Ahimè, quanti lo avrebbero invidiato, quanti cuori si sarebbero straziati all’idea di quel corpo, così vicino all'estasi eppure inaccessibile come il fiore velenoso di un’araucaria! Camminava, oh sì, camminava come in un sogno, come un profeta errante tra gli oracoli selvaggi, calpestando la giungla impenetrabile che si piegava sotto il suo passo, quasi a sussurrare il proprio desiderio al suo orecchio, mentre le piante rampicanti, come mani bramose, cercavano di avvolgerlo, di accarezzare il suo corpo divino, tentavano invano di trattenerlo, di inchiodarlo in quell’eternità che era propria soltanto degli esseri al di là del tempo.
E proprio quando pareva che quella scena fosse irripetibile, quando l’aria sembrava farsi densa come miele e il silenzio della natura tratteneva il fiato, ecco che, tra l’intrico di rami e foglie e ombre che danzavano come ninfe, apparve – con un grido quasi demoniaco, quasi uno scherno al giovane semidio – un uccello dalle piume così ardenti di rosso e di giallo, che pareva incarnare tutto il desiderio mai confessato, tutti i sogni mai sognati, tutti i rimpianti mai soffocati. Un lampo, un affronto al grigiore opaco della sua camicia sudata, un richiamo, forse, di un'altra dimensione, dove i desideri non si nascondono, dove l’incantesimo non si infrange.
Ah, maledetta giovinezza! Benedetta giovinezza! Quale delitto sublime è mai stato compiuto, affinché una tale bellezza fosse concessa, e solo per un istante, per poi lasciarci, noi, poveri spettatori condannati, alla fredda consapevolezza che tutto questo, come il passaggio di quell’uccello infernale, sarebbe svanito in un nulla di rimpianti e solitudine.
Oh, come un’anima errante scendeva, quella figura dai capelli dorati, incarnazione di un fascino fatale e ignaro, lungo l’ultimo baluardo di pietra, avventurandosi nel cuore umido e opprimente della giungla, come un'anima destinata a camminare tra ombre e presagi. C’era qualcosa di terribilmente profetico in quel ragazzo, in quell’immagine spettrale di gioventù che avanzava con la maglia scolastica abbandonata a pendere dalla mano, come una reliquia profanata, mentre la camicia grigia, fradicia e appiccicata al suo petto, si fondeva quasi con la carne, in un abbraccio soffocante e indissolubile. I capelli biondi, un tempo simbolo di grazia, gli si attaccavano alla fronte come catene, come fili d’oro avvelenato destinati a incatenarlo per sempre a quel luogo maledetto.
Tutt’intorno a lui, la giungla non era altro che un ventre febbrile, un bagno di vapori mefitici, come se la terra stessa sudasse sangue e veleno, come se respirasse il male che da secoli nutriva le sue radici. Il giovane avanzava con passi lenti e stanchi, circondato da piante che sembravano volergli strappare via l’anima, da rami e foglie che pendevano come mani di fantasmi dimenticati, tronchi spezzati che sussurravano minacce soffocate, mentre l’aria, greve e nera, soffocava ogni respiro.
Fu allora che, come una creatura d’incubo, un uccello emerse dal nulla, un’apparizione sfacciata e crudele, un lampo di rosso e giallo così vividi da sembrare strappati a un altro mondo, uno più tetro, più feroce, più folle. L’uccello planò davanti a lui, tra un fruscio e un grido stridente, uno schianto inumano che echeggiava come un riso sinistro, un presagio di qualcosa che non avrebbe mai potuto comprendere. Sembrava un messaggero dell'oltretomba, quell’uccello che per un attimo lo aveva osservato, che lo aveva scelto, come se il suo grido fosse la sentenza inappellabile che sanciva la sua perdizione.
Ah, quanta oscurità in quella foresta senz'anima, quanta tenebra nei pensieri che quel giovane non poteva nemmeno articolare, ma che strisciavano su di lui, insinuandosi in ogni fibra, in ogni poro, come un veleno, come un tormento lento e inesorabile. Forse, quel luogo non era altro che un varco verso un altro regno, un mondo in cui la sua innocenza sarebbe stata divorata, lasciandogli solo un’ombra, un guscio vuoto, un ricordo di ciò che era stato – se davvero, nel suo cuore, fosse mai stato vivo.
Discese, il ragazzo dai capelli biondi, come un condannato che ignora la propria sentenza, aggrappandosi a rocce affilate, quasi fossero artigli pronti a sbranarlo, spingendosi verso quella laguna che pareva chiamarlo da un abisso senza fondo. La maglia della scuola, abbandonata, pendeva inerte dalla sua mano, come la veste di un martire che si è già arreso al patibolo, e la camicia grigia, fradicia e vischiosa, aderiva al petto con la disperazione di chi sa di non poter sfuggire a una stretta fatale. I suoi capelli dorati, emblema di una bellezza che avrebbe suscitato ammirazione negli uomini e desiderio negli dèi, erano ridotti a ciocche incollate alla fronte, come una corona ammuffita, umiliata, infetta.
La giungla tutt’intorno si distendeva come un’immensa bocca aperta, spalancata per ingoiarlo. Il suolo soffocante, impregnato di vapori umidi e vischiosi, emanava un’aria nauseante, un respiro marcescente che s’insinuava nella carne, quasi fosse il preludio di una corruzione che avrebbe corrotto il corpo e l’anima. Ogni passo affondava in una melma densa, tra piante rampicanti che si torcevano attorno alle sue caviglie come catene invisibili, tra tronchi spezzati che sembravano grida cristallizzate di coloro che erano già stati sacrificati alla tenebra.
Quando finalmente si fermò, un orribile silenzio lo avvolse, un silenzio che sembrava attendere con bramosia il momento del suo collasso. E in quell’istante, in quell’abisso di quiete funesta, un grido lacerante squarciò l’aria, un urlo stridulo che sembrava risalire dalle profondità infernali. Un uccello, o forse un demone travestito, balenò davanti ai suoi occhi, rosso come il sangue fresco, giallo come un fuoco maledetto, un lampo che si scagliò contro di lui come un presagio spietato. Il suo volo non era altro che una condanna urlata con feroce, insopportabile chiarezza, come un avvertimento per la carne e per l’anima.
Per un istante, quegli occhi dorati incrociarono le piume incandescenti, e il ragazzo comprese, con un terrore che non avrebbe potuto raccontare, che il suo destino era già stato segnato da mani invisibili. Quel luogo non era una foresta; era una trappola, un labirinto d’incubi senza uscita, un purgatorio costruito per consumare fino all’ultimo istante della sua innocenza, per risucchiare il suo essere e restituirlo alla terra come una carcassa vuota, come una reliquia profanata.
E mentre l’uccello scompariva in un lampo beffardo, il ragazzo rimase solo, sospeso in quell’agonia senza nome, con la consapevolezza che ogni passo avanti sarebbe stato un passo verso l’oblio, un cammino tracciato nel sangue e nella cenere, una discesa senza ritorno.
Discese, il ragazzo dai capelli biondi, come chi si trascina verso un abisso senza redenzione, come un’anima persa che avanza verso il suo destino, ignaro della sciagura che lo reclama. Ogni pietra che sfiorava sembrava tagliarlo, come artigli di una bestia in agguato, mentre si faceva strada tra spuntoni scivolosi e insidiose crepe, un naufrago condannato a infrangersi su un’isola di follia. La maglia della scuola pendeva dalla sua mano come il sudario di chi ha già detto addio alla vita, e la camicia grigia, umida, s’incollava alla pelle come un sudario, segno di un presagio di morte impossibile da ignorare. I capelli, un tempo aurei, erano ridotti a ciocche fradice e disordinate, appiccicate alla fronte come spine, come il marchio di un essere maledetto.
E intorno a lui, la giungla era un oceano di ombre che respiravano e palpavano, un’enorme bocca aperta, famelica, che sembrava pregustare il suo ingresso. L’aria stessa era un nemico, densa, carica di umidità putrida che soffocava ogni respiro, colmandolo di un odore dolciastro di decomposizione. Le piante rampicanti lo avvinghiavano come mani scheletriche che, stringendosi attorno alle caviglie, tentavano di trascinarlo giù, dentro il ventre oscuro della terra, dove giaceva sepolta ogni speranza, ogni anelito di luce. Ogni passo, ogni respiro erano atti di una lotta già perduta, perché il suo stesso corpo si stava trasformando in una reliquia di ciò che era stato, il guscio fragile di un’anima destinata alla disfatta.
E quando il silenzio divenne così fitto da sembrare vivo, un grido lacerò l’aria, uno stridore acuto, bestiale, che ruppe quel torpore con la violenza di un presagio funebre. Un uccello emerse come un demone, piume di rosso acceso e giallo fiammeggiante, una visione infernale, un lampo crudele che saettò davanti a lui, fuggendo nell’ombra e lasciandosi dietro un’eco stridente, uno scherno che risuonava come una sentenza irrevocabile. Quell’apparizione lo colpì come una rivelazione, come il tocco di una realtà che da sempre si celava sotto il velo della gioventù e dell’innocenza: egli era già condannato, già segnato da una forza che nessuna fuga, nessuna preghiera avrebbero potuto placare.
Tremante, il ragazzo comprese che quel luogo, quella laguna, non erano altro che un vortice, un tempio di rovina in cui i vivi venivano divorati, lasciando solo gusci vuoti a galleggiare come resti di un pasto che nessuno avrebbe mai pianto. Ora era solo, totalmente, disperatamente solo, con il respiro fermo e il cuore in tumulto, sospeso in un silenzio più letale del grido stesso. E mentre il sole tramontava, inghiottito da quella natura insaziabile, seppe, nella sua carne e nelle sue ossa, che ogni passo avanti non era altro che una discesa verso il nulla, un lento affondare in una perdizione senza nome, in un eterno, inesorabile oblìo.