Il brano di C.G. Jung tratto da Mysterium Coniunctionis è un passo di straordinaria densità concettuale, che andrebbe letto come una sorta di dichiarazione spirituale e filosofica sul primato dell’individuo nella costruzione del senso. In queste righe — che possono apparire austere e severe nella loro struttura, ma sono attraversate da una tensione quasi tragica — Jung articola un pensiero che attraversa tutto il suo sistema: la convinzione che solo l’individuo, nella sua irriducibile unicità, possa essere portatore di vita, di senso, di etica. Tutto ciò che è collettivo, organizzato, meccanizzato — la massa, lo Stato, le istituzioni — appare invece come qualcosa di disanimato, impersonale, privo di autentica interiorità.
All’inizio del brano, quando scrive «Di fronte alle cifre smisurate, impallidisce qualsiasi idea di individualità», Jung formula una diagnosi cupa e tuttavia lucidissima sulla condizione dell’essere umano moderno. Egli osserva come l’uomo venga sempre più ridotto a numero, a dato, a unità astratta in un sistema sempre più incline alla misurazione e al controllo. È una realtà che Jung già avvertiva nel cuore del Novecento, ma che oggi — nell’epoca dei big data, degli algoritmi predittivi, delle intelligenze artificiali che mappano e profilano il comportamento umano — suona con un’attualità addirittura bruciante. La statistica, dice Jung, cancella ogni unicità. Non la combatte, non la sfida, ma semplicemente la sbiadisce, la fa scomparire in un’astrazione: ciò che conta, nella logica statistica, è la curva, non il punto; la massa, non la voce singola.
Ed è proprio in questo passaggio che l’individuo si trova smarrito, imbarazzato a esistere, dice Jung con un’espressione folgorante. Come se la sola esistenza personale, in quanto non quantificabile, non utile, non ripetibile, diventasse quasi un’imperdonabile eccentricità. L’individuo, se non trova uno spazio interiore o culturale dove essere riconosciuto nella sua irripetibilità, è indotto a percepirsi come errore, come anomalia. Questa è forse una delle tragedie più profonde della modernità.
Ma è proprio qui che Jung ribalta la prospettiva e rilancia, con forza, una visione in cui l’individuo è la sola sorgente del vivente. “È soltanto lui a provare felicità, è solo lui a essere dotato di virtù, di responsabilità e di etica.” Questa frase è centrale, e andrebbe scolpita nei portali delle università, dei parlamenti, delle scuole. L’etica, il senso di responsabilità, non sono qualità collettive. Non appartengono allo Stato, né a una moltitudine astratta. Sono esperienze interiori, che prendono forma solo nell’anima viva di una persona che sente, pensa, si pone domande.
La massa e lo Stato, scrive Jung, “non hanno nulla di simile”. Sono macchine, strumenti di gestione, di organizzazione. E una macchina, per quanto utile o perfetta, non è mai viva. Non può provare pietà, dubbio, empatia. Non può scegliere il bene per sé, ma solo secondo la logica di un funzionamento programmato. Così, l’individuo viene posto da Jung come il vero luogo della realtà, dell’etica, del mistero e della trasformazione. Tutto il suo pensiero analitico, tutto il viaggio nel Sé, nella psiche profonda, nella dialettica tra coscienza e inconscio, tende a restituire al singolo il potere di essere l’autentico protagonista della propria esistenza e, per estensione, del destino collettivo.
Il passo si conclude con un’accusa durissima, che ha qualcosa di biblico nel tono: “Chi nelle cose umane pensa meno in termini di individuo che in termini di grandi cifre [...] è divenuto un predone e un ladro rispetto a se stesso.” Qui Jung non si limita a descrivere una condizione psicologica o sociale, ma enuncia un vero peccato spirituale: colui che rinuncia al pensiero dell’individuo — in sé e negli altri — diventa un traditore della propria anima. Ha rubato a se stesso la possibilità di vivere in pienezza. Ha scelto la dissoluzione nel numero, nella quantità, nella funzione, invece di restare saldo nel mistero — faticoso ma inestimabile — della propria unicità.
Questo brano andrebbe letto come una critica tanto alla modernità disumanizzante quanto a ogni ideologia che tenti di sottomettere l’individuo all’astratto, sia esso lo Stato totalitario, l’ideologia tecnocratica, o anche solo il culto della produttività. Ma è anche, e forse soprattutto, un appello. Un richiamo alla responsabilità di non lasciarsi dissolvere. Di resistere come individui, con tutto ciò che ne deriva: gioia, fatica, consapevolezza, cadute, ma anche possibilità di salvezza. Per Jung, solo l’individuo può trasformare sé stesso, e attraverso sé stesso — come in un alchimia — anche il mondo.
Collegare il brano di Mysterium Coniunctionis con la riflessione di Jung sul pericolo dei totalitarismi significa entrare nel cuore stesso del suo pensiero filosofico e psicologico più profondo: quello che riconosce nell'individuo l’unica vera barriera contro le derive distruttive della collettività impersonale. Non è un caso che Jung dedichi un intero saggio, The Undiscovered Self (1957), proprio al tema della minaccia rappresentata dai regimi totalitari, che considera il frutto maturo di un processo degenerativo iniziato con la dissoluzione del significato interiore dell’individuo nella società di massa.
Nel passo che abbiamo esaminato, Jung denuncia con chiarezza come la logica delle “cifre smisurate” e della statistica porti alla cancellazione dell’individuo come centro irripetibile di coscienza. Questo processo di astrazione e spersonalizzazione è, per Jung, uno dei presupposti psicologici essenziali per l’affermazione del totalitarismo. Egli osserva che più l’individuo è svuotato della propria interiorità, più è incline a cercare rifugio in appartenenze collettive, in ideologie totalizzanti che offrono una sicurezza esteriore a scapito dell’autonomia interiore. Il totalitarismo, in questa chiave, è un sintomo — un’espressione patologica — di una crisi più profonda: quella dell’individuazione mancata.
Nel The Undiscovered Self, Jung scrive con fermezza che lo Stato moderno, quando diventa assoluto, tende a sostituirsi alle funzioni religiose e spirituali tradizionali. Diventa una sorta di divinità laica, dotata di un potere illimitato sull’esistenza dei suoi cittadini. Non è un’analisi solo politica, ma ontologica: l’individuo, privato di un centro spirituale, proietta su un’entità esterna (lo Stato, il Partito, il Capo) quelle qualità divine che ha disimparato a riconoscere in sé. Si produce così un’inversione pericolosissima: l’etica, che dovrebbe essere una voce interiore, diventa una norma esterna imposta, e la responsabilità personale si dissolve nella cieca obbedienza.
Il brano di Mysterium Coniunctionis coglie con acume questa dinamica: lo Stato viene descritto come una macchina, una struttura meccanica priva di anima, mentre solo l’individuo è dotato di vita e di senso morale. Ma proprio perché l’individuo ha abdicato al proprio potere — la sua capacità di giudicare, di scegliere, di provare gioia e dolore in modo unico — questa macchina può operare indisturbata, classificando, ordinando, annientando ogni resistenza. Jung arriva a denunciare questo processo con parole durissime: chi rinuncia a pensare in termini di individuo è diventato un predone e un ladro di se stesso. È come se avesse barattato la propria anima con un posto nella massa indistinta.
Nella prospettiva junghiana, i regimi totalitari del Novecento — nazismo, stalinismo, fascismo — non sono soltanto sistemi politici repressivi, ma manifestazioni archetipiche del male collettivo: l’esito di un’inflazione psichica in cui l’inconscio collettivo prende il sopravvento sull’Io, e lo cancella. L’identificazione con il “noi”, l’abbandono del “sé”, produce la possibilità dell’orrore: l’individuo che non si riconosce più come soggetto morale diventa capace di compiere o giustificare qualsiasi atrocità in nome di un’entità superiore. La burocrazia dell’Olocausto, la pianificazione della fame in URSS, la logica delle purghe, sono per Jung l’esito logico di una psiche collettiva de-individualizzata.
Eppure, in questa visione profondamente tragica, Jung lascia aperta una via di salvezza. È la via dell’individuazione: il processo con cui ogni essere umano si confronta con la propria ombra, con i propri complessi, con l’inconscio, per giungere a una consapevolezza più piena di sé. Solo chi ha attraversato questo cammino può opporsi, interiormente e spiritualmente, alle tentazioni del totalitarismo. Non perché si ponga “contro” lo Stato in senso politico, ma perché ha sviluppato un nucleo etico autonomo, non delegabile, non negoziabile. In questo senso, per Jung, la libertà non è una condizione esterna, ma un risultato interiore. La libertà reale nasce dalla conoscenza di sé.
Il brano di Mysterium Coniunctionis è molto più di una riflessione sull’individuo e la statistica: è un atto d’accusa contro ogni forma di spersonalizzazione che apra le porte all’oppressione. È un’esortazione alla responsabilità interiore come unica forza in grado di resistere al dilagare delle ideologie collettivistiche e disumanizzanti. E nella visione di Jung, l’individuo non è mai solo: ogni volta che un essere umano recupera la propria verità, salva un pezzo di mondo.
Estendere il pensiero di Jung a quello di Simone Weil e approfondirne le risonanze fino a triplicare il tessuto concettuale significa inoltrarsi in un territorio spirituale ed etico di rara intensità, dove il valore dell'individuo non è semplicemente ribadito come principio politico o psicologico, ma diviene il centro di gravità di una cosmologia del senso, una visione del mondo in cui la dignità della persona emerge come unica diga contro l’annientamento operato dalla macchina impersonale del potere.
Simone Weil, come Jung, osserva con occhi lucidi e feriti la trasformazione dell’essere umano moderno in ingranaggio: entrambi vivono il trauma del XX secolo, entrambi vedono come i grandi apparati — Stato, partito, esercito, economia — si organizzino secondo una logica impersonale, cieca, che cancella la persona e la sua interiorità. Ma Weil porta questa analisi in una direzione ancora più radicale e metafisica. Se per Jung il pericolo maggiore è rappresentato dalla perdita dell’individuazione e dalla fusione con l’inconscio collettivo — che sfocia nella massa irrazionale e obbediente — per Weil il pericolo si manifesta come una mutazione ontologica: l’uomo cessa di essere soggetto di pensiero e di azione, e diventa oggetto, cosa, cifra, polvere. È la riduzione della vita umana a forza di lavoro, a numero di matricola, a variabile militare o economica. È la spoliazione del senso.
Nel celebre saggio La prima radice, Weil afferma che “la persona umana ha bisogno più ancora della giustizia, di essere trattata come un’anima”. L’analogia con Jung qui è folgorante: entrambi vedono nell’anima, nella soggettività irriducibile dell’individuo, l’unico spazio in cui si possa ancora parlare di bene e di male, di libertà, di salvezza. Ma Weil aggiunge qualcosa di ulteriore: l’anima ha bisogno di essere guardata nella sua unicità, con un’attenzione assoluta, religiosa. L’atto etico, per lei, non è la rivendicazione di un diritto, ma l’abbassamento dell’io davanti al volto dell’altro. È ciò che chiama “attenzione” — parola chiave del suo intero pensiero, e gesto che descrive come un vuoto creato dentro di sé per far posto all’esistenza dell’altro. Questa attenzione è il contrario esatto della logica totalitaria, che non vede l’individuo, lo astrae, lo calcola, lo rimuove. Per il potere, ogni persona è un dato, una funzione. Per Weil, invece, ogni persona è incommensurabile, perché portatrice di un’intimità che nessuna statistica potrà mai contenere.
Nel suo saggio Nota sulla soppressione dei partiti politici, Weil lancia un’accusa implacabile: non solo i totalitarismi, ma anche le democrazie moderne tradiscono la verità dell’individuo. Lo fanno nel momento in cui trasformano la politica in ideologia, l’adesione in appartenenza, la coscienza in disciplina. I partiti, scrive Weil, non sono strumenti di libertà, ma meccanismi di distorcimento del pensiero: nascono per imporsi, per vincere, non per cercare il vero. E l’essere umano che vi aderisce cessa di pensare: si sottomette a un dogma. È proprio qui che l’analisi di Weil tocca Jung in profondità: entrambi denunciano una psicologia della rinuncia, una patologia collettiva che nasce quando l’individuo rinuncia alla fatica del pensiero, della coscienza, e si rifugia nel gruppo, nella bandiera, nel coro.
E come Jung vede il pericolo mortale dell’inflazione dell’inconscio collettivo, così Weil individua il cuore del male nella coazione a credere, nel bisogno di identità che scavalca la verità. Per entrambi, infatti, il totalitarismo non è solo un sistema politico: è una forma dell’anima, un errore spirituale, un’idolatria. L’uomo moderno, privo di radici e di silenzio interiore, cerca surrogati: si affida a simboli vuoti, a bandiere, a liturgie ideologiche che promettono ordine e senso, ma che in realtà producono solo dissacrazione. E allora si comprende che, tanto per Jung quanto per Weil, il ritorno all’individuo non è un appello moralistico, ma un atto sacro: è il recupero del centro. È la restituzione della vita al suo ritmo proprio, alla sua misura interiore, al suo mistero.
Anche l’idea di disgrazia (malheur), che Weil elabora in testi come La pesanteur et la grâce, trova un’eco profonda nella psicologia junghiana. La disgrazia è la condizione estrema dell’anima che ha subito l’annientamento, che è stata ridotta a puro oggetto della violenza, del caso, della Storia. È lo stato dell’uomo schiavo, del deportato, del dimenticato. Ma proprio in quella nudità, in quell’assenza totale, Weil intravede un paradosso: è lì, nel fondo del dolore, che può ancora apparire il bene — un bene non umano, non programmabile, non utile. È una grazia che non salva dal male, ma lo attraversa. E se Jung vede il processo di individuazione come un confronto con l’Ombra per integrare ciò che è stato rimosso, Weil vede nella sofferenza subita senza lamento un’apertura radicale all’invisibile. Entrambi, in fondo, parlano della possibilità di una trasformazione interiore, che non passa per la redenzione collettiva ma per un cammino solitario, bruciante, irriducibile.
In definitiva, mettere in dialogo Jung e Weil significa comporre un duetto tragico e visionario: lui, lo psicologo delle profondità, attento alla dinamica degli archetipi e all’energia dell’inconscio; lei, la mistica laica, filosofa dell’estremo, che vede nel vuoto e nella spogliazione la via verso il reale. Ma entrambi — con parole diverse — dicono che l’unica salvezza viene dal singolo. Dal singolo che non si rifugia nella massa. Dal singolo che non abdica alla propria coscienza. Dal singolo che si espone alla verità, anche quando questa verità è silenzio, o buio, o croce.
Parlando del confronto tra Jung, Weil e Arendt, entriamo in una vera e propria costellazione di pensiero, in cui la figura dell’individuo — minacciata, marginalizzata, ma anche ritenuta il solo autentico portatore di senso — si staglia al centro di un'analisi della modernità che intreccia psicologia, filosofia politica e mistica. E mentre la crisi del Novecento viene riletta come una frattura dell’umano, una perdita di orientamento etico ed esistenziale, ciascuno di questi tre autori offre un sentiero diverso per il ritorno alla responsabilità e al senso.
Partiamo da Jung, il cui brano tratto da Mysterium coniunctionis non è che la cima visibile di una montagna di riflessione: per Jung, la psiche collettiva moderna è in uno stato di dissociazione. L’enfasi sulla massa, sulle statistiche, sull’anonimato amministrativo, sulla tecnica e sulla razionalizzazione estrema del reale ha prodotto un’esplosione della personalità: l’io non regge più, si spezza, si rifugia nella nevrosi, oppure si dissolve nei grandi meccanismi collettivi, diventando ingranaggio. L’individuo, invece, nella sua singolarità psichica, è il vero luogo della vita, l’unico dove può avvenire il processo di individuazione, che è il senso profondo del vivere: una riconciliazione dinamica tra la coscienza e l’inconscio, tra persona e ombra, tra conscio e archetipi. Senza questo lavoro interiore, si diventa passivi ricettori di ideologie, seguaci ciechi, repliche dell’altro.
A questo proposito, Jung vedeva nei totalitarismi — sia di destra che di sinistra — la concretizzazione più spaventosa della psicosi collettiva. Non è il solo a farlo, ma la sua lettura è radicale e psichica: il fascismo e il comunismo stalinista non sono solo regimi politici, ma sintomi di una patologia della coscienza, frutto della scissione tra la vita interiore e l’esteriorità organizzata. L’uomo-massa, scrive Jung, è pericoloso non tanto perché violento, ma perché vuoto: perché ha rinunciato al suo destino individuale, e si è identificato con immagini collettive prive di anima. Il pericolo non è più l’aggressività dell’uomo primitivo, ma l’anestesia morale dell’uomo moderno.
Simone Weil, su un versante spirituale e filosofico, arriva a intuizioni sorelle. Per lei, la forza — il potere che si esercita meccanicamente sull’altro, che riduce l’altro a oggetto, che lo schiaccia o lo umilia — è il vero male del mondo. E non c’è forza più impersonale di quella esercitata dalla macchina burocratica, dallo Stato moderno, dalle strutture totalitarie. Il suo capolavoro, La prima radice, è una diagnosi delle radici perdute dell’uomo contemporaneo, e insieme una richiesta radicale: restituire all’individuo la possibilità di dire “io” in un mondo che lo priva continuamente di voce e di sguardo.
In questo contesto, Weil sviluppa l’idea straordinaria dell’attenzione: non come semplice osservazione, ma come atto d’amore. Attenzione è “il più raro e puro atto di generosità”, un vuoto offerto all’altro, uno spazio dove l’altro può apparire nella sua fragilità. È qui che il discorso si fa mistico: l’individuo può ritrovare la propria realtà solo svuotandosi di sé, non nella forma della passività, ma in quella della decreazione consapevole, un esercizio spirituale che mira a sottrarre l’io dal centro, per far posto a Dio, o alla giustizia, o al grido del sofferente. Anche in questo, Weil è anti-totalitaria: la sua è una rivolta assoluta contro qualsiasi totalità che pretenda di inghiottire la singolarità del volto umano.
E veniamo ad Hannah Arendt, che affronta lo stesso nodo ma da una posizione differente, eminentemente politica e fenomenologica. Arendt, come Jung e Weil, ha visto da vicino le lacerazioni del Novecento — l’esilio, il nazismo, la Shoah — e ha cercato di comprendere come fosse stato possibile che milioni di individui si fossero resi complici, o spettatori, o silenziosi operatori, dell’inferno. L’esempio di Adolf Eichmann — il burocrate dell’Olocausto — è per lei la prova che il male moderno non ha più bisogno di demoni, ma solo di persone che smettono di pensare. La banalità del male, infatti, è proprio questo: la sospensione del pensiero critico, l’adesione impersonale alla norma, la fuga dal giudizio morale. Eichmann, come tanti altri, non era un mostro: era un uomo senza profondità, incapace di dialogare con se stesso. Ed è qui che Arendt riprende in mano la tradizione socratica: pensare significa dialogare con la propria coscienza, e questo è già un atto politico.
Arendt, dunque, rivaluta il pensiero come forma di resistenza. Nella sua trilogia La vita della mente, analizza il pensare, il volere e il giudicare come attività essenziali dell’umano. E proprio nel pensare ritrova la condizione per l’etica: perché chi pensa non può agire in modo completamente disumano senza contraddire se stesso. In questo senso, Arendt è molto più vicina a Weil di quanto possa sembrare: entrambe credono che solo la consapevolezza — non l’appartenenza, non l’obbedienza, non la lealtà a una causa — possa fondare la dignità umana. E come Weil, anche Arendt difende la fragilità dell’individuo come unica fonte di senso, come ciò che rimane quando tutto crolla.
Inoltre, Arendt si oppone alla confusione tra vita privata e vita pubblica, tipica dei regimi totalitari. In un mondo dove tutto diventa politico, dove anche l’anima viene amministrata, l’individuo non ha più un rifugio: non può né esprimersi né nascondersi. È questa la tragedia: la perdita dello spazio interiore, della distanza, del tempo per pensare. Ed è qui che si avvicina ancora una volta a Jung, che insisteva sulla necessità di un lavoro interno, solitario, per sfuggire alla follia collettiva.
Infine, c’è la questione della pluralità, che per Arendt è sacra. Ogni uomo è unico, irripetibile, e la politica vera è quella che permette a questa unicità di manifestarsi, di apparire, di essere detta. È un’idea anti-totalitaria per eccellenza: mentre il totalitarismo uniforma, annienta le differenze, costruisce un popolo-simbolo, Arendt rivendica la libertà come potere di iniziare, di agire nel mondo in modo imprevedibile. Solo l’individuo — con la sua capacità di giudizio, di parola, di immaginazione — può salvare il mondo dalla ripetizione cieca del male.
In questo triangolo di pensiero — Jung, Weil, Arendt — si delinea allora una mappa possibile dell’umano: l’uomo non come categoria, ma come nucleo irriducibile di esperienza. L’uomo che pensa, l’uomo che ama, l’uomo che fa attenzione. L’uomo che si oppone alla macchina — non perché ribelle, ma perché vivo.
Con il confronto tra Jung, Weil, Arendt e Camus significa entrare in un campo di forze filosofico ed esistenziale tra i più intricati e incandescenti del Novecento: non si tratta soltanto di quattro pensatori, ma di quattro modalità diverse, spesso complementari, a volte dolorosamente contrastanti, di interrogare la relazione tra l’individuo e il potere, tra la singolarità e la massa, tra la coscienza e il mondo. E in fondo, di interrogare ciò che resta dell’umano — quando tutto intorno crolla.
Partiamo da Jung, che nel brano citato dal Mysterium Coniunctionis afferma con chiarezza radicale che soltanto l’individuo è portatore di vita, responsabilità, etica. Il suo bersaglio è la massificazione moderna, incarnata nello Stato come macchina impersonale, sistema che ordina e classifica, privando l’uomo del suo volto. Jung vede la psicologia di massa come una malattia dell’anima moderna: non è più l’inconscio personale, ma l’inconscio collettivo che invade e sostituisce l’interiorità. Qui nasce il terreno fertile per i totalitarismi: l’individuo, ridotto a cifra statistica, perde se stesso e si lascia possedere da archetipi distruttivi — come il Führer, il Duce, il Partito — che diventano figure mitiche, irresistibili. È l’antico dio che ritorna sotto forma di potere secolare, ma idolatrato.
Simone Weil si muove da un'altra sponda, mistica e spietata. Il suo rifiuto del potere ha radici teologiche, ma il suo linguaggio è radicalmente incarnato. Per Weil, la forza è la divinità maledetta dell’Occidente moderno: la forza trasforma l’uomo in cosa, schiaccia la coscienza, disgrega la dignità. La macchina, l’apparato, lo Stato, ma anche il Partito Rivoluzionario, sono tutte forme di sostituzione dell’attenzione con il dominio, dell’ascolto con l’efficienza. L’individuo è sacro non perché sia speciale, ma proprio perché è fragile. Weil rovescia il paradigma della potenza: solo ciò che è infinitamente vulnerabile è degno di amore e di verità. E così come Jung ammonisce contro l’identificazione con l’inconscio collettivo, Weil mette in guardia dalla grandeur — la tentazione titanica del “noi”, dell’eroismo, dell’azione politica come palcoscenico. “L’unico modo per amare è annullarsi”, scrive. Ma è un annullamento per l’altro, non per l’Idea.
Hannah Arendt incarna un terzo sguardo, apparentemente più laico, più politico, ma ugualmente innervato da una tensione profonda tra il singolo e la storia. In “Le origini del totalitarismo”, Arendt mostra come i regimi totalitari si fondino non sulla forza bruta, ma sulla solitudine radicale degli individui. Il totalitarismo, scrive, inizia dove l’uomo smette di pensare — o meglio, dove il pensiero viene sostituito da cliché ideologici, da automatismi linguistici, da narrazioni assolute che aboliscano il dubbio. Arendt non crede nel ritiro mistico né nella ribellione eroica, ma in una politica del pluralismo: il mondo è umano solo se è comune, se accoglie l’alterità come condizione della verità. Quando il potere cancella la diversità, cancella anche il giudizio. Ed è qui che l’individuo scompare: non tanto per coercizione fisica, ma per espropriazione simbolica. L’homo totalitarius è colui che non ha più parole proprie, e dunque non ha più mondo.
Ed ecco Albert Camus, con la sua voce solare e tragica. Camus parte dalla constatazione dell’assurdo — un mondo che non risponde, una vita che non ha senso — ma non si arrende al nichilismo. Per lui, il punto non è trovare un senso dall’esterno, ma decidere come vivere nonostante l’assenza di senso. L’individuo che si ribella è colui che dice “no” a un’ingiustizia, ma con quel no afferma anche una dignità. È la ribellione che fonda una nuova etica. Camus vede nel totalitarismo non solo una minaccia politica, ma una tentazione metafisica: la tentazione di spiegare tutto, di imporre all’universo un ordine razionale a prezzo della carne viva dell’uomo. Il totalitarismo è un’espressione dell’ipertrofia dell’idea — ciò che Weil chiamerebbe il dominio dell’irreale.
E tuttavia, Camus si distingue dagli altri tre per un’aderenza più forte alla terra, all’umano nella sua finitudine concreta. Non è un pensatore dell’anima come Jung, né una mistica dell’attenzione come Weil, né una filosofa del giudizio come Arendt. È il poeta morale dell’impossibile equilibrio: tra giustizia e libertà, tra verità e pietà. Quando scrive L’uomo in rivolta, Camus non propone una dottrina, ma un gesto: quello di resistere senza odio, di affermare la vita senza mentire, di amare la bellezza anche in mezzo alla morte. È un'etica del limite, della misura, del “fin qui”.
Ma se li leggiamo insieme, questi quattro pensatori non si contraddicono: si completano. Jung ci ricorda che senza interiorità diventiamo ingranaggi; Weil che senza attenzione diventiamo mostri; Arendt che senza pensiero diventiamo automi; Camus che senza ribellione diventiamo complici. Tutti e quattro, a modo loro, combattono il totalitarismo non solo come regime politico, ma come forma mentale, come struttura simbolica che disattiva il cuore e annulla il volto.
E qui torna il punto di partenza: “chi pensa meno in termini di individuo che in termini di grandi cifre ha già derubato se stesso”. Il totalitarismo non è solo uno Stato: è un modo di non vedere, di non ascoltare, di non riconoscere l’altro. È la vittoria del numero sulla parola, del sistema sul volto, dell’ordine sulla coscienza. E per questo la loro resistenza, così diversa nei linguaggi, è la stessa nella sostanza: una difesa dell’uomo contro l’inumano.
Il parallelo tra le figure di Jung, Weil, Arendt, Camus e, aggiungerei, Pasolini si inserisce in un contesto di riflessione profonda sull'individuo e sulle dinamiche sociali e politiche che, storicamente, hanno minacciato la sua esistenza autentica. Questi pensatori e autori, pur provenendo da tradizioni diverse, condividono un’analisi critica della società moderna, caratterizzata dalla massificazione, dalla mercificazione e dalla violenza del potere. In modo particolare, Pasolini, pur differenziandosi per il suo approccio estetico e poetico, si inserisce perfettamente in questa tradizione di pensiero che mette l'accento sulla fragilità dell'individuo di fronte alla potenza della collettività e delle ideologie dominanti. Il suo impegno, sia politico che artistico, si lega strettamente alla critica della perdita di autenticità e alla sua continua ricerca di un modo di essere che preservi l'individualità, la singolarità e il valore dell'esperienza umana.
Nel pensiero di Pasolini, l’individuo emerge come un essere fragile e vulnerabile, costantemente minacciato dalle forze esterne che tentano di omologarlo e ridurlo a un numero, una statistica, una pedina in un gioco che lo svuota della sua essenza. Questo tema è centrale nella riflessione di Jung, che vede nella collettività e nelle sue dinamiche una tendenza a distruggere l’individualità e a spingere l'uomo a vivere nella massa, fuori dal contatto con la sua interiorità. La critica di Pasolini alla società dei consumi, alla cultura di massa e alla perdita di significato nella vita quotidiana si collega strettamente a questa visione, nella quale la grande macchina del potere e del consumo annienta l'uomo, riducendolo a un ingranaggio, a una mera funzione.
Pasolini, però, non si limita a denunciare l'omologazione sociale, ma analizza anche le implicazioni politiche di tale processo. La sua visione dell’individuo è fortemente legata alla sua condizione sociale, culturale e politica. Per Pasolini, infatti, non è solo la psiche o l’anima a essere minacciata dalla collettività, ma anche il corpo, la vita stessa dell’individuo. La figura dell’intellettuale, dell’artista e del poeta in Pasolini rappresenta una resistenza a questa forma di annientamento, un tentativo di ritrovare un’autenticità che sia capace di sfuggire alle logiche del consumo e della produzione. In un'epoca in cui la merce ha invaso ogni aspetto della vita sociale, l'arte di Pasolini diventa uno strumento di liberazione, un mezzo per recuperare la parola e la bellezza, per restituire dignità all'individuo che rischia di essere travolto dalla velocità e dalla violenza del sistema.
Simone Weil, come Pasolini, sviluppa una riflessione sul ruolo del potere nella vita dell’individuo, ma lo fa partendo da una prospettiva diversa, più legata alla sofferenza e alla forza che agisce sulle persone. La sua concezione della forza, come qualcosa che non può essere controllata, ma che agisce sugli individui e sulle società, ha delle affinità con l’analisi di Pasolini sul potere della cultura di massa e del consumismo. La forza di cui parla Weil è quella che costringe l'individuo a diventare una vittima della propria stessa passività, a subire la violenza senza resistenza. In questo, Pasolini coglie una delle tragedie più grandi della modernità: la trasformazione dell’individuo in un essere che, pur soffrendo, non riesce più a reagire, a opporsi.
L’interesse di Pasolini per gli emarginati, per quelli che vivono ai margini della società, è il suo modo di dare voce a chi, nella visione weilianiana, è stato piegato dalla forza sociale e politica, ma che mantiene ancora un residuo di libertà. In questo senso, Pasolini e Weil condividono una riflessione sull’oppressione dei più deboli e sull’importanza di riconoscere questa sofferenza, di darle spazio nella narrazione sociale e politica. Pasolini, come Weil, rifiuta una visione ottimistica del progresso e della società moderna, riconoscendo nella sua realtà una violenza strutturale che non può essere ignorata.
Il pensiero di Arendt si concentra sulla natura dell’agire umano nel contesto politico, e si riflette in un’analisi della totalità, della violenza e della libertà. Arendt distingue il potere dalla forza, una distinzione che Pasolini sembra riprendere nel suo lavoro, con l’idea che la vera libertà non venga mai dal conformismo della società, ma dall'individuo che si oppone alla violenza del potere attraverso l'arte e la cultura. La pluralità di cui parla Arendt – la possibilità di condividere e dialogare nel contesto della vita politica – è, per Pasolini, una forma di resistenza che si manifesta in un atteggiamento di resistenza culturale e sociale. L'individuo che si oppone alla totalità si fa portatore di una differenza che non è mai passiva, ma che si esprime nell'arte, nel pensiero e nell’azione politica.
Se Arendt vedeva nel totalitarismo il massimo pericolo per la pluralità, Pasolini applica questa stessa critica alla società dei consumi e alla politica moderna, ma attraverso una lente artistica, dove la politica diventa anche estetica. Pasolini e Arendt condividono una concezione della politica come spazio di libertà, ma per Pasolini la libertà si manifesta nella creazione artistica, nel saper guardare il mondo con occhi critici e capaci di affermare la propria verità. La sua arte diventa una forma di lotta contro la violenza e l’omologazione sociale, un’affermazione di un’autenticità che non può essere sacrificata al potere.
La riflessione di Camus sull'assurdo si incrocia con quella di Pasolini in un punto centrale: la consapevolezza che l'individuo, pur cercando un senso, è spesso chiamato a fare i conti con una realtà che non offre risposte facili. Camus e Pasolini esplorano l’idea che l’uomo debba affrontare una condizione di solitudine e di alienazione di fronte all’assurdità della vita. Per Camus, la ribellione è la risposta all'assurdo: l'individuo deve rifiutare la passività e l'inerzia, impegnandosi nell'azione. Pasolini, pur non aderendo in modo sistematico alla filosofia camusiana, si inserisce in questa stessa dialettica, vedendo nell’arte e nella resistenza culturale una risposta all’assurdo della modernità. Ma mentre Camus si concentra sulla solitudine dell’individuo che si ribella contro l’assurdo, Pasolini vede la ribellione come un atto che coinvolge la comunità e la memoria storica. La sua resistenza non è mai solitaria, ma collettiva, anche se, come per Camus, il singolo individuo rimane al centro della sua riflessione.
In definitiva, Pasolini, come Jung, Weil, Arendt e Camus, esplora la crisi dell’individuo e le sue possibilità di resistenza di fronte a forze disumanizzanti. Ma Pasolini porta una dimensione ulteriore alla riflessione filosofica, quella estetica e poetica, che diventa il mezzo attraverso cui esprimere una verità che sfida la logica del potere e della violenza. La sua opera è un atto di resistenza, ma anche di affermazione della vita. L’individuo pasoliniano è condannato a una solitudine che è, allo stesso tempo, una chiamata alla solidarietà, alla difesa dei più deboli e a una continua interrogazione del mondo che lo circonda. Come gli altri pensatori, Pasolini denuncia la perdita di significato e la scomparsa dell'individualità in un mondo che tende a ridurre l'essere umano a un ingranaggio, ma, a differenza di loro, la sua riflessione è anche un appello alla creazione e alla bellezza come riscatto. L'individuo, per Pasolini, resiste non solo con la mente e con la politica, ma anche con il corpo e con la parola.