sabato 21 giugno 2025

Lo schermo è un altare laico. Ma non più per gli dèi — solo per la nostra stessa immagine

L’interfaccia e l’abisso. Per una fenomenologia dell’estetica digitale

Nel tempo che abitiamo — o forse che ci abita, ci attraversa, ci consuma — il vetro dello smartphone non è più ciò che era. Non è più un’interfaccia nel senso originario del termine, cioè una soglia, una zona di contatto fra soggetto e mondo. È diventato specchio, maschera, palco, confessionale, oracolo, e infine tomba. Una lastra luminosa dietro la quale non c’è più alcuna promessa di trascendenza, ma un infinito ritorno di sé, un loop narcisistico ininterrotto. Guardiamo in quella superficie come un tempo si guardava l’acqua di un pozzo: cercando qualcosa, qualcuno, un riflesso, un presagio. Ma il pozzo oggi non restituisce nulla. Ci restituisce noi stessi, scomposti in pixel, filtrati, riformattati in contenuto. Non è più la realtà che si affaccia sullo schermo. È lo schermo che ha divorato la realtà.

Non vediamo più attraverso. Non guardiamo più verso. Tutto si svolge in superficie. Il “fuori” è scomparso. O meglio: si è dissolto nel linguaggio digitale, nella codifica universale dei dati, nel flusso continuo del “postare”. L’esperienza non avviene più nel corpo, nel tempo, nello spazio. Avviene nel dispositivo. Si registra. Si esporta. Si ottimizza. Non si vive: si condivide. La verità non è più ciò che accade, ma ciò che può essere montato, sintetizzato, estetizzato, monetizzato. La vita, in questo nuovo paradigma, non è che una bozza di contenuto.

È qui che si colloca il cuore pulsante (o forse già morto) della nostra epoca. Una scissione radicale si è aperta tra ciò che dovrebbe accadere e ciò che può essere mostrato. Una separazione netta tra l’intensità dell’evento e la sua rappresentazione algoritmica. Non siamo più testimoni della realtà: ne siamo curatori. Viviamo in una costante attività di editing della nostra presenza. Ogni gesto viene pre-pensato nella sua versione condivisibile. Ogni pensiero viene sintetizzato in caption. Ogni dolore, prima ancora di farsi lacrima, diventa reel.

È la grande mutazione antropologica della contemporaneità: non viviamo per capire, per sentire, per agire. Viviamo per apparire. L’essere è stato spodestato. La verità, che un tempo era verticale — cioè orientata, diretta, verticale perché cercava l’alto, il fondo, il profondo — è oggi una questione di visibilità. L’esperienza, che prima cercava profondità, oggi cerca impatto. E l’impatto è misurabile. Si chiama reach, engagement, visibilità, insight. È un numero.


Questa è la nuova estetica del reale. Un’estetica senza epifanie, senza silenzio, senza durata. Un’estetica che ha smarrito la tensione verso l’alterità, il sacro, il trauma, per annegare in una ripetizione ossessiva dell’identico. Ogni feed è una liturgia circolare, un’eterna messa in scena dell’ordinario travestito da straordinario. Si rincorrono immagini, si rincorrono emozioni, si rincorre sé stessi. È la processione postmoderna dell’io. E l’io, come sempre, è vuoto.

L’orizzontalità dei media non è più una conquista democratica, ma una prigione. Tutto è sullo stesso piano: la morte e la danza, la guerra e il make-up tutorial, la carestia e la #grwm. Il sublime — un tempo inteso come irruzione del non rappresentabile, dell’eccesso, dell’informe — oggi viene scrollato via, liquidato da un gesto distratto del pollice. Non c’è più shock, non c’è più frattura. C’è solo sovraccarico. Un’eccessiva presenza di tutto che produce assenza. Assenza di attenzione, di significato, di differenza. Viviamo in una sinfonia di segnali che non dicono nulla. Il sublime, l’evento, il trauma sono stati normalizzati.


La borghesia dell’inizio del secolo scorso, quella delle città ancora attraversate da cavalli e lanterne, si lasciava turbare dall’alterità. Avvertiva l’inquietudine dell’invasione: la follia, il corpo queer, lo straniero, il diverso. Era ancora capace di orrore. Capace di vergogna. Capace di verginità percettiva. La borghesia digitale, invece, ha imparato a incorporare tutto. Non conosce più il tabù: lo trasforma in contenuto. Non subisce più il trauma: lo monetizza. È diventata macchina produttiva di narrazione. Non importa più se accade: importa come appare.

Viviamo in una perpetua fiction. La tragedia è diventata interattiva. Il dolore è replayable. La morte è uno status. Si può condividere. Si può salvare nei preferiti. Ogni tragedia è una potenziale “storia in evidenza”. E questo non avviene perché siamo cattivi. Avviene perché siamo immersi in un sistema simbolico che ci ha scollegati dalla profondità. Dalla verità. Dalla gravità.


Eppure, tutto questo non nasce oggi. Non è colpa di TikTok. Le radici di questa estetica dell’istantaneo affondano nel Novecento. Nella lacerazione radicale che l’arte e la filosofia hanno prodotto dopo le guerre. È lì, in quella modernità in frantumi, che si è scoperto che il sublime può germinare nel banale. È lì che si è intuito che la banalità può essere rivelatrice. Walter Benjamin lo aveva intravisto: la modernità è fatta di “choc”. È fatta di “frammenti”. È l’angelo della storia che vola all’indietro. Ma oggi l’angelo è diventato un emoji.

Il sublime novecentesco era ancora ferita. Era il lampo che spaccava la tela. Era Artaud che urlava contro il teatro borghese. Era Pasolini che filmava il corpo sacro del sottoproletariato. Era Bacon che sfigurava i volti. Era la “Guernica” di Picasso: non un quadro, ma un urlo senza suono. Un’icona che bucava la retorica. Ma oggi quel buco è stato tappato. L’urlo è diventato pattern. Lo squarcio è stato estetizzato. Il volto spezzato è diventato copertina.

Non viviamo più nello squarcio. Viviamo nel filtro. In un’estetica del ritocco, del bilanciamento cromatico, della didascalia ironica. Ogni ferita è postprodotta. Ogni dolore è content. Ogni morte è postabile. E qui torniamo a McLuhan: il medium è il messaggio. Ma oggi, il messaggio è l’intrattenimento del trauma. La commedia del dolore. L’onnipresenza della messa in scena.


E qui entra in gioco Roth. Con Pastorale americana, Roth ci consegna il romanzo definitivo sul fallimento dell’ordine borghese. Non è la storia che irrompe: è la famiglia che implode. Non è l’esterno che devasta l’interno: è l’interno che produce la catastrofe. Merry — la figlia devota, la ragazza mite — non è una vittima della storia. È la storia. È la bomba che esplode dentro il cuore del padre. E il padre non capisce. Guarda. Come noi. Come noi tutti. Merry siamo noi.

Siamo noi che ci filmiamo mentre confessiamo il nostro dolore. Siamo noi che commentiamo un omicidio con una reaction. Siamo noi che viviamo ogni emozione in funzione della sua estetica. Non serve più esplodere. Basta postare. Basta vedersi. L’atto è diventato visione. La visione è diventata gesto. Il gesto è diventato contenuto. Il contenuto è diventato ciclo.


Ecco, la vertigine non è più nel trauma. È nella sua digestione. La vera tragedia non è vedere l’orrore: è essere quell’orrore, senza più accorgersene. Il monaco che si dà fuoco a Saigon guardava il mondo dalla fiamma. Era uno specchio di verità. Oggi il fuoco non brucia più. Abbiamo firewall, VPN, disconnessione programmata. L’unico fuoco che ci riguarda è quello dell’ego. Un falò interiore che non illumina nulla. Non scalda. Ma produce luce sufficiente per una selfie session.

Il volto deformato dai filtri, il corpo smagrito digitalmente, lo sguardo riflesso in una camera frontale, sono la nostra nuova “Guernica”. Ma non urlano. Non feriscono. Sono souvenir. Sono pattern. Sono decorazioni.


La verticalità è morta. L’asse celeste è spezzato. Non guardiamo più verso l’alto, verso l’oltre, verso l’altro. Tutto avviene in piano. L’estetica è diventata l’unico contenuto. L’algoritmo è il nuovo critico d’arte. Il like è il nuovo sacramento. Il feed è l’unico fuoco che brucia. Ma non consuma. Non distrugge. Non purifica. È un fuoco che scorre. Che riflette. Che replica.

È l’apocalisse scrollabile.

Ma è un’apocalisse senza fine. Senza rivelazione. Senza salvezza.
Una visione infinita di noi stessi.
Fino alla nausea.
Fino al silenzio che nessuno ascolta più.
Fino al fondo — che non c’è più.