Novanta fotografie in bianco e nero – più della metà inedite – del fotoreporter Fabio Maria Minotti compongono il corpo visivo di questa narrazione che ha il respiro largo dell’utopia e l’intensità struggente dei sogni che hanno creduto di potersi realizzare. Minotti non era un osservatore distante, un cronista esterno: le sue immagini tradiscono un’appartenenza profonda, una partecipazione sentimentale, quasi carnale, agli eventi che documenta. Il suo obiettivo non insegue l’aneddoto, né la cronaca spicciola: coglie, piuttosto, la vibrazione interiore di un’epoca, il ritmo disordinato e appassionato di una gioventù che voleva scardinare le convenzioni e reinventare la società partendo da sé, dal proprio corpo, dalla propria voce, dai propri desideri.
Il Parco Lambro, in quei giorni di giugno, diventava una città nomade e visionaria: un’arca psichedelica e politica, dove si accampavano migliaia di giovani provenienti da ogni parte d’Italia. Non c’erano alberghi, né strutture: si dormiva nei sacchi a pelo, si mangiava collettivamente, si parlava per ore, si improvvisavano dibattiti, letture, spettacoli teatrali, concerti infiniti. Il palco era il cuore simbolico e pulsante del Festival, ma il vero spettacolo accadeva ovunque: nelle radure, tra gli alberi, ai margini, nei cerchi improvvisati di chitarre e tamburi, nei balli sfrenati, negli amori passeggeri, nelle lacrime, nelle discussioni, nei piccoli gesti di cura reciproca.
Il titolo della mostra – Si giocava a fare Woodstock – è volutamente ironico, tenero e provocatorio. Perché se è vero che il modello americano del 1969 fu l’ispirazione di partenza, il Festival del Parco Lambro ebbe una fisionomia profondamente diversa: non si trattava solo di un raduno musicale, ma di un esperimento politico in atto, un laboratorio vivente di controcultura italiana. A differenza di Woodstock, qui l’organizzazione era collettiva, autogestita, senza barriere, senza recinti, senza sponsor. L’accesso era libero, gratuito, non esistevano biglietti, né transenne: il confine tra palco e prato era sfumato, permeabile, talvolta annullato.
Sul palco si alternavano esponenti dei più diversi linguaggi musicali: dalla canzone d’autore al rock psichedelico, dal jazz sperimentale alla musica popolare, dalla poesia performativa alle jam session collettive, in cui le categorie evaporavano in favore di una creazione fluida, aperta, improvvisata. Ma accanto alla musica, fondamentale era la dimensione politica: assemblee, interventi, manifesti, riviste ciclostilate, testi condivisi, riflessioni sulla sessualità, sul pacifismo, sull’ecologia, sull’antipsichiatria, sui modelli di vita alternativi. Si parlava e si viveva, contemporaneamente, un’altra idea di esistenza.
Fabio Maria Minotti coglie tutto questo, e di più: fotografa non solo chi era sul palco, ma soprattutto chi ascoltava, chi camminava, chi amava, chi dormiva, chi danzava nudo sotto il sole. Ritrae una generazione nella sua bellezza scomposta e nella sua vulnerabilità. Non c’è celebrazione, né mitizzazione: c’è piuttosto la restituzione onesta di una complessità, di un’energia che non sempre sapeva dove andare, ma che nel suo stesso cercare trovava senso. Le rughe delle tende, i piedi scalzi impolverati, i visi accaldati, gli occhi spalancati o socchiusi nel fumo, i piccoli gruppi che leggono, scrivono, cantano insieme: tutto contribuisce a dare corpo a un sentimento collettivo oggi difficilmente replicabile.
La mostra si presenta dunque come un grande affresco corale, una cronaca per immagini che va ben oltre l’archivio: è un gesto di resistenza della memoria contro l’omologazione del presente. Perché quel che accadde al Lambro tra il ’74 e il ’76 non fu solo un evento, ma un processo. Un’esperienza fondata sulla condivisione, sull’assenza di gerarchie, sulla messa in discussione radicale dei codici sociali. E anche, inevitabilmente, su tensioni, contraddizioni, crisi. Tutto questo è presente nelle foto: il sole e l’ombra, l’ebbrezza e il disincanto, la gioia e il disordine.
E proseguire, in questo caso, non significa semplicemente allungare il racconto, ma aprirlo. Lasciare che quelle immagini, sospese tra il documento e la poesia, diventino un varco. Perché le fotografie di Fabio Maria Minotti, pur radicate nel bianco e nero della cronaca, portano con sé una forza quasi visionaria: fissano l’attimo e insieme lo rilasciano, come se ogni scatto fosse un nodo in cui passato e futuro si sfiorano, si riconoscono, si tendono la mano. Ciò che si vede – i volti, i corpi, i sorrisi, i gesti – è solo la superficie visibile di un desiderio più profondo: quello di appartenere a qualcosa di più grande di sé, a una vibrazione comune, a un sentire collettivo che dia senso al proprio stare al mondo.
I Festival di Re Nudo non erano soltanto eventi: erano zone temporaneamente liberate, anticipazioni simboliche di un possibile altrove. Ogni edizione metteva alla prova l’utopia, la spingeva al limite, ne esplorava i confini. Ci si confrontava con il caos, certo, con l’impossibilità di controllare tutto. Ma proprio lì, nel bordo instabile tra libertà e disordine, si manifestava la verità del progetto: non imporre un modello, ma permettere che ogni singolo partecipante diventasse parte attiva del racconto, co-autore di una narrazione non lineare, non imposta, ma profondamente condivisa.
La mostra di oggi restituisce anche questo: la coralità. Non c’è un protagonista, ma mille. E ognuno è colto nel suo momento di verità. Chi suona, chi guarda, chi parla, chi accende un fuoco, chi si spoglia, chi dorme appoggiato a uno zaino, chi ride tra i capelli di qualcuno. Non c’è mai voyeurismo, mai giudizio. C’è uno sguardo partecipe, uno sguardo da dentro. Minotti non fotografa i freak, li è. E proprio per questo li coglie nella loro verità: non come maschere ma come soggetti pieni, vitali, affamati di esperienze.
Molti dei protagonisti ritratti non hanno un nome oggi noto. Non sono diventati icone, né sono passati alla storia ufficiale. Ma questo non conta. Anzi: è proprio la presenza di questi “anonimi splendori” che fa della mostra un’opera politica. Perché dà volto a chi normalmente non lo ha. A chi ha vissuto, gridato, inventato, ma è rimasto fuori dai manuali. Eppure è proprio lì, in quei corpi, che si è giocato il senso profondo dell’utopia del Lambro: nella scelta quotidiana, minuscola e gigantesca insieme, di essere altro.
Ciò che colpisce, ancora oggi, è la radicalità dell’esperimento. Non si trattava solo di ascoltare musica diversa o di vestirsi in modo alternativo. Si metteva in discussione l’intera struttura della società: il ruolo della famiglia, della scuola, del lavoro, della proprietà, del consumo. Si rivendicava il diritto al piacere, alla lentezza, al fallimento, alla nudità, alla cura reciproca, alla creazione non produttiva. E si immaginava – con la forza dei visionari – che tutto questo potesse essere non solo possibile, ma necessario.
Certo, col tempo, quell’onda si è ritirata. È arrivata la repressione, l’eroina, la riflusso, l’individualismo. I sogni si sono infranti, molti sono stati inglobati dal mercato, altri si sono spenti. Ma guardare oggi quelle fotografie, in un presente che sembra aver smarrito l’immaginazione collettiva, non significa indulgere nella nostalgia. Significa riattivare una memoria che può ancora fecondare il presente. Chiedersi: cosa resta di quella forza? Come possiamo oggi reinventarla, senza scimmiottarla, senza museificarla?
La Fabbrica del Vapore, con la sua architettura industriale riconvertita alla cultura, è lo spazio perfetto per questo attraversamento. I suoi muri hanno visto la fatica, il rumore, l’organizzazione del lavoro. Ora accolgono il silenzio sospeso dell’arte, il fruscio del ricordo, la voce tenue ma testarda di chi non vuole che tutto si riduca a celebrazione. Il vero omaggio, qui, non è alla nostalgia ma alla possibilità: la possibilità che anche oggi si possa, in altre forme, “giocare a fare Woodstock”. Non per rifare il passato, ma per trovare nuove forme di comunità, di festa, di disobbedienza creativa.
E allora ci si ritrova a camminare tra le immagini, e qualcosa accade. Non solo si guarda: si sente. Una musica lontana, forse. Un vento negli occhi. Un’eco che non si è spenta. Un nodo alla gola che è fatto di riconoscimento, di malinconia e di speranza. È lì che la mostra compie il suo vero miracolo: non nel mostrare ciò che è stato, ma nel farci desiderare, ancora una volta, ciò che potrebbe essere.
Chi oggi percorre le sale della Fabbrica del Vapore, avvolto dalle immagini di Minotti, non entra semplicemente in un tempo passato: entra in una domanda ancora viva. Quelle fotografie ci interpellano. Non ci chiedono solo di ricordare, ma di confrontarci. Che ne è oggi di quell’energia collettiva? È possibile immaginare una nuova forma di comunità artistica e politica, fuori dai meccanismi del consumo e dello spettacolo? Esiste ancora lo spazio per una ribellione poetica che non sia solo reazione ma invenzione?
La risposta, forse, non sta tutta in un’immagine. Ma in ciò che avviene tra noi e quell’immagine: nello sguardo che la riceve, nella memoria che si riattiva, nel desiderio che risorge. Si giocava a fare Woodstock diventa così un invito – silenzioso ma potente – a non dimenticare che ogni utopia, anche quando sembra fallire, lascia semi. E che forse oggi, in un tempo confuso e frammentato, quei semi possono ancora fiorire. Magari altrove, magari con altri linguaggi. Ma con la stessa ostinata voglia di esserci. Di risognare insieme.