Il suo volto, la sua maniera di avvicinarsi, quella torsione del busto e dello sguardo che lo rendeva tanto familiare quanto irraggiungibile, non appartenevano più alla realtà, ma a un regno opaco, a un sogno che si è dissolto al mattino. Le mani che una volta cercarono la mia solitudine, adesso erano solo frammenti di una memoria sbilenca. Una smorfia. Una luce riflessa. Una linea dimenticata. La voce, rauca, profonda, impastata di promesse e di richieste non dette, non mi parlava più, ma restava, come restano le ombre sotto le palpebre dopo aver fissato troppo a lungo il sole. Ogni mattina mi alzavo come se fossi passato attraverso una morte piccola, muta, eppure necessaria. Non sapevo bene cosa stessi lasciando indietro. Ma lo lasciavo. Era come lasciar andare un nome da una preghiera, come spegnere una candela dimenticata: nessuno se ne accorge, ma la stanza cambia luce, e anche l'aria sembra accorgersene.
Un tempo credevo che chi sogna di fuggire conservi in sé una scintilla invincibile. Ma quel giovane che sognava – o fingeva di sognare – era ormai intrappolato nelle sue stesse fughe. La sua energia, che un tempo mi aveva incantato, ora sembrava una gabbia dorata, una vertigine che non portava da nessuna parte. Mi chiedevo, giorno dopo giorno, se fossi io a inseguirlo ancora o se fosse lui, con sottile perizia, a tenere tesi i fili che mi trattenevano come un pupazzo stanco. Non riuscivo più a distinguere se l’amore era stato una promessa o un inganno. Se mai fosse stato amore. Forse era solo una parola pronunciata a bassa voce, senza convinzione, mentre fuori pioveva e dentro le nostre vite cominciavano già a disfarsi.
Eppure tornava. Tornava di tanto in tanto, come tornano le allucinazioni nei sogni febbrili, con il suo passo greve, la voce impastata, il lessico di chi ha visto troppo e non ha più voglia di raccontare davvero. Portava oggetti, reliquie del suo mondo: un portachiavi rotto, un mozzicone di candela, una lettera strappata a metà. Ma non parlavamo più del passato, né dei frammenti che ci univano. Parlava di chi era andato via, di chi aveva deciso di scomparire, di chi si era lasciato assorbire dal nulla. E io ascoltavo. Senza replica, senza replica possibile. Era come guardare un relitto parlare con la voce dell’acqua. E quell’acqua aveva la voce rauca di tutte le partenze, di tutte le porte sbattute, di tutti i ritorni avvelenati.
Le sue parole si infilavano nei silenzi con la precisione di una cucitura. E poi, una sera, mentre fuori il mondo sembrava implodere in una primavera prematura e malata, disse: "Ho messo il cencio in una scatola trasparente." Rimasi immobile. "Non per venerarlo. Per ricordarmi che anche il dolore, se lo guardi da fuori, diventa geometria." Non capii subito. Forse non compresi mai del tutto. Ma sentii, in quelle parole, qualcosa di irreversibile. Come se avesse smesso di tentare di fuggire dal dolore, e avesse invece deciso di trasformarlo in una forma. In un oggetto. In una linea. In un volume che non faceva più male. Solo memoria. Solo la cornice sbiadita di un grido che non riesce più a farsi sentire.
Mi domandavo spesso se fossi io a cambiare, o se fosse il tempo, con la sua capacità corrosiva, a modificare la materia stessa dei nostri legami. Non parlava più di sogni, ma di resti. Frammenti. Rottami dell’anima. Ma qualcosa, nel suo volto, che un tempo era impenetrabile come una porta chiusa da decenni, sembrava ora più aperto. Più fragile. Più umano. Forse era finalmente nudo. O forse era solo stanco. Ma in quella stanchezza c'era qualcosa di più vero di qualunque parola avesse mai detto.
Poi giunse una primavera senza fiori. Una primavera sbiancata, spenta, fatta solo di suoni spenti e odori secchi. I fiori, se c’erano, erano diventati invisibili. O forse eravamo noi a non poterli più vedere. Nulla sembrava in grado di risvegliare la corrente sotterranea che ci aveva uniti. Era tutto spento. Quel sabato, mentre pulivo una libreria impolverata, trovai un biglietto. Non lo ricordavo. Era incastrato tra due libri che avevano significato molto per me, un tempo lontano. Era scritto a mano, in una grafia che un tempo mi apparteneva e che ora mi sembrava quella di un altro:
"Se sparisco, non seguirmi. Non ci sarà nulla da vedere. Solo la traccia di una corsa nel fango. Tu, invece, resta. Raccogli. Ricomponi. Qualcuno verrà."
Lo lessi una volta, poi ancora, e poi ancora. Alla terza lettura, qualcosa scattò. Non era un addio. Era una legge. Un imperativo. Una scelta obbligata. Mi ordinava di restare, di osservare, di ricostruire. Come un architetto del relitto, come un restauratore di rovine. Non potevo più fuggire. Dovevo restare, per assistere. Restare per essere testimone di ciò che non si vede più, ma che continua a esistere nel silenzio.
Il giorno dopo andai al cimitero. Il marmo, bianco e liscio, sembrava galleggiare nell’aria. Nessun nome. Nessuna foto. Solo la pietra. Quasi che nemmeno la morte volesse ricordarlo. Mi inginocchiai. Sentii il gelo della terra contro le mani, quel gelo che non consola, ma respinge. Eppure rimasi lì. Come se un legame invisibile mi costringesse. Non era amore. Non era dolore. Era qualcosa di più primitivo. Forse una memoria incarnata, qualcosa che ci trattiene oltre la volontà. Qualcosa di animale, di atavico, come il richiamo del sangue o il suono di una parola dimenticata che torna all’improvviso in una lingua estinta.
Decisi, lì, inginocchiato, che era finita. Sotto la terra, lui non c’era più. Sopra, nemmeno. E nei sogni, solo echi. Eppure il legame restava. Il filo, anche se spezzato, aveva lasciato una cicatrice. Un’impronta.
Mi alzai lentamente. Ogni passo era una conquista e un addio. Ogni passo verso l’uscita era un passo verso la libertà. Una libertà faticosa, sottile, fragile. Ma vera. Era la libertà di esistere di nuovo, di camminare, di guardare il mondo senza ombre che mi inseguivano. Di respirare senza pensare a chi non respirava più.
Tornai a casa. Chiusi la porta. La luce nella stanza sembrava nuova, più ariosa, più onesta. Presi tutte le lettere. Le raccolsi con calma, una per una. Le infilai in una busta grande. Sulla busta scrissi: “Ai posteri che non ci somiglieranno mai.” Non tremavo. Non piangevo. Non c’era più paura. Le gettai nel camino. Le fiamme le presero subito. E il silenzio che ne seguì fu il più denso che avessi mai conosciuto.
Non ricordavo più il suo odore. Non il suono della sua risata. Non le curve del suo corpo.
Ma sapevo che non avrei mai più camminato curvo.
Quella figura, quel volto, quella ombra, era stato il mio maleficio. E ora, finalmente, era solo un oggetto vuoto. Un cencio. Un simbolo spento. Un nome senza corda. Un vuoto che non aveva più il potere di chiamarmi a sé.
Accadde poi che, nei giorni successivi, non accadde nulla. Ed era proprio quel nulla a occupare la stanza, a riempire i corridoi del pensiero, a camminare sulle pareti come un’ombra che non faceva paura, ma neppure compagnia. Il silenzio, una volta conquistato con fatica, cominciò a farsi materia viva, quasi presuntuosa. Gli oggetti di casa iniziarono a reclamare attenzione, come se avessero aspettato a lungo quel momento per parlare. La sedia di vimini, rotta da anni, pareva suggerire una nuova disposizione dell’arredo, come se solo ora potesse rivelare la sua vera funzione: quella di rimanere vuota, testimone discreta di un’assenza non più dolorosa ma necessaria.
Nel pomeriggio, il sole filtrava attraverso le tende con una timidezza che prima non avevo notato. Era luce che non pretendeva di illuminare tutto, ma che si fermava sui dettagli, sugli spigoli delle cose, su un libro lasciato a metà, sulla polvere che danzava come se fosse finalmente libera dal giudizio. Mi accorsi che il mondo non aveva bisogno di spiegazioni. Che il vuoto, quella grande parentesi che avevo tentato di colmare con la memoria, aveva iniziato a parlare una lingua diversa: la lingua dell’attesa senza pretesa, del tempo che non chiede più conto.
Un giorno, senza pensarci troppo, uscii. Le strade erano le stesse, ma non lo erano più. Avevano perso la voce del ricordo, e si erano liberate dal loro compito di condurmi verso qualcosa di noto. Camminavo come se fosse la prima volta, senza fretta, senza destinazione. Ogni angolo era un battesimo, ogni volto sconosciuto una promessa che non pretendeva nulla in cambio. Mi fermai a guardare una vetrina con delle fotografie in bianco e nero. Una serie di volti — alcuni sorridenti, altri assorti, altri ancora sfocati — mi restituivano un senso di continuità. Non conoscevo nessuno di loro, ma mi sembrava di averli aspettati da sempre.
Tornato a casa, provai a scrivere. Non per qualcuno, non per un ricordo. Solo per il gesto stesso di scrivere, per sentire la mano che scorre sulla carta, il suono della penna, la fragilità del tratto. Scrissi una frase: “Non c’è più niente da perdonare.” E poi mi fermai. La lasciai lì, a galleggiare sul foglio come un relitto silenzioso. Non dovevo più spiegare nulla a nessuno. La colpa, il rancore, la nostalgia — tutte quelle voci si erano allontanate, come ospiti che si congedano senza fare rumore, consapevoli di non essere più necessari.
La sera, mentre sorseggiavo un tè ormai tiepido, mi venne in mente un dettaglio apparentemente insignificante: il modo in cui il vento sollevava il lembo del suo cappotto. Era un ricordo che non portava con sé dolore, né desiderio. Solo un’immagine, scollegata, leggera, che passava e poi svaniva, come fanno certe nuvole nei pomeriggi di fine estate. Capì allora che avevo smesso di cercarlo. Non c’era più nulla da trovare. Nemmeno lui.
Cominciai a dedicarmi a piccole cose: sistemare i cassetti, cucire un bottone, piantare semi in un vaso. I gesti minuscoli, dimenticati, si ripresero il loro posto. Non chiedevano grandi riflessioni, solo presenza. Fu forse in quei momenti che compresi che il vero abbandono non era stato quello dell’altro, ma quello di me stesso. Per troppo tempo avevo cercato il senso di ciò che era accaduto in una direzione sola, dimenticando che si può anche restare — e rinascere — senza bisogno di un epilogo.
Una notte, senza sapere perché, uscii sul balcone. Il cielo era limpido, quasi aggressivo nella sua vastità. Le stelle sembravano vicine, ma non intime. Pensai che in fondo tutto ciò che avevo perso era solo tornato al suo posto: fuori da me, nel mondo, nel flusso delle cose. Nulla mi apparteneva più. E questo, ora lo sapevo, era una forma altissima di libertà.
Fu durante una di quelle mattine disattente, mentre aprivo le finestre come si fa con le pagine di un libro già letto mille volte, che accadde. Non un evento straordinario, non un gesto eclatante — solo un bussare alla porta. Tre colpi. Secchi, misurati. Così diversi dai rumori consueti del palazzo, così intenzionali da sembrare scelti, quasi intonati a una cadenza dimenticata.
Aprii. Davanti a me, un corpo in controluce. Non giovane, non vecchio. Né uomo né donna, o forse entrambe le cose, o forse nessuna. Indossava un soprabito grigio, troppo pesante per la stagione, e portava un piccolo zaino consumato. Non parlò. Estrasse dal taschino una busta e me la porse. Il gesto era calmo, quasi cerimoniale. E poi, senza una parola, si voltò e scese le scale, lasciandomi lì, sulla soglia, con quell’enigma di carta tra le dita.
Chiusi la porta. Per un attimo pensai di non aprirla. Di lasciarla lì, a testimoniare l’ennesima possibilità interrotta. Ma la aprii. E dentro, con una grafia minuta e irregolare, c’era scritto: "Hai finito di dimenticare. Puoi ricominciare a ricordare."
Rimasi fermo, come se quelle parole mi avessero colpito al petto. Non capivo da dove venissero, né a chi fossero destinate, ma mi scivolarono dentro come una verità già saputa. Era come se qualcuno — o qualcosa — avesse deciso che il tempo dell’assenza era finito. E che ora, finalmente, poteva cominciare il tempo della presenza. Ma non quella dell’altro. La mia.
Quel giorno non feci nulla di diverso. Eppure tutto era cambiato. Le cose mi osservavano come se aspettassero una risposta, e io, per la prima volta, avevo voglia di darla. Non per ricomporre il passato, ma per offrirgli un altare silenzioso, su cui deporre ogni frammento senza giudizio. Cominciai a scrivere di nuovo, ma stavolta non per trattenere. Scrivevo per lasciare andare. Ogni parola era un addio, ma anche una radice.
Fu in quel tempo che iniziai a uscire ogni giorno, senza meta, ma con un quaderno in tasca. Scrivevo nei bar, sulle panchine, nei corridoi delle biblioteche, sotto le pensiline della pioggia. Scrivevo ciò che vedevo, ma anche ciò che mancava. Una volta, sul retro di un vecchio scontrino, annotai: “Forse non tornerà mai. Ma io posso restare.” E con quel gesto semplice, compresi che l’attesa era finita. Non perché fosse arrivato qualcosa, ma perché non ne avevo più bisogno.
Poi, accadde ancora. Una sera, mentre camminavo lungo il fiume, vidi una figura seduta sul parapetto, le gambe penzoloni nel vuoto. Mi fermai a distanza, osservando il modo in cui il corpo si curvava verso il buio. Era un gesto che conoscevo. La curva del dubbio, dell’incertezza, dell’interrogazione sul senso. Mi avvicinai piano, senza fare rumore, come si fa con gli animali feriti.
“Posso sedermi?” chiesi.
La figura non rispose, ma fece un cenno con la testa. Mi sedetti accanto, e restammo così. Due solitudini che non si chiedevano nulla, ma si permettevano. Dopo un tempo indefinito, disse solo: “Non so se scendere o tornare indietro.” La voce era neutra, come se fosse stata conservata in un’eco.
“Puoi restare ferma,” dissi. “Anche questo è un movimento.”
Si voltò. Non conoscevo quel volto, eppure mi sembrava speculare. Non identico, ma affine. Come se abitassimo la stessa riva dello stesso lutto, ma con pronunce diverse. Restammo lì fino a che le luci della città si accesero, una ad una, come occhi che finalmente si chiudono per dormire.
La notte camminai a lungo. Sapevo che non ci sarebbe stata una fine vera. Ma avevo imparato che alcune partenze non servono a fuggire: servono a tornare. Non in un luogo, non in un volto, ma in una disposizione. Quella che ti permette di esserci, anche quando nessuno ti guarda.
E ora che ho ricominciato a ricordare, so che non tornerà nulla di ciò che fu. Ma tornerò io. Un po’ diverso. Un po’ più vero. E, finalmente, presente.
Fu allora che cominciarono a comparire i segni. Non erano miracoli, né apparizioni. Erano discreti mutamenti del quotidiano, come se la realtà, stanca di ripetersi, cominciasse a infilare piccoli inciampi nel suo stesso copione. Un pomeriggio, trovai sulla mia scrivania una piuma che non c’era mai stata. Bianca, sottile, quasi trasparente, come se l’avesse persa un uccello che vive solo nei sogni degli insonni. Nessuna finestra era aperta. Nessun volatile poteva essere entrato. Eppure c’era.
Il giorno dopo, nel portone del palazzo, notai un biglietto affisso con un pezzo di scotch ingiallito. C’era scritto solo: “Non ricordare tutto. Ricorda bene.” Nessuna firma. Nessuna data. Ma la grafia era la stessa della busta ricevuta. Un’altra soglia che si apriva, un altro invito a non cercare tutto, ma solo l’essenziale. Quello che si è salvato, nonostante.
Cominciai a tenere un diario delle apparizioni. Non tanto per capirle, quanto per non perderle. La piuma, il biglietto, un fiore cresciuto tra le fessure del pavé davanti casa, in pieno dicembre. Un giorno, nel treno delle 17:42, una donna accanto a me canticchiava una melodia che avevo dimenticato, ma che subito riconobbi come mia — era la ninna nanna che, da bambino, inventavo sottovoce per addormentarmi da solo. Mi voltai. La donna mi sorrise come se sapesse. Ma non disse nulla, scese alla stazione successiva e sparì tra la folla.
Era come se qualcosa stesse lentamente ricucendo lo strappo. Ma non lo faceva con fili vistosi, né con ago e precisione. Lo faceva come fa il tempo quando smette di curare e comincia a tessere. Non guariva. Riportava.
Poi, una sera, nel sonno, sognai di entrare in una casa che non avevo mai visto ma che conoscevo perfettamente. C’era un corridoio lungo, tappezzato di specchi, ma ogni specchio rifletteva una versione diversa di me. Uno era vestito da bambino, un altro da vecchio, uno rideva, uno piangeva, uno si nascondeva dietro un ombrello nero. Li guardai tutti, e uno per uno, li accarezzai con la punta delle dita. Ogni dito lasciava sul vetro una lieve scia luminosa, come se avessi dita di fuoco tenue.
Alla fine del corridoio, una porta socchiusa. La aprii, e dentro c’era una stanza vuota. Solo un foglio sul pavimento. C’era scritto: “Sei sempre stato tu. Persino quando non c’eri.”
Mi svegliai piangendo. Ma non era dolore. Era una specie di nostalgia della completezza. Come quando si sogna di poter volare e poi ci si sveglia col corpo pesante, ma si sorride lo stesso.
Da quel giorno, i segni si fecero più rari. Non sparirono, ma si quietarono, come se avessero compiuto il loro compito. E io cominciai a vivere in modo diverso. Non cercando più. Ma accogliendo. Anche l’assenza. Anche l’errore.
Una sera, seduto sulla stessa panchina del fiume, sentii una voce alle spalle: “Non aspettavi nessuno, vero?” Non mi voltai subito. Sorrisi. Non per chi era lì, ma per ciò che ero diventato. Poi risposi: “No. Ma sono contento che tu sia arrivato.”
E allora cominciò il vero ritorno, quello che non ha più le forme del rientro, né la nostalgia del punto d’origine. Un ritorno che non chiede conferme, che non assomiglia a ciò che si era lasciato. Era un ritorno non verso, ma in. Non un luogo, non una persona, ma uno stato dell’essere che aveva atteso silenziosamente, come una conchiglia sepolta nella sabbia.
Il fiume, che sempre avevo guardato dalla riva, prese a parlarmi con una voce che non aveva suono, ma ritmo. Scandiva i battiti come sillabe liquide: sei, stato, qui, sempre. Non era un rimprovero, né una benedizione. Era un dato di fatto, come la gravità. Come la luce che al tramonto si stira sugli oggetti e li carezza prima di lasciarli scomparire.
Cominciai a notare come tutto ciò che prima sembrava casuale ora avesse una geometria segreta. Le crepe sul muro della mia stanza formavano una mappa. Le foglie cadute sull’asfalto tracciavano linee che, seguite, portavano a luoghi dimenticati — una fontanella che non ricordavo più, un cancello sbilenco, un lampione spento che un tempo faceva luce su due mani intrecciate. Tutto era memoria, tutto era ritorno.
Ma il corpo… il corpo cambiava. Si alleggeriva in alcuni punti, si faceva pietra in altri. I sogni notturni si infittivano, non più caotici ma disposti come una processione silenziosa di archetipi, ognuno con la sua lanterna. C’era chi mi offriva un frutto tagliato a metà, chi mi insegnava a camminare sulle mani, chi mi guardava senza occhi, ma mi vedeva tutto. Una notte, nel sogno, attraversai un campo innevato e ogni mio passo lasciava impronte calde che facevano germogliare fiori. Mi voltai, e dietro di me era primavera.
Fu lì che compresi: il ritorno non è mai verso il passato, ma verso una versione di sé che ha atteso il tempo giusto per sbocciare. Non si torna indietro. Si torna interi.
I segni allora si fecero interni. Non più oggetti, ma intuizioni. Come un respiro che precede la parola. Come il silenzio tra due note. In mezzo alla strada, un cane randagio mi guardò e non abbaiò. Fece un cenno col capo, come se mi riconoscesse. Io feci altrettanto. Non ci fu bisogno di seguirci. Eravamo già insieme, nella stessa zona invisibile della comprensione.
E, come in una lenta alchimia, il tempo si trasfigurò. I giorni non si contavano più, ma si assaporavano. Le ore si svuotavano dell’urgenza e si riempivano di ascolto. Ogni gesto diventava un’offerta. Ogni parola, un ritorno al respiro da cui era nata.
Ora, mentre scrivo, la luce entra obliqua dalla finestra. Una polvere dorata danza nell’aria. E capisco che non si tratta più di attendere qualcosa. Si tratta di essere quel qualcosa. Di diventare soglia, piuma, parola lasciata su un foglio. Di farsi presenza nonostante tutto, anche nella sparizione. Anche nell’addio.