venerdì 16 maggio 2025

L’icona e la ferita: Beuys e Warhol tra aura, simulacro e dispendio (divagazioni intorno a una foto)

Il celebre scatto di Nino Lo Duca che immortala Andy Warhol accanto a Joseph Beuys si impone non solo come documento iconografico di una stagione dell’arte ormai mitica, ma come un vero e proprio dispositivo critico visivo, una riflessione incarnata – silenziosa e folgorante – sulla frattura tra due concezioni del gesto artistico, due antropologie opposte e forse inconciliabili. Warhol e Beuys, nel momento in cui si lasciano catturare dallo sguardo del fotografo, non stanno semplicemente “posando”; stanno, consapevolmente o no, agendo una teoresi, offrendosi come emblema incarnato di due forme di potere simbolico. Lo Duca, testimone e catalizzatore, si limita a mettere a fuoco: a fissare un momento che non è mai stato, e non sarà mai più, replicabile. Eppure, proprio nella sua unicità, quell’istante diventa esemplare.

Andy Warhol, con la sua maschera d’alabastro e i tratti quasi svuotati di ogni emozione, porta in scena l’idea di un’arte che ha smarrito la trascendenza per abbracciare il simulacro. Nelle sue mani l’oggetto artistico diventa “prodotto”, ma senza che questo significhi banalità: come ha osservato Jean Baudrillard, Warhol non si limita a rappresentare l’America consumistica, la duplica, la moltiplica, la espone al quadrato, fino a produrre l’implosione del significato. Le sue Marilyn, le sue Campbell’s Soup, i suoi Mao Zedong, sono immagini-cadavere che sopravvivono alla loro referenza: icone che hanno cessato di significare per esistere come puri eventi ottici. Warhol è il trionfo della superficie assoluta, quella che Arthur Danto chiamerà “la fine dell’arte” non come morte, ma come dissoluzione della distanza tra arte e non-arte.

Joseph Beuys, al contrario, incarna l’ultimo tentativo di restituire all’arte una funzione salvifica, quasi teurgica. Ex soldato ferito, mitopoieta di se stesso, Beuys costruisce attorno alla propria biografia una liturgia: il grasso, il feltro, la lepre morta sono i suoi strumenti di una pedagogia sciamanica, che attinge tanto alla spiritualità antroposofica di Rudolf Steiner quanto a una profonda riflessione sull’energia vitale e sulla trasformazione. Per Beuys l’artista non è un produttore di immagini, ma un agente alchemico: “Ogni uomo è un artista”, dichiara, intendendo che il gesto creativo può (e deve) contaminare la vita intera. In questo senso, Beuys è figlio di una linea tedesca tragica e prometeica, quella che da Novalis arriva a Nietzsche, passando per Hölderlin e lo spirito di Jena. Dove Warhol dissolve il corpo nel logos dell’industria culturale, Beuys lo ri-sacralizza, lo reintegra nel ciclo ferita-guarigione, morte-rinascita.

Eppure, nella fotografia di Lo Duca, i due non appaiono in conflitto: stanno fianco a fianco, come due sacerdoti di culti opposti che per un attimo si riconoscono. Warhol osserva Beuys con l’aria di chi contempla un oggetto d’arte, ma forse anche con una punta di ironico rispetto. Beuys, invece, sembra immerso nel suo mondo interiore, non meno costruito e ritualizzato di quello dell’artista americano. La distanza tra i due non è solo fisica: è ontologica. Ma la macchina fotografica riesce, per un attimo, a conciliare l’inconciliabile. Come nel celebre esperimento di Schrödinger, i due artisti sembrano coesistere in uno stesso spazio quantico, sospesi tra presenza e assenza, icona e reliquia.

A ben guardare, è l’intera storia dell’arte del Novecento a pulsare in quell’incontro. Il formalismo di Greenberg, l’avanguardia come rivoluzione permanente, la critica situazionista, la dissoluzione dell’aura di cui parlava Benjamin: tutto si rifrange nel silenzio eloquente dello scatto. Warhol e Beuys, così lontani nelle premesse, così diversi nel linguaggio, condividono però un fatto fondamentale: entrambi hanno rotto il recinto dell’atelier, entrambi hanno fatto della propria immagine pubblica un’estensione dell’opera, entrambi hanno trasformato la propria esistenza in una drammaturgia politica dell’arte. Hanno entrambi – per vie diverse – anticipato il presente, in cui l’artista è performer, influencer, terapeuta, brand.

E allora, forse, l’intuizione più profonda di Lo Duca non sta solo nel cogliere un incontro, ma nel mostrarci un paradosso fertile: che fra superficie e profondità, fra glamour e trauma, fra consumo e cura, corre una linea sottile che l’arte non smette mai di attraversare. In questo senso, il suo scatto non è il ritratto di un’epoca finita, ma una domanda ancora aperta: che cosa resta dell’arte quando tutto è già stato detto?

Per penetrare ancora più a fondo la tensione inscritta nello scatto di Lo Duca, possiamo ricorrere ad alcuni tra i pensatori che meglio hanno interrogato lo statuto dell’opera d’arte nel contemporaneo: Arthur Danto, Peter Sloterdijk, Giorgio Agamben. Ognuno di loro ci offre una lente particolare per comprendere come i corpi di Warhol e Beuys, messi in scena nella fotografia, non siano solo “presenti”, ma agiscano come forme di pensiero incarnato. Lo scatto diventa, così, un palinsesto filosofico.

Arthur Danto, nel suo saggio fondamentale The Transfiguration of the Commonplace, sostiene che, dopo Warhol, l’arte non può più essere definita attraverso il suo aspetto formale o attraverso il suo statuto materiale, ma soltanto attraverso un quadro teorico e storico: è la “narrazione” che rende qualcosa arte. Warhol, con le sue Brillo Boxes, aveva dimostrato che la differenza tra una scatola di detersivo e un’opera d’arte identica a essa non è visiva, ma concettuale. Danto parla infatti di “fine dell’arte” non come catastrofe, ma come ingresso nella filosofia dell’arte: una fase poststorica in cui l’arte diventa pensiero visivo.

Warhol, in questo contesto, diventa l’emblema dell’arte poststorica: la sua presenza nella foto, impassibile, algida, è la presenza di un uomo che ha smesso di cercare l’autenticità per farsi superficie riflettente, puro enigma. La sua persona è indistinguibile dalla sua opera; e proprio per questo, Warhol conferma la tesi di Danto: l’arte è ciò che accade quando un oggetto o una persona vengono trasfigurati dal contesto e dalla coscienza storica.

Beuys, invece, è colui che resiste a questa trasfigurazione concettuale, e si colloca in una genealogia in cui l’arte resta gesto vitale, intervento nel reale, ancora intriso di pathos e di necessità. Ma proprio qui si apre un altro varco interpretativo, se lo osserviamo alla luce di Peter Sloterdijk.

Nella sua monumentale Sferologia, Sloterdijk analizza come l’essere umano costruisca continuamente sfere di senso e di protezione, bolle esistenziali e culturali in cui abitare. L’arte, in questa prospettiva, è una tecnica immunitaria, una membrana attraverso la quale l’uomo si difende dall’assenza di significato. Beuys è, allora, colui che fabbrica nuove sfere attraverso simboli arcaici, materiali grezzi, rituali personali che rimandano a un’idea di comunità perduta ma sempre invocata. La sua azione artistica – “Come spiegare le opere d’arte a una lepre morta” – è un rito di reintegrazione simbolica: non si spiega l’opera, la si comunica con il corpo, con il calore, con il mistero.

Warhol, al contrario, abita una sfera completamente diversa, fatta di superfici riflettenti, di ripetizioni anestetiche, di fredda ironia. È il trionfo di ciò che Sloterdijk chiama la schiuma contemporanea: una società fatta di singolarità isolate, bolle che non comunicano tra loro se non tramite segnali brevi, pubblicitari, virali. L’incontro tra Warhol e Beuys, allora, non è solo un incontro tra due artisti, ma tra due modelli di mondo, due architetture immunitarie: la “tenda di feltro” e la “Factory”.

Ma è con Giorgio Agamben che questa fotografia acquista una dimensione ulteriore, quasi escatologica. Agamben, ne L’uomo senza contenuto e in Che cos’è un dispositivo?, ha mostrato come l’arte contemporanea sia attraversata da una perdita di destinazione. L’artista moderno – afferma Agamben – è colui che non può non fare arte, ma al tempo stesso non sa più perché la fa. Il risultato è un cortocircuito tra soggettività e forma, tra potenza e atto. Beuys incarna, in un certo senso, l’uomo che ancora crede nell’arte come compimento: ogni sua azione, ogni gesto, è un tentativo di redimere il tempo. Warhol, invece, è colui che abita la zona dell’inoperosità: non fa, ma lascia accadere, si ritrae, delega alla ripetizione la potenza dell’atto.

Per Agamben, tuttavia, è proprio in questa inoperosità che si apre una possibilità etica e politica: sospendere la funzione, svuotare il dispositivo, aprire una nuova forma di vita. In questo senso, Warhol e Beuys – apparentemente nemici – sono complici inconsapevoli: entrambi hanno portato l’arte a un punto di rottura, e l’hanno offerta al vuoto, al gesto senza garanzia.

La fotografia di Lo Duca diventa così una soglia tra due tempi: quello in cui l’arte era ancora “necessaria” e quello in cui si è fatta “possibile”. È lo spazio di un incontro mai consumato, ma eterno nella sua sospensione. Come scrive Agamben, “la potenza è ciò che può non essere”. E forse è proprio ciò che Lo Duca ci mostra: due potenze che si sfiorano, ma non si attuano. Due silenzi, due stili, due estremi che definiscono la cartografia interiore dell’arte contemporanea.

Addentriamoci ancora più a fondo nella fotografia di Nino Lo Duca, là dove l’immagine di Warhol accanto a Beuys non è più solo documento ma dispositivo rivelatore, come uno specchio nero che riflette le faglie aperte dell’arte e del pensiero. Il loro confronto può essere ulteriormente illuminato dai concetti-chiave di Georges Bataille, Gilles Deleuze e Walter Benjamin, tre pensatori che, ciascuno a modo suo, hanno fatto dell’arte un campo di tensione ontologica e politica.

Iniziamo con Georges Bataille, che ci offre una chiave essenziale: la nozione di dépense, lo spreco, la perdita, come origine stessa del sacro e del gesto umano autentico. L’arte, per Bataille, non serve a nulla: è ciò che eccede, che brucia risorse, tempo, senso. Beuys – con i suoi materiali organici, con la sua ecografia del dolore europeo – è perfettamente inscritto in questa logica della dépense: la sua arte è sacrificio, offerta, combustione simbolica, un’economia del sangue che rifà dell’artista una figura sciamanica, e della sua opera un atto di dispendio ontologico.

Warhol, invece, sembra apparentemente negare tutto questo. La sua estetica del molteplice, dell’industriale, della ripetizione seriale, pare opporsi frontalmente all’eccesso battaliano. Ma è solo in apparenza. Anche Warhol, a modo suo, brucia senso: produce immagini non per dire, ma per svuotare. Le sue serigrafie sono icone spente, feticci di un culto senza fede, e in questo si avvicinano alla logica dell’estremo. Warhol è lo spettro freddo della dépense: non l’estasi del sacrificio, ma la ripetizione del vuoto, la proliferazione cancerosa dell’immagine fino alla perdita di qualsiasi interiorità.

Con Deleuze, entriamo in un’altra costellazione. Il concetto di differenza e ripetizione è centrale per comprendere come Warhol non sia solo il pittore della riproduzione, ma un filosofo visivo della variazione impercettibile. Ogni Marilyn è diversa, anche se identica. Ogni Campbell’s Soup è unica, anche se ripetuta. È la logica del simulacro: non c’è originale, c’è solo scarto, deviazione, modulazione.

Beuys invece, nella lettura deleuziana, rappresenta la linea di fuga, il punto in cui l’organizzazione sociale, l’identità, il potere, vengono disarticolati da un gesto che non obbedisce più. L’artista tedesco desterritorializza la figura dell’artista stesso, non è più “colui che fa quadri”, ma “colui che agisce sulle forze”. Le sue azioni – come quella con il coyote o le installazioni fatte di grasso, feltro, rame – sono macchine deterritorializzanti, generatori di nuovi diagrammi sensibili.

Deleuze direbbe che Warhol e Beuys appartengono entrambi a un piano di consistenza, ma si muovono su flussi diversi: il primo sulle superfici del desiderio capitalistico, il secondo sulle zone d’intensità antropologiche. E la fotografia di Lo Duca, in quest’ottica, è una mappa rizomatica: non rappresenta, ma connette. Mostra due traiettorie divergenti che tuttavia si toccano per un istante, come due linee asintotiche.

Infine Walter Benjamin, forse il più profetico degli interpreti del Novecento artistico. In L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin formula la tesi che la riproduzione tecnica distrugga l’aura dell’opera, cioè la sua irripetibilità, la sua presenza viva. Warhol, con geniale cinismo, fa esplodere questa crisi: le sue serigrafie sono la celebrazione della perdita dell’aura, ma anche la sua trasfigurazione in merce rituale. Una Madonna non ha più potere: ma una Marilyn in serie diventa un’icona per nuovi templi profani. Warhol porta la riproducibilità all’estremo, ma in ciò ne svela il potenziale magico. Benjamin aveva intuito che anche nella riproduzione c’è una forma di culto: un culto senza culto, potremmo dire.

Beuys, invece, è l’ultimo difensore dell’aura, ma la reimmagina in forma dinamica: l’aura non è più l’unicità dell’oggetto, ma la singolarità della relazione. La lepre morta, il coyote, l’aula della conferenza, la ferita: sono luoghi auratici, ma in un senso benjaminiano rinnovato. Non si tratta di venerare l’oggetto, ma di sentire l’intensità del qui e ora, la verità del corpo nel tempo.

Così, in uno scatto solo, Lo Duca ha catturato un’intera costellazione di pensiero, il punto in cui l’arte smette di essere “una cosa” e diventa una soglia. Warhol e Beuys non si parlano. Ma si guardano. O meglio: si tollerano in quello spazio minimo che separa la superficie e la profondità, il gesto e il dispositivo, la carne e il simulacro.

Andiamo ora verso il punto simbolico di questo incontro – fissato dall’obiettivo di Nino Lo Duca – come evento messianico, nel senso più profondo e filosofico che possiamo dare al termine. Entriamo in quel tempo sospeso che Walter Benjamin chiama “Jetztzeit”, l’adesso-carico-di-tempo-messianico, il momento in cui la storia smette di essere una catena causale per rivelarsi fulminea rottura. L’incontro fra Warhol e Beuys può così essere letto non solo come aneddoto, ma come immagine dialettica, come aurora di possibilità, come ciò che, secondo Benjamin, rende leggibile il passato nel presente.

L’immagine non è semplicemente un documento del “che cosa è avvenuto”, ma una fenditura nel continuum temporale, uno squarcio. E ciò che vediamo, nella fotografia di Lo Duca, è proprio un’immagine dialettica al suo stato più puro: due profeti in disaccordo, due sacerdoti di culti incompatibili, che per un istante convergono senza fondersi. Benjamin avrebbe visto in quello scatto il volto della storia che si accende nel lampo. Beuys è la tradizione del significato, della redenzione possibile attraverso l’arte; Warhol è la tradizione interrotta, frammentata, di un’umanità che cerca salvezza nell’immagine stessa della sua caduta.

Quell’istante è carico di tempo messianico non perché prefiguri una salvezza religiosa, ma perché rende pensabile una possibilità altra. Entrambi sono figure di un’attesa, o meglio: incarnano due modalità diverse di sopportare la fine. Per Warhol, ogni cosa è già dopo la fine: egli abita l’eterno postumo, la necrofilia dell’immagine. Per Beuys, la fine è invece il punto zero della rigenerazione: la ferita che apre allo spirito, l’attrito che fa nascere il calore. Il loro incontro è come una intersezione fra due Apocalissi divergenti.

Qui potremmo evocare anche Michel Foucault, che nella sua genealogia del potere e del sapere ci offre un’altra chiave per leggere l’incontro: quello fra Beuys e Warhol è un corto circuito fra due forme di soggettivazione. Beuys incarna il soggetto che resiste, che plasma sé stesso attraverso il dolore, che fa dell’arte una forma di ascesi laica. Warhol, invece, si dissolve nel dispositivo, è l’uomo trasparente della società dello spettacolo, lo “specchio bianco” in cui il potere si riflette senza resistenza. Il loro stare assieme è allora un atto politico, quasi un’esposizione di vulnerabilità reciproca. Warhol appare disinnescato accanto a Beuys, come un Cristo pop che ha perso il martirio; Beuys, viceversa, scopre la propria figura ieratica illuminata dalla luce artificiale del simulacro.

In questo senso, il loro confronto è un contrappunto tra due parodie del sacro: da una parte, il sacro riflessivo, interiore, che cerca l’aura nel gesto; dall’altra, il sacro evaporato, che ritorna come pubblicità, come culto della superficie. Eppure entrambi – proprio come in ogni autentico evento messianico – portano con sé una promessa, una possibilità di redenzione oltre le macchine di senso. Beuys propone un’arte terapeutica, capace di guarire il corpo sociale; Warhol un’arte anestetica, capace di esorcizzare il trauma della ripetizione capitalistica attraverso la sua stessa saturazione.

E infine, tornando a Benjamin, possiamo dire che il vero evento messianico non è l’incontro in sé, ma la possibilità di pensarlo come tale. Lo Duca, nel suo scatto, attiva questa possibilità: trasforma un frammento in costellazione, una posa in allegoria. Beuys e Warhol non sono più due uomini nella storia dell’arte, ma due figure in lotta dentro di noi, due gesti che si contendono la forma futura del pensare, del creare, del sopravvivere.

La vera eredità di quell’incontro è dunque la sua inattualità: un’icona dissonante che non smette di parlare, perché non ha ancora trovato il suo interprete definitivo. In questo senso, ogni sguardo nuovo sulla fotografia – ogni tentativo di comprenderla – è già un atto messianico in sé.

Proseguo allora intrecciando l’incontro tra Beuys e Warhol con due concetti chiave e apparentemente distanti: il resto in Giorgio Agamben e la sfera in Peter Sloterdijk. Due pensatori che, in modi diversi, hanno interrogato lo spazio del vivente, la sua forma, la sua sopravvivenza, e l’intimità dell’essere esposto.

Iniziamo da Agamben, e in particolare dal concetto di resto, che attraversa opere come Il tempo che resta o Il Regno e la Gloria. Il resto per Agamben non è ciò che manca, ma ciò che eccede, ciò che non si lascia mai del tutto includere nella struttura del potere o della rappresentazione. È, in un certo senso, ciò che sopravvive alla macchina liturgica e alla cattura dei dispositivi, l’elemento inassimilabile del vivente.

Warhol e Beuys, in questo senso, sono entrambi resti, ognuno a modo suo. Warhol è il resto dell’arte dopo il mercato, l’eccesso di ripetizione che smaschera l’ideologia del nuovo. Beuys, viceversa, è il resto del sacro dopo la secolarizzazione, la persistenza residuale del rito in un mondo desacralizzato. L’incontro fra i due è dunque un’epifania del resto, qualcosa che resta fuori tanto dall’arte che consola quanto da quella che anestetizza.

Agamben suggerisce che il compito messianico è rendere operante il resto, cioè riconoscere in ciò che è scartato, dimenticato o marginale, la vera possibilità di salvezza. In questa luce, la fotografia di Lo Duca si trasforma in una sorta di targum, una parafrasi visiva di questo pensiero: due uomini marginali rispetto alle istituzioni artistiche europee – il tedesco sciamano e l’americano autistico – che si incontrano come due eccedenze inconciliabili, e proprio per questo preziose.

Passando ora a Peter Sloterdijk, il cui pensiero sulle sfere – sviluppato nei tre volumi di Sfere – ci offre un’altra via d’accesso a questa immagine. Per Sloterdijk, la vita umana è sempre in-sfera, cioè protetta da involucri simbolici e affettivi: la placenta, l’abbraccio, la casa, la lingua, la comunità. Le sfere sono microcosmi co-immunitari, che ci permettono di sopravvivere all’esposizione radicale al mondo.

Beuys, in questo senso, è un costruttore di sfere: la sua arte è sempre un tentativo di creare involucri, spazi caldi, micro-utopie energetiche. Il suo grasso, il suo feltro, i suoi rituali sono materie sferiche, gesti di immunizzazione contro il freddo del mondo tecnico-scientifico. Warhol, invece, è l’abitante di una sfera esplosa: il suo mondo è quello delle bolle d’immagine, delle superfici che riflettono ma non trattengono, che isolano ma non proteggono. La Factory è una pseudo-sfera, uno spazio post-intimo, uno spazio della proliferazione e della fuga.

L’incontro fra Beuys e Warhol è quindi uno scontro fra cosmologie sferiche differenti: da un lato la sfera calda della comunità curativa (la “social sculpture”), dall’altro la sfera fredda del capitalismo avanzato, il deserto brillante della riproduzione infinita. Sloterdijk direbbe che osservare quella fotografia è entrare in una tensione atmosferica, in un cambio improvviso di pressione simbolica.

Eppure, nel senso stesso di questa differenza, si apre uno spazio che nessuno dei due controlla: la soglia tra l’immanenza assoluta del corpo e la trascendenza svuotata dell’immagine. Beuys vuole risalire dal corpo ferito al senso; Warhol precipita dal senso all’effetto. Il primo genera calore, il secondo riflette luce. Entrambi, però, abitano sfere in crisi, mondi in decomposizione simbolica.

Sloterdijk direbbe che in loro si manifesta la nostalgia per una co-immunità perduta. E forse è questo il pathos silenzioso dello scatto di Lo Duca: non tanto l’incontro fra due giganti, ma la malinconia di due solitudini ontologiche che per un attimo si sfiorano. Come due satelliti che si attraggono senza mai fondersi.

Intrecciando tutti questi pensatori, vado avanti: Bataille, Deleuze, Benjamin, Derrida, Nancy – riattraversando l’incontro tra Warhol e Beuys come un crocevia filosofico e performativo, un montaggio di resti, soglie, ferite e ritmi, in cui ogni riferimento concettuale agisce come lente e detonatore.

Georges Bataille ci invita a pensare l’arte come esperienza del limite, come spazio di dispendio, di eccesso, di intimità col sacro che non redime, ma che espone. Beuys e Warhol, in questa ottica, sono due strategie opposte ma contigue di perdita: il primo, in cerca di una forma di reintegrazione tramite il sacrificio e la mitopoiesi; il secondo, inabissato nella neutralità glaciale del simulacro, dove l’eccesso non è espressione ma superficie.

Per Bataille, ciò che conta è l’eterogeneo, il non assimilabile, ciò che brucia senza profitto. Beuys brucia simbolicamente ogni materia (grasso, rame, lana) per rimetterla in circolo come segno di guarigione; Warhol brucia il significato stesso, consegnandolo all’indifferenza della serie. La loro immagine insieme, allora, non è solo documento: è una combustione differita. Il sacro smarrito di Beuys e il profano reiterato di Warhol formano una coppia sacerdote-pagliaccio che rovescia entrambi i ruoli.

Con Deleuze, possiamo leggere questa tensione in termini di differenza e ripetizione. Warhol incarna la ripetizione senza differenza apparente – la zuppa Campbell, le serigrafie di Marilyn – ma proprio in quella serialità la differenza si fa visibile: nei piccoli scarti, nelle imperfezioni, nei trapassi tonali. Beuys, al contrario, differisce costantemente da se stesso, è un divenire-chimico, un corpo senza organi che si ricostruisce ad ogni performance.

Deleuze ci offre un’idea potente: la vera arte non rappresenta, ma produce concatenamenti, affetti, variazioni. L’incontro fra i due artisti è una macchina astratta, un assemblaggio che fa emergere forze invisibili: il pensiero come gesto, il gesto come deviazione. Warhol sprofonda nella superficie, Beuys nell’intensità. Eppure entrambi perforano il linguaggio, Warhol col silenzio impassibile, Beuys col racconto mitico: sono due modalità dell’a-significante.

Walter Benjamin ci ha insegnato a leggere le immagini come costellazioni temporali. La fotografia di Nino Lo Duca, che li ritrae insieme, non è una foto di due uomini, ma un campo di forze, un dialektisches Bild in cui si rifrange il destino dell’arte nel Novecento: la perdita dell’aura, certo, ma anche la ricerca di una nuova redenzione profana.

Beuys cerca di reinfondere aura al gesto – trasformando l’artista in Heiler, guaritore, e l’opera in evento terapeutico – mentre Warhol assume la perdita dell’aura come condizione di produzione. È come se fossero le due ali spezzate dell’angelo della storia: Beuys guarda con rimpianto verso le rovine, Warhol è spinto in avanti dalla tempesta del progresso. Benjamin stesso avrebbe forse sorriso davanti alla loro immagine, vedendovi un cortocircuito tra culto e consumo, tra il “valore cultuale” e il “valore espositivo” che nell’opera d’arte moderna si intrecciano fatalmente.

Con Jacques Derrida, invece, ci avviciniamo alla questione della firma, della presenza e dell’archi-scrittura. Warhol smonta radicalmente l’idea di presenza dell’autore: la sua arte è una différance dell’identità, un perpetuo gioco d’assenza. La sua stessa figura diventa marchio, icona senza soggetto. Beuys, viceversa, firma ogni azione con la propria carne mitologica, con l’urgenza del testimoniare.

Eppure entrambi mettono in crisi la rappresentazione. Derrida direbbe che Beuys è un artista del tracciare, Warhol del ritrarre senza soggetto. Il primo lascia segni sulla pelle del mondo; il secondo ripete l’assenza del senso, decostruisce l’origine. E se Beuys tenta di rianimare la scrittura come scrittura vivente, Warhol la smaterializza fino a farla evaporare nella pubblicità. Ma in entrambi resta un’eco del démarche, del passo lasciato sulla sabbia prima che l’onda lo cancelli.

Infine, con Jean-Luc Nancy, possiamo parlare di essere-con, di comunità inoperosa, e di esposizione del senso. Nancy scrive che il senso non è un possesso, ma qualcosa che accade nell’apertura, nel contatto. L’immagine di Warhol e Beuys non ci dà il senso dell’arte, ma ne espone il gesto originario, che è sempre co-esistenza. Non c’è arte senza un essere-con-l’altro, anche se quell’altro è muto, estraneo, distante.

Beuys e Warhol non si comprendono forse del tutto, ma si espongono insieme. Il senso non è dentro di loro, né tra loro, ma nell’atto stesso del loro mostrarsi al mondo. Nancy direbbe: “l’opera è ciò che lascia apparire il mondo”, e questa fotografia è un mondo che si lascia attraversare dal loro essere-con – silenzioso, enigmatico, vulnerabile.

In questo intreccio filosofico, il ritratto di Lo Duca diventa allora una teologia negativa dell’arte contemporanea: mostra ciò che non si lascia dire, che sfugge, che resiste a ogni sintesi. Due artisti come due cicatrici su un medesimo corpo storico: l’uno ne riscrive il linguaggio con il grasso e il gesto, l’altro ne consuma la superficie con l’inchiostro e la moltiplicazione.

E la fotografia? È lì, muta come un’icona ortodossa, a chiederci: che cosa resta davvero di un’opera? Un’immagine? Una leggenda? Un’equazione fra i nomi?