martedì 13 maggio 2025

Il filo del dire: seguendo Wittgenstein nel labirinto del linguaggio

C’è un momento nella storia del pensiero filosofico in cui il linguaggio smette di essere visto come uno specchio passivo del mondo e inizia a essere riconosciuto come una forza attiva, plasmante, a tratti ingannevole, ma profondamente radicata nelle pratiche umane. È in questo momento che si colloca Ludwig Wittgenstein, figura atipica e schiva, eppure capace di ridefinire i fondamenti stessi della filosofia del linguaggio. Tra il 1932 e il 1934, egli tenne una serie di lezioni a Cambridge, successivamente note come le “Lectures on Philosophy”, o “Libro giallo”, che si pongono come snodo decisivo nel suo percorso teorico: non più l’architettura logica e rigida del Tractatus, ma un’indagine minuziosa e quasi terapeutica sull’uso concreto delle parole nel contesto della vita.

Il linguaggio, nelle parole di Wittgenstein, non è più una griglia trasparente che possiamo sovrapporre alla realtà per descriverla con precisione. Esso diventa piuttosto un insieme di giochi, una pluralità di pratiche che assumono significato solo all’interno delle attività quotidiane, dei gesti, delle regole condivise che informano le nostre vite. Questo mutamento di prospettiva non è solo teorico: è esistenziale, culturale, etico. Wittgenstein non propone più una metafisica del significato, ma una genealogia degli usi, una sorta di etnografia filosofica dell’occidente, in cui il filosofo non costruisce sistemi, ma si limita a far luce sulle nostre abitudini linguistiche, rivelandone le aporie e le contraddizioni.

Uno dei punti centrali delle lezioni è la critica all’illusione che ogni parola debba corrispondere a un oggetto determinato: una visione che, seppur apparentemente innocua, può produrre effetti devastanti nel modo in cui comprendiamo noi stessi e il mondo. Wittgenstein denuncia con forza questa tendenza al reificare, all’oggettivare i significati, alla ricerca spasmodica di un referente stabile. Ma la parola “gioco”, ad esempio, non ha un’essenza comune a tutte le sue manifestazioni; piuttosto, presenta una serie di somiglianze familiari, fluttuanti, dinamiche. Non esiste un’unica definizione universale, quanto una rete di rimandi, un “intreccio di fili”.

Questo concetto ha ripercussioni che travalicano il dominio della filosofia accademica e investono in pieno la sfera giuridica, sociale, politica. È illuminante, in tal senso, osservare la vicenda recentissima della Corte Suprema del Regno Unito, la quale ha sancito, in un contesto normativo, che la parola “donna” debba riferirsi esclusivamente al “sesso biologico”. Tale decisione sembra ignorare o perlomeno ridurre la complessità semantica e storica di un termine così carico di implicazioni identitarie e culturali. Secondo la prospettiva wittgensteiniana, una tale semplificazione giuridica appare fuorviante: non si può astrarre il significato da un termine prescindendo dal contesto d’uso e dalle forme di vita che lo accompagnano.

Il problema non è solo semantico, ma antropologico. Le parole sono nodi di senso che si addensano in pratiche, istituzioni, relazioni di potere. Pretendere di ridurre un termine come “donna” a una formula biologica equivale, in un certo senso, a ignorare la natura stessa del linguaggio umano: flessibile, ambiguo, cangiante. Wittgenstein ci ricorda che il significato non si trova “dietro” le parole, come se potessimo svelare una verità nascosta, ma “davanti a noi”, nel modo in cui viviamo, usiamo, e trasformiamo quei segni nella trama dell’esperienza quotidiana.

Ma che cosa fa, allora, il filosofo? Non costruisce dottrine, non impone definizioni, non pretende di stabilire fondamenti. Egli cerca invece di chiarire: di mostrare come la nostra mente possa rimanere intrappolata in immagini errate, in metafore ipnotiche, in grammatiche fuorvianti. Le lezioni di Wittgenstein sono una sorta di cura, nel senso più autenticamente socratico del termine: non una dottrina, ma una pratica liberatoria. Esse ci insegnano a osservare con maggiore attenzione, a non cadere vittime delle nostre stesse parole, a riconoscere che spesso le difficoltà filosofiche non sono che l’effetto di un uso ingannevole del linguaggio.

L'eredità di queste lezioni si estende ben oltre il dominio della filosofia del linguaggio. Esse pongono domande radicali sull’oggettività, sull’autorità, sulla possibilità stessa di comprendersi. In un’epoca segnata da polarizzazioni ideologiche, conflitti semantici, lotte per il riconoscimento, il pensiero di Wittgenstein assume un valore inatteso, quasi profetico. Non si tratta di rinunciare alla verità, ma di accettare che essa è sempre situata, intrecciata ai contesti, mai disgiunta dalla vita concreta.

In questa luce, il “Libro giallo” non è solo un documento storico, ma un invito a un esercizio di attenzione e di responsabilità. Ci chiede di pensare con precisione, ma senza rigidità; di parlare con cura, ma senza censura; di ascoltare non solo le parole, ma le voci, le sfumature, i silenzi. Di diventare, in ultima istanza, più consapevoli del potere che il linguaggio esercita su di noi — e del potere che possiamo, a nostra volta, esercitare sul linguaggio.

Il pensiero che emerge dalle Lezioni 1932-1934 di Wittgenstein può essere ulteriormente ampliato in almeno tre direzioni fondamentali:

Wittgenstein, pur non tematizzandolo esplicitamente, apre le porte a una riflessione che influenzerà poi la filosofia post-strutturalista e il pensiero queer: il linguaggio non è disincarnato, non è un sistema chiuso, ma si radica nei gesti, nei volti, nei corpi. Il “gioco linguistico” è una forma di vita, e dunque coinvolge anche l’emozione, il desiderio, l’ambivalenza. Pensatori come Judith Butler, ad esempio, faranno tesoro di questa intuizione per mostrare come le identità di genere non siano naturali o fisse, ma “performative”, cioè continuamente costruite attraverso atti linguistici e rituali quotidiani.

Le Lezioni non solo rifiutano la fondazione metafisica del significato, ma demoliscono anche l’idea che la filosofia debba erigersi a tribunale del linguaggio. Wittgenstein si pone, piuttosto, come uno che mostra, non che dimostra. Questo atteggiamento ha conseguenze etiche profonde: la chiarezza, per lui, non è un valore tecnico, ma una forma di onestà intellettuale, un invito a non abusare del potere delle parole. È un’etica dell’umiltà, una consapevolezza dei propri limiti.

In tempi in cui il dibattito pubblico è spesso ridotto a slogan, a manipolazioni linguistiche, a polarizzazioni tossiche, Wittgenstein ci propone un’idea radicale: che molte dispute (filosofiche, politiche, sociali) non siano vere divergenze, ma confusioni grammaticali. Capire bene come stiamo usando una parola è già un atto politico, una forma di resistenza alla semplificazione. In questo senso, leggere le sue Lezioni oggi significa esercitarsi in una pratica di ascolto e di sospensione del giudizio, un addestramento alla complessità.

Ma possiamo ancora addentrarci in altre pieghe del pensiero wittgensteiniano così come emerge dalle Lezioni 1932-1934, pieghe che rivelano la portata non solo filosofica, ma quasi mistica, del suo approccio:

Già nel Tractatus Wittgenstein conclude con la celebre frase: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.” Ma nelle Lezioni quel silenzio si trasforma: non è più un limite logico, ma un invito all’ascolto. Il filosofo non si zittisce per rinunciare a dire, ma per ascoltare il linguaggio che vive negli interstizi, nelle oscillazioni tra i significati. Questo porta a una riflessione sul valore del non detto, del sottinteso, dell’implicito, che oggi potremmo collegare al concetto di “ascolto radicale” in ambito educativo, psicologico o terapeutico. Il silenzio diventa spazio di relazione.

Il celebre esempio dei “giochi” che condividono somiglianze senza avere un’essenza comune anticipa quella che sarà una forma mentis postmoderna: l’abbandono del pensiero gerarchico, categoriale, per un pensiero reticolare, analogico, non lineare. Le “somiglianze di famiglia” aprono alla possibilità di connessioni mobili, affinità fluide tra concetti, esperienze, identità. Questo ha avuto una grande influenza nella critica letteraria (Derrida), nella teoria femminista (Haraway), nella filosofia interculturale.

La filosofia, per Wittgenstein, non serve a trovare risposte, ma a guarire da una certa ansia concettuale. È una medicina per i pensieri malati, un trattamento contro le illusioni create dal linguaggio. Questo avvicina sorprendentemente Wittgenstein a forme di pratica filosofica orientale – come lo zazen – dove il senso si rivela nello spogliarsi dalle sovrastrutture, non nell’analisi concettuale. In questa luce, le Lezioni appaiono come un diario di disintossicazione, un atto di liberazione spirituale oltre che logica.

Va detto che le Lectures sono un’opera in parte ricostruita da allievi, soprattutto da G. E. Moore e Alice Ambrose. Questa genesi peculiare – fatta di appunti, memorie, registrazioni mentali – ci parla anche del modo in cui la filosofia si trasmette: non per testi chiusi e finiti, ma per riverberi, per voci, per ascolti trasformativi. Le Lezioni non sono un libro, ma un’eco. Un laboratorio vivo.

E poi ci sono ancora ulteriori strati tematici che possono essere integrati per ampliare la riflessione su Wittgenstein e le sue Lezioni 1932–1934, arricchendola sia dal punto di vista filosofico che da quello culturale e antropologico. 

Le Lezioni non sono semplicemente trasmissione di contenuti, ma veri atti performativi. Wittgenstein non spiega soltanto, interroga, provoca, mette in crisi. L’aula si trasforma in un teatro del pensiero, dove la conoscenza nasce dall’urto tra linguaggio e vita quotidiana. Questo modello ha influenzato generazioni di filosofi e pedagogisti, ponendo le basi di un’educazione non dogmatica, fondata sull’inquietudine come valore.

L’opera di Wittgenstein, anche nelle Lezioni, si oppone frontalmente alla tradizione del “sistema filosofico”. Egli scrive per aforismi, per esempi, per illuminazioni. Questo rifiuto della struttura totalizzante fa di lui un antesignano della filosofia del frammento, una linea che va da Pascal a Nietzsche, fino a Blanchot e Adorno. In questo senso, la sua scrittura è anche un gesto estetico e politico.

Pur restando ancorato a un rigore logico senza compromessi, Wittgenstein lascia filtrare – tra le righe – un’aura mistica. Non religiosa in senso confessionale, ma mistica come apertura all’ineffabile, come consapevolezza del limite della ragione. Si avverte un desiderio quasi spirituale di verità, un bisogno di purificazione dalle illusioni del pensiero. Questo lo avvicina tanto ai testi sapienziali orientali quanto a certi aspetti della teologia negativa cristiana.

Per Wittgenstein, l’errore non è una colpa: è un’occasione conoscitiva. Ogni fraintendimento è rivelatore. Le Lezioni sono piene di esempi “sbagliati” che però mostrano meglio di mille definizioni cosa sia il significato. In questo senso, la fallibilità non è un ostacolo ma uno strumento. È una filosofia dell’imperfezione, e quindi, profondamente umana.

Artisti concettuali come Joseph Kosuth, o performativi come Marina Abramović, hanno attinto a piene mani dal pensiero wittgensteiniano. L’idea che il linguaggio faccia il mondo, che il significato sia uso, ha rivoluzionato anche la pratica artistica, spingendola verso forme processuali, aperte, dialogiche. Le Lezioni possono dunque essere lette anche come un manifesto involontario dell’arte postduchampiana.

Il pensiero wittgensteiniano — e in particolare quello fluido, orale, esplorativo delle Lezioni 1932–1934 — è un giacimento che continua a generare risonanze. Ecco ulteriori strade possibili:

Wittgenstein, cresciuto tra il tedesco e l’inglese, è un pensatore profondamente consapevole dell’intraducibilità e delle zone d’attrito tra lingue. Le sue Lezioni mostrano come il significato non risieda in un’essenza trasportabile, ma nel contesto specifico di uso. Questo rende ogni traduzione non un semplice passaggio, ma un evento, una trasformazione. È una lezione cruciale per la filosofia comparata, ma anche per le scienze cognitive e l’antropologia culturale.

Wittgenstein non è un filosofo accademico nel senso tradizionale: spesso usa esempi assurdi, paradossali, talvolta comici. L’ironia, nei suoi corsi, non è decorativa, ma strutturale: smaschera la pretesa serietà della metafisica e ne mostra il volto buffo. In questo, ha qualcosa in comune con Socrate, ma anche con i dadaisti. L’ironia diventa gesto liberatorio, ma anche uno stile etico: non prendere mai il proprio linguaggio troppo sul serio.

Pur rifiutando il mentalismo classico, Wittgenstein ha enormemente influenzato la filosofia della mente contemporanea, anticipando questioni centrali sulla coscienza, l’intenzionalità, la mente estesa. Le Lezioni mostrano che pensare non è un atto interno, misterioso, ma un’attività pubblica, sociale, visibile. Pensare è anche parlare bene, agire bene con le parole. Una rivoluzione che prepara il terreno per la svolta enattiva e la neurofenomenologia.

Wittgenstein costruì una sola casa nella sua vita — per la sorella Margaret a Vienna — ma quell’architettura, razionalissima e quasi ascetica, è un perfetto parallelo visivo della sua filosofia: niente orpelli, solo proporzione, misura, luce. Le sue Lezioni, lette in questo spirito, diventano anche una lezione estetica: sulla precisione, sulla sobrietà, sull’etica della forma.

C’è una linea ancora poco esplorata ma feconda: la sua idea che il significato sia uso e non essenza rende il linguaggio uno spazio mobile, attraversabile, performabile. In questo, Wittgenstein anticipa molte intuizioni del pensiero queer: il genere, l’identità, il desiderio sono giochi linguistici incarnati, pluralità di forme di vita. La sua filosofia è così, in filigrana, una forma di resistenza all’identità fissa, al nome imposto, alla grammatica normativa.

Nelle Lezioni, Wittgenstein non parla mai invano. Ogni parola è misurata, ogni esempio ha il tono di un’incursione nell’intimità del pensiero. Ma più eloquente ancora è il suo rapporto con il silenzio. Non solo quello famoso del Tractatus, ma il silenzio come cura del linguaggio. Ciò che non si può dire, si deve rispettare — non censurare. Questo introduce una postura etica profondissima: saper tacere, non come rinuncia, ma come atto di rigore e di amore per la verità.

Wittgenstein non semplifica per compiacere. Non è un divulgatore, ma un resistente. Le sue Lezioni insegnano l’esercizio della difficoltà. La chiarezza, per lui, è il punto d’arrivo di una lotta, non una premessa. In un tempo come il nostro, dove il pensiero è spesso ridotto a slogan, il suo atteggiamento è una forma di dissidenza. Insegna che pensare è faticoso, ma anche salvifico.

Anche se non lo dice mai esplicitamente, Wittgenstein insegna con amore. Non verso gli allievi come persone, ma verso il loro potenziale filosofico. Ogni lezione è un atto di fiducia nel fatto che un altro essere umano possa capire, andare oltre, rispondere. La filosofia diventa così non solo esercizio critico, ma gesto relazionale, persino carezza intellettuale.

Pur essendo apparentemente tutta “testa”, la filosofia di Wittgenstein è anche profondamente corporea. I giochi linguistici sono situati: richiedono mani, occhi, voci, posture. Il linguaggio non è mai disincarnato. Le Lezioni lo mostrano: ogni esempio è una scena, una mimica, una posizione del corpo nello spazio. Questo lo avvicina a Merleau-Ponty, ma anche a certi coreografi concettuali come Yvonne Rainer.

Wittgenstein non tranquillizza. Leggerlo, ascoltarlo, seguirlo significa spesso entrare in una vertigine epistemologica. Crollano certezze, si dissolvono concetti. Ma è una vertigine generativa, che spinge a riformulare, a costruire nuove mappe. Le Lezioni sono, in questo senso, un invito alla creazione: non ripetere Wittgenstein, ma usarlo come un detonatore per pensare diversamente.

In fondo, le Lezioni 1932–1934 non ci offrono un sistema, né una dottrina: ci lasciano invece in mano un filo sottile, da seguire con cautela, tra stanze linguistiche e gesti minimi. È un invito a pensare non per accumulo, ma per sottrazione, per chiarimento, per sguardo acuito sulle pieghe dell’ovvio. Wittgenstein non costruisce una cattedrale filosofica: piuttosto, scava cunicoli, apre finestre inattese sul mondo. Leggerlo — ascoltarlo, in queste pagine orali — significa accettare di smarrirsi, e in quello smarrimento trovare forse, come in certi sogni lucidi, una forma nuova di esattezza. Non definitiva, non salvifica. Ma umana. E necessaria, si trasmette non solo attraverso trattati e volumi organici, ma anche — e forse soprattutto — per via orale, per situazioni di prossimità, per gesti, espressioni, sfumature non verbalizzabili che si perdono nella trascrizione, ma che lasciano un'impronta durevole. In questo senso, il “Libro giallo” non è solo un testo, ma un evento. Un accadere filosofico, un laboratorio in cui il pensiero si sperimenta in atto, nella fragilità e nella vitalità dell’insegnamento vivo. Questo aspetto lo rende affine, paradossalmente, alle tradizioni sapienziali premoderne, dove il sapere non era scindibile dalla relazione tra maestro e discepolo, e dove la verità non si affermava per autorità logica, ma si mostrava nello stile, nel comportamento, nella cura della parola detta e non detta.

Questa oralità, questa vibrazione interpersonale che attraversa le Lezioni, ci dice qualcosa anche sulla postura filosofica che Wittgenstein abita: quella di chi rinuncia a fondare, per accompagnare. Di chi non impone, ma interroga. Di chi non definisce, ma indica. Come un maestro zen, egli mostra la luna senza fissarla in un concetto, lasciando che l’interlocutore impari a guardare. Non si tratta solo di umiltà epistemica, ma di una trasformazione della funzione stessa del pensiero: dalla pretesa di spiegare il mondo, all’arte di stare nel mondo, con tutto il carico di ambiguità, conflitto, mutamento che questo comporta.

In questo senso, le Lezioni 1932-1934 sono anche un testo sul fallimento. Ma non nel senso negativo che normalmente attribuiamo al termine: fallimento come punto di arresto, come segno di inadeguatezza. Al contrario: il fallimento in Wittgenstein è un’occasione. È il segnale che stiamo cercando una risposta dove c’era bisogno di una domanda diversa. È l’avvertimento che il nostro linguaggio si è irrigidito in una forma sterile, e che occorre tornare a muoverlo, a rianimarlo. Il fallimento diventa, così, un varco, un’apertura all’ascolto di ciò che sfugge, di ciò che non si lascia ingabbiare nei linguaggi dominanti. Un gesto etico, prima ancora che intellettuale.

Ecco perché il “Libro giallo” parla ancora oggi, con forza quasi sconcertante. Perché ci mette di fronte non solo alla natura intricata e fluida del linguaggio, ma alla nostra stessa esposizione come soggetti parlanti, fragili, vulnerabili. Ci ricorda che pensare non è mai un atto neutro, ma una forma di partecipazione. Una modalità di essere nel mondo con consapevolezza. In questo senso, le Lezioni sono un’educazione all’attenzione: al dettaglio, all’anomalia, alla deriva. Ci chiedono di rallentare, di non avere fretta di concludere, di sostare nel dubbio come in un luogo fecondo.

È in questo sostare che la filosofia wittgensteiniana si fa esperienza estetica: perché implica uno sguardo, una sensibilità, un gusto per la forma. Non a caso, Wittgenstein parlava della sua opera come di qualcosa che poteva “solo essere mostrato, non detto”. E questa mostrazione ha un che di poetico, di teatrale, di musicale persino. Non perché si allontani dal rigore, ma perché riconosce che la verità non si manifesta sempre per proposizioni, ma per risonanze, per gesti, per silenzi.

Infine, è forse nella figura stessa di Wittgenstein che tutto questo prende corpo. Il suo essere filosofo riluttante, inquieto, a tratti ascetico, ma mai cinico; il suo oscillare tra l’élite accademica e il bisogno di ritirarsi in solitudine; la sua lotta interiore tra razionalità e spiritualità, tra logica e fede, tra disciplina e vulnerabilità — tutto questo lo rende uno degli ultimi pensatori tragici del Novecento. Non un costruttore di sistemi, ma un cercatore, un pellegrino del linguaggio. E le Lezioni sono le sue tracce: fragili, parziali, ma vive. Un invito a proseguire il cammino, senza certezze, ma con una nuova, rigorosa attenzione alla parola.

Il Libro giallo agisce come un prisma attraverso cui si scompongono le tensioni invisibili tra linguaggio e silenzio, tra regola e stile, tra verità e confessione. Se nel Tractatus il limite era la mistica («su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere»), qui il silenzio è riempito da un tono morale, quasi accorato, che sovrappone etica e forma di vita, senso e sensibilità. Il linguaggio si fa gesto, non solo codice: qui abita il suo potenziale queer.

Il queer, infatti, in Wittgenstein non è affermato, ma incarnato nel gesto stesso del pensare. Una filosofia che rifiuta la sistematicità, che lavora per esempi, che pratica l’inversione e il ribaltamento: si potrebbe dire che il Libro giallo è un anti-sistema scritto con la cura orafa di un artigiano dell’interiorità. In tal senso, la sua estetica è vicina più al diario spirituale che al trattato filosofico, e riecheggia il metodo degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola come quelli di Simone Weil: la forma breve, l’aneddoto, l’interruzione sono forme di resistenza all’imposizione logico-linguistica. Ogni proposizione è anche un frammento che non vuole possedere la verità, ma trattenerla come si trattiene il respiro prima del pianto.

In questa posizione a metà tra il dire e il non-dire, il desiderio si insinua. Non solo il desiderio erotico (l’amore per David Pinsent, le confessioni oblique di Wittgenstein), ma anche quello della rivelazione, della purezza, della redenzione. Si può leggere il Libro giallo come un testo mistico travestito da manuale, dove la grammatica è il velo attraverso cui si intravede l’intuizione: qualcosa che non si insegna ma si trasmette. Come una ferita.

Sul versante contemporaneo, il Libro giallo ha fertilizzato territori apparentemente lontani dalla filosofia analitica. Cominciamo dalla pedagogia: le lezioni contenute in quel testo sono oggi lette come un manifesto dell’ascolto, dell’apprendimento per immersione, del pensiero come pratica quotidiana. La resistenza di Wittgenstein al “teaching by theory” fa sì che molti educatori vedano in lui un precursore della pedagogia negativa, che mira a disfare gli automatismi del linguaggio prima di proporre alternative. È un metodo che lavora sullo stile di attenzione, come dirà Simone Weil, e che forma lo spirito più che l’intelletto.

Nel campo della giurisprudenza, Wittgenstein entra in dialogo con la teoria critica del diritto e con i pensatori del femminismo giuridico. La sua idea che i concetti non abbiano confini rigidi, ma “somiglianze di famiglia”, è stata usata per contestare il formalismo normativo e per sostenere una visione situata del giudizio, dove il contesto, il tono, l’intenzione sono parte della decisione. In questo senso, è un autore chiave anche per la riflessione queer sul diritto: ciò che è norma non può prescindere dalla vita. L’analisi del linguaggio giuridico – con le sue formule, le sue omissioni, le sue liturgie – trova in Wittgenstein un alleato insospettabile.

Quanto alla psicoanalisi, il Libro giallo è stato riscoperto da filosofi come Stanley Cavell, che lo leggono accanto a Freud. Il modo in cui Wittgenstein mette in discussione l’idea di “privato”, o come esplora i limiti dell’espressione, dialoga direttamente con il setting analitico. Il paziente, come l’allievo di Wittgenstein, non riceve risposte ma viene guidato verso un “vedere diversamente”. In entrambi i casi, è il linguaggio a essere la materia prima della cura. In particolare, la psicoanalisi lacaniana ha trovato nel pensiero del secondo Wittgenstein una conferma dell’idea che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, ma anche che ogni linguaggio è già una interpretazione, un travestimento, una messinscena.

Ma chiudendo rientriamo nella camera più segreta del Libro giallo, quella dove Wittgenstein non argomenta, ma allude. Dove la logica cede il passo all'illuminazione, e il pensiero comincia a danzare con il silenzio.

Nel Libro giallo, ogni frase sembra appena sussurrata. È una lingua che non vuole imporsi, ma offrirsi. Come accade nella poesia più vera, quella che non parla di qualcosa ma parla in qualcosa: nel tremore stesso della parola che cerca di non tradire ciò che non può dire. In questo senso, il testo si fa mistico. Ma non nel senso convenzionale di una fusione estatica o rivelazione soprannaturale. Piuttosto in quello laico, intimo, scavato: una mistica del linguaggio, come pozzo. Come risacca.

Wittgenstein lavora per sottrazione. Non costruisce un edificio, ma disfa impalcature. Il suo è un gesto ascetico: togliere, ridurre, spogliare, fino a far affiorare l’inesprimibile. Non è un caso che il suo pensiero seduca artisti, poeti, compositori: non per la chiarezza, ma per il mistero. Come se, sotto le sue proposizioni, si muovesse un’intelligenza lirica che aspira non al sapere, ma alla salvezza.

«L’etica non può essere insegnata» — dice.
Ma ciò che non può essere insegnato può solo essere mostrato.
E ciò che può solo essere mostrato non è forse l’essenza della poesia?

La soglia è questa. Qui Wittgenstein incontra i poeti — Hölderlin, Celan, Dickinson — tutti coloro che fanno del silenzio la materia stessa dell’opera. Ma è anche, nel suo stile ellittico, prossimo a Pascal, a Teresa d’Avila, a Plotino. La sua parola vaga, sfiora, non convince ma converte, se il lettore è disposto a perdersi.

E non è questo il cuore dell’esperienza queer? Il rifiuto delle categorie rigide, il gusto per l’ambiguità, per l’eccesso o per la ferita? Il Libro giallo è un testo queer proprio perché rifiuta la prestazione del concetto in favore della presenza del gesto. Una filosofia effeminata, direbbero i logici. Una filosofia col rossetto, direbbe una drag Wittgensteiniana, che usa la grammatica per farla esplodere in paillettes di senso.


La frase più misteriosa, e forse più decisiva, è questa:

«La bellezza non è una proprietà dell’oggetto, ma del suo modo di essere visto.»

Come dire: non c’è bellezza senza conversione dello sguardo. E dunque l’estetica è una disciplina spirituale. Come nella poesia, anche nel Libro giallo l’estetica non è ornamento ma obbligo: essere veri, cioè in sintonia con la forma interiore del mondo.

Questa è la soglia della poesia. Dove la filosofia non spiega, ma invoca. Dove il pensiero non giustifica, ma supplica. Dove la verità è nella cura del dire, nella compostezza, nella rinuncia a ogni stridore. Il filosofo non è maestro, ma testimone. Non ha autorità, ma tono. Non offre soluzioni, ma lascia che qualcosa accada. E questo “qualcosa” somiglia maledettamente all’amore.