mercoledì 25 giugno 2025

Se n'è andato Bobby Sherman, il ragazzo nella scatola

Il primo che ho amato non sapeva nemmeno che esistevo.
E io non ero nemmeno certo che esistesse lui.

Lo chiamavano Bobby Sherman. Lo davano in televisione. Lo mettevano lì, dentro quella scatola tremolante che stava sopra il mobile basso in salotto, con la tovaglietta ricamata da mia madre e il centrino che cercava di proteggerla dalla polvere, e io mi sedevo proprio sotto, tra i piedi del divano, dove nessuno potesse vedermi. Non faceva nulla di speciale, Bobby. Cantava, certo. Sorrideva. A volte recitava. Aveva i denti bianchi, i capelli castani come il caramello e una camicia sbottonata quel tanto che bastava per farmi tremare senza sapere il perché.

Io lo guardavo in silenzio.
Mi batteva il cuore come se stessi facendo qualcosa di proibito, anche se non capivo ancora cosa.
Mi sentivo accaldato, la bocca secca, e quando finiva lo show non volevo che nessuno mi parlasse.
Era come svegliarsi da un sogno e non riuscire più a tornare indietro.

Una volta ho provato a dire a mia madre che mi piaceva. Non Bobby — lo show. “Mi piace Here Come the Brides”, ho detto. Lei mi ha guardato con l’occhio di chi sta cercando la trappola nella frase. “Quello con i boscaioli?”, ha detto. “Con tutte quelle ragazze? Ma dai…”

Non era quello.
Non erano le ragazze.
Era lui.

Bobby Sherman non era una rockstar. Non era una rivoluzione. Non era nemmeno il più famoso, il più bravo, il più celebrato.
Ma lui — solo lui — si lasciava guardare come nessun altro.
Non ti sfidava. Non ti svergognava. Non ti rideva in faccia.
Sembrava dirti: puoi fissarmi, se vuoi. Non mi arrabbierò.

E così io fissavo.
Ogni volta che compariva, lo trattenevo con lo sguardo come si trattiene il respiro prima di tuffarsi.

Poi spegnevo tutto e correvo in camera, con l’urgenza di chi deve proteggere un segreto che nemmeno ha capito.
Mi sdraiavo sul letto, gli occhi aperti al soffitto, e pensavo:
voglio essere vicino a lui.
Voglio che lui mi scelga.
Voglio che mi guardi con quegli occhi e dica: “anche tu sei bello”.

Quando cominci a desiderare qualcosa senza sapere che si può desiderare, ti sembra di essere malato.
Io non conoscevo parole.
Non sapevo nemmeno che si potesse chiamare amore.
Era solo una sensazione: il cuore che si stringe, un nodo in gola, la pelle che pizzica, il bisogno di nascondersi.

Avevo pochi anni.
E già stavo imparando a mentire.

Il mio primo poster era una pagina strappata di una rivista. Lo conservo ancora, in una scatola, con altri ritagli, da qualche parte. Bobby aveva il volto rivolto verso destra, come se stesse per dire qualcosa al ragazzo accanto — solo che accanto a lui non c’era nessuno. Così mi mettevo lì, a guardarlo, e immaginavo che il ragazzo fossi io.

Nel mio sogno, Bobby mi chiedeva se volevo andare via con lui.
Non in modo romantico. Né sessuale.
Solo… lontano. Da casa. Dalla scuola. Dal mondo che mi stava crescendo intorno come un vestito cucito storto.
Mi portava nel bosco, o al mare, o in una roulotte parcheggiata da qualche parte sotto il cielo d’America.
E lì, nel silenzio, mi diceva: “puoi stare come sei. Non devi fare finta.”

E io scoppiavo a piangere.
Anche nel sogno.

Poi sono cresciuto.
Gli altri ragazzi hanno cominciato a parlare di donne, di riviste, di seni, di peli.
Io facevo finta.
Dicevo che mi piaceva Farrah Fawcett. Ma la sua immagine mi faceva venire l’ansia.
In realtà avevo cominciato a disegnare a matita il volto di Bobby su tutti i quaderni.
Sempre lui. Sempre con quella stessa pettinatura.
Sembrava un angelo sceso per sbaglio in un mondo troppo rumoroso.

E mentre gli altri diventavano uomini, io diventavo altro.
Un’altra cosa.
Un’altra creatura.
Un’altra storia.

Non ho mai incontrato Bobby Sherman.
Non gli ho mai scritto una lettera.
Non ho mai detto a nessuno, nemmeno dopo, che lo avevo amato.
Perché non era davvero “lui”.
Era l’idea che mi dava: che si potesse amare un ragazzo senza essere puniti.
Che si potesse essere fragili, gentili, silenziosi — e che qualcuno potesse desiderarti per questo.

Per me, Bobby Sherman non è morto a 81 anni.
È morto mille volte — ogni volta che un ragazzo queer si è vergognato di desiderare.
E ogni volta è risorto, nel ricordo silenzioso che custodiamo tutti:
quello del nostro primo amore invisibile.
Quello che non ci ha mai toccati.
E che proprio per questo ci ha salvati.

Ma se oggi chiudo gli occhi, lo sento ancora.
Canta.
Sorride.
Mi guarda.
E mi dice: “Anche tu. Sì. Anche tu.”