sentono.
Nel suo lavoro, ogni linea è un verso di un poema che non ha mai fine, un verso che si compone nel momento stesso in cui viene scritto. E come una poesia, ogni linea non ha mai una conclusione definitiva. Ogni tela di Twombly è un inno incompleto, una sinfonia che non finisce mai, un testo che si fa parola nel momento stesso in cui viene osservata.
Ogni volta che ci immergiamo nelle sue tele, non leggiamo mai un messaggio chiaro, ma entriamo in un mondo dove le parole sono strumenti di rivelazione. Non c'è nulla di banale nelle sue scritture: ogni segno è una sonata di silenzio e rumore, una poesia non detta, ma sentita.
L'essenza dell’irrequietezza creativa
Twombly ha definito l’arte come un flusso di energia, e in effetti ogni sua tela sembra essere il risultato di un atto che scorre e non si ferma. La sua arte non è statica, ma è un flusso che non smette mai di invadere il nostro spazio mentale. Ogni segno, ogni forma, è come un grido o un respiro, che si srotola senza mai fermarsi. La sua arte è il desiderio incessante di continuare a vivere, di essere sempre più vicino a qualcosa che non possiamo mai raggiungere, e di continuare a cercarlo anche nella morte.
Twombly, come poeta e pittore, non è mai fermo. Ogni suo gesto, ogni suo segno, è una forma di ricerca, di vita che non si accontenta. Il suo lavoro è sempre un grido verso l’infinito, una volontà di esistere che non trova mai pace. Ma è anche una pace che non è mai raggiunta, una lunga ricerca di qualcosa che non può mai essere afferrato, se non nel gesto stesso.