C’erano una volta le famiglie. Quelle che tutti potevano raccontare e rappresentare con semplicità disarmante: mamma, papà, figli. Poi un cane, un giardino, un album di foto da mostrare agli amici. Ma il tempo, come l’amore, ha le sue logiche misteriose e benedette, e ha cominciato a sgretolare questa immagine d’altri tempi, non per negarla, ma per ampliarla. Eppure, nella retorica ufficiale, nel linguaggio dei ministri, nelle aule dei tribunali italiani, la realtà è sempre arrivata dopo. E lentamente. Come un convoglio carico di voci non ascoltate.
Il 22 maggio 2025, la Corte Costituzionale ha rotto un silenzio lungo, un silenzio pesante come piombo. Lo ha fatto con una sentenza che, per chi ama i numeri, è la 68 di quest’anno. Ma per chi ama la verità dei legami umani, è un atto di riparazione tardivo ma decisivo. La Corte ha stabilito che è incostituzionale negare alla madre intenzionale il riconoscimento del figlio alla nascita. Sì, la madre non biologica, quella che ha scelto, condiviso, accompagnato, sognato quella vita insieme alla madre biologica, ha finalmente diritto a essere madre anche per lo Stato. Non solo nel cuore, nel linguaggio, nella casa. Anche sui documenti. Anche all’anagrafe. Anche nella legge.
È un punto di arrivo, certo, ma anche un punto di partenza. Perché questa battaglia per la genitorialità omogenitoriale non è nuova. Da almeno due decenni, coppie di donne (ma anche uomini, in casi più complessi legati alla gestazione per altri) hanno cercato di ottenere quello che per molti è scontato: poter dire “nostro figlio” e non “suo figlio”. Hanno percorso sentieri giuridici impervi, affidandosi a giudici coraggiosi, ricorrendo alla giurisprudenza europea, alle convenzioni sui diritti dell’infanzia, ai tribunali minorili. Hanno cercato di spiegare che la genitorialità non è un fatto cromosomico, ma un progetto di vita.
La PMA, o procreazione medicalmente assistita, è da tempo una via possibile per molte coppie eterosessuali infertili. Ma in Italia, la legge 40/2004 ne limita l’accesso solo alle coppie eterosessuali, sposate o conviventi, e vieta ogni tipo di intervento per le coppie dello stesso sesso. È un impianto normativo rigido, sorretto da una visione bioessenzialista e, spesso, moralistica. Così, tante donne italiane sono state costrette a partire: Spagna, Danimarca, Belgio, Olanda. Luoghi dove il diritto non impone barriere ideologiche all’amore. Luoghi dove la maternità condivisa è riconosciuta senza batter ciglio.
Ma al ritorno in Italia, la realtà si scontra col paradosso: due madri che hanno cresciuto insieme un figlio devono spiegare, giustificare, documentare. Solo una delle due è riconosciuta alla nascita, l’altra deve intraprendere il doloroso cammino della “adozione in casi particolari”. Un ossimoro giuridico: adottare un figlio che si è già scelto, amato, cullato, cambiato, nutrito. Un figlio nato da un progetto d’amore e di responsabilità, ma che per lo Stato è un estraneo.
La sentenza della Corte scardina tutto questo. Stabilisce che in presenza di un progetto genitoriale comune, la madre intenzionale deve essere riconosciuta come genitrice fin dalla nascita. Non è più necessario aspettare anni, procedimenti lunghi e incerti. Non si può più negare un diritto essenziale solo perché la legge ordinaria è rimasta indietro.
Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, ha reagito con fermezza. Per lei, la sentenza è uno strappo alla coerenza normativa, un’apertura a una deriva antropologica. Ha invocato la centralità del legame biologico, sostenendo che già oggi l’adozione garantisce la tutela dei bambini. Ma è una posizione che ignora la sostanza del problema: l’adozione, in questo contesto, è una pezza a colori, una soluzione transitoria, spesso dolorosa e piena di ostacoli burocratici.
Ciò che la Corte ha detto, invece, è che il tempo dei surrogati simbolici è finito. Se due donne progettano insieme la nascita di un figlio, e una di loro lo mette al mondo, l’altra non può essere trattata come un’estranea. Il bambino ha diritto a essere riconosciuto figlio di entrambe. Ha diritto a essere tutelato, curato, rappresentato da entrambe. Ha diritto a chiamare “mamma” chi lo è davvero.
La decisione non tocca l’accesso alla PMA, che resta vietata in Italia per le coppie dello stesso sesso. Questo vuol dire che il legislatore non è ancora stato costretto a cambiare la legge 40. Ma la giurisprudenza sta disegnando un percorso parallelo, un diritto vivente che accompagna i cambiamenti della società. È una giurisprudenza che si affida al principio di eguaglianza, alla tutela dell’infanzia, alla dignità della persona. E che, passo dopo passo, sta costruendo una nuova idea di famiglia.
Dietro questa sentenza ci sono storie vere. Ci sono bambini che vanno a scuola e non possono far firmare un permesso alla seconda mamma. Ci sono ospedali che, in caso d’emergenza, si rifiutano di riconoscere diritti decisionali a chi non è genitore legale. Ci sono famiglie che vivono nella precarietà giuridica, come clandestini del cuore.
Ora non sarà più così. O almeno non dovrà esserlo. La Corte ha posto un principio, e i tribunali inferiori dovranno adeguarsi. Le anagrafi dovranno cambiare modulistica. I comuni dovranno aggiornare le prassi. E, si spera, il Parlamento dovrà finalmente trovare il coraggio di affrontare una riforma seria del diritto di famiglia.
Non sarà facile. Ci saranno resistenze, ricorsi, strappi. Ma qualcosa si è mosso. E non tornerà più indietro. Questa sentenza è una breccia aperta nel muro dell’arretratezza. È una promessa fatta ai bambini che nascono da un progetto d’amore, qualunque sia il sesso dei loro genitori. È un segnale chiaro a chi vuole cancellare l’esistenza di queste famiglie: non potete più farlo. Non impunemente.
Infine, c’è da riflettere su una parola che attraversa tutto questo dibattito: riconoscimento. Riconoscere significa guardare, vedere, accettare. Dare un nome, un posto, una cittadinanza. Questa sentenza riconosce. Dice “ti vedo”, “ti leggo”, “ti considero”. E in un paese che troppo spesso ha preferito ignorare, silenziare, rimandare, questa è una rivoluzione. Silenziosa, giuridica, formale se vogliamo. Ma per chi la vive sulla pelle, è tutto. È vita che esce dal buio della negazione. È amore che diventa diritto.
E allora, al di là dei codici e dei comunicati stampa, questa è la vera sostanza della notizia: in Italia, nel 2025, due madri possono finalmente essere riconosciute tali. Non perché lo dice una sentenza. Ma perché lo erano già. La legge, ora, comincia solo ad accorgersene.