Il flusso finale dell’Ulisse di James Joyce si presenta, in apparenza, come un soliloquio erotico e sentimentale: un momento di intimità che culmina in un’affermazione reiterata, rotonda, sonora — quel “sì” che ha fatto vibrare per decenni le corde dell’interpretazione letteraria. Ma la sua natura va ben oltre il dato linguistico o stilistico. È un campo di tensioni, una soglia percorsa da correnti psichiche, storiche e linguistiche che disarticolano ogni coerenza soggettiva, smascherando la fallacia dell’“io” come unità coesa. Quella di Molly non è una voce, ma un’interferenza. Non è un monologo, ma una costellazione di voci eterogenee, che la attraversano come una corrente elettrica.
Il “sì” non è una risposta, ma un’apertura che lacera la struttura stessa dell’opera — ed è proprio nel gesto di questa lacerazione che si gioca il senso più profondo del monologo. È qui che possiamo collocare l’analisi, non in ciò che viene detto, ma nella maniera in cui viene articolato ciò che non può essere detto. Il desiderio, nel testo joyciano, non viene espresso: si manifesta. E non si manifesta attraverso la logica del discorso argomentativo, ma nel tremolio discontinuo della lingua che inciampa, che prolifera, che si sfalda. È una lingua altra, una lingua che ha abbandonato ogni riferimento a un codice normativo per consegnarsi alla corrente della pulsione.
Se la modernità ha tentato di definire il soggetto come interiorità pensante e riflessiva, Joyce ne svela la nudità: Molly non pensa nel senso cartesiano — Molly desidera, ricorda, associa, vaga, si disfa nel suo stesso linguaggio. In questo senso, la sua voce è più vicina al sogno che alla coscienza. La punteggiatura scompare, la sintassi implode, la struttura narrativa cede il passo a una cartografia pulsionale. Qui si apre la possibilità di leggere il monologo come una performance dell’inconscio, nel senso freudiano e lacaniano del termine. Non un flusso coscienziale, ma un’esplosione dell’infrasottile.
In Lacan, il soggetto si costruisce come effetto del significante: è un prodotto del linguaggio, ma anche un suo residuo. L’ordre symbolique determina ciò che possiamo dire, pensare, essere — ma lo fa sempre a partire da una mancanza originaria. Il desiderio non si riferisce mai all’oggetto reale, ma all’oggetto perduto, all’oggetto che è tale solo perché irraggiungibile. Così, anche il “sì” finale di Molly si rivela ambiguo: non è l’affermazione di un desiderio realizzato, ma il compimento impossibile di un’assenza che si fa verbo. Un “sì” a qualcosa che non c’è, o che c’è solo come fantasma, come ricordo, come impulso non compiuto.
In questa torsione, Joyce si avvicina più a Mallarmé che a qualsiasi romanziere del suo tempo: le néant s’est évaporé en mots, il nulla si è fatto parola. La pagina diventa allora uno spazio di rarefazione, in cui il senso non emerge mai del tutto, ma pulsa nel bianco tra una frase e l’altra, tra una associazione e un’improvvisa epifania corporea — il flusso mestruale, l’odore della pelle, l’eco della madre. Non si tratta di restituire un “io” femminile autentico, bensì di mostrare il corpo-linguaggio nella sua dimensione erotica, simbolica, dolorosa.
Per questo motivo, è utile incrociare la lente lacaniana con quella deleuziana: là dove Lacan inscrive il desiderio nella mancanza, Deleuze e Guattari lo intendono come produzione, come flusso creativo, come macchina desiderante. In Molly, questi due approcci non si escludono, ma convivono come poli di una tensione insolubile: da un lato, il desiderio è effetto di un sistema che lo codifica, lo castra, lo differisce (la différance derridiana); dall’altro, è forza rizomatica, proliferante, irriducibile alla logica binaria del soggetto-oggetto.
Il corpo di Molly, attraversato da ricordi, orgasmi, sogni, inquietudini e frammenti di lingua, è il terreno su cui si gioca questa tensione. Non è un corpo rappresentato, ma un corpo che parla, che suda, che lavora il desiderio nel suo farsi e disfarsi. E in questa corporeità, che è linguaggio e memoria, il soggetto si dissolve: Molly non è un “personaggio”, ma un insieme di forze, di strati temporali, di intensità.
La performatività del suo discorso si gioca tutta nella temporalità: il tempo del monologo non è cronologico, non obbedisce alla freccia lineare della narrazione, ma si organizza come un’architettura intensiva. I ricordi emergono come onde, gli amanti si sovrappongono, la figura materna ritorna come un’ossessione. C’è un tempo dell’orgasmo, un tempo dell’attesa, un tempo della memoria uterina: ogni momento è insieme attuale e potenziale, reale e immaginato, presente e ritardato. Questo tempo è il vero ritmo del monologo: non quello del racconto, ma quello della pulsazione.
E in questo ritmo si afferma il terrore esistenziale, che non è solo paura del vuoto, ma angoscia di essere desiderante in un mondo che non offre mai una risposta definitiva. Molly desidera, ma non sa cosa. Desidera desiderare. E proprio in questa indeterminatezza si apre la possibilità di un pensiero del desiderio che non si cristallizzi mai in identità, che non si chiuda in una forma.
Il desiderio, in Joyce, è anche scrittura. È la scrittura stessa come débordement, come traboccamento del senso. Il monologo non spiega: evoca. È più vicino alla poesia che alla narrazione. E in questo gesto, Joyce si avvicina a una concezione quasi mistica del linguaggio: quella in cui la parola non dice, ma brucia; in cui il significato non è una verità da scoprire, ma un’energia da attraversare.
Questo attraversamento non è pacifico. È doloroso, è solitario, è feroce. Il soggetto si perde. Ma nella perdita — nel fallimento del linguaggio, direbbe Beckett — si apre una nuova possibilità di relazione: una relazione che non si fonda sulla comprensione reciproca, ma sulla co-esistenza nella mancanza. L’altro non è da conquistare, ma da sopportare. La comunicazione non è complicità, ma resistenza condivisa.
Molly Bloom, dunque, non dice “sì” a un uomo o a un’idea, ma alla discontinuità del vivere. Alla condizione umana come esposizione radicale. Alla vulnerabilità come forma di conoscenza. Il “sì” è un atto radicale di accettazione dell’instabilità. È il segno che, pur nella frantumazione del senso, qualcosa continua: la voce, il corpo, la memoria, il desiderio.
Questo è il centro assente del monologo: non una verità, ma una tenuta. Non una risposta, ma una possibilità. Ed è proprio in questa non-risposta che si rivela la sua potenza.
Joyce, con Molly, ha scritto non la fine di un romanzo, ma l’inizio di un nuovo modo di pensare la soggettività, la lingua e l’amore. Ha messo in scena la condizione post-identitaria del soggetto moderno, anticipando il pensiero della differenza, il femminile come pluralità, il corpo come palinsesto.
E alla fine, quel “sì” è tutti i sì. È quello dell’amante, ma anche quello della schiava. È il sì della madre, della dea, della prostituta, della bambina, della santa. È il sì della materia vivente, della carne che desidera, del tempo che si piega su sé stesso. È il sì di chi, pur sapendo che nessuna parola basta, continua a parlare. Di chi, pur sapendo che nessun desiderio si colma, continua a desiderare.
È il sì che ci resta. Il più umano. Il più impossibile.
Molly, o la madre del linguaggio. Abiezione, corpo e scrittura nell’ultimo ventre di Joyce: un’estetica del sangue che parla
Nessun altro “personaggio” letterario del Novecento è, come Molly Bloom, così radicalmente soglia. Soglia del dire, del sentire, dell’esserci. Ma soglia anche del linguaggio stesso — e della sua implosione. È per questo che, quando leggiamo l’ultimo episodio dell’Ulisse, non abbiamo più davanti una donna, né una coscienza, né un monologo: abbiamo un cratere semiotico, un punto limite in cui la letteratura occidentale, e la sua ossessione per il logos, viene trascinata in un ventre che non partorisce senso, ma lo rende liquido. Non è un caso che proprio Julia Kristeva, forse più di ogni altra pensatrice, possa guidarci nell’ascolto di questa voce che non parla ma tracima.
Kristeva, in Pouvoirs de l’horreur e poi in Histoires d’amour, ha scritto che l’abiezione non è soltanto ciò che ripugna, ma ciò che mette in crisi le frontiere dell’identità, del sistema, dell’ordine. È un fenomeno liminale: né dentro né fuori, né pienamente oggetto né più soggetto. È il sangue che cola e non si arresta, la pelle che si scolla, l’odore del latte rancido, l’eco del corpo materno non ancora simbolizzato, la voce della madre che nutre e stritola. Ecco: Molly Bloom è l’epitome letteraria dell’abiezione. Ma è anche — e per questo — l’utero segreto della modernità letteraria.
Il suo monologo, che chiude l’Ulisse, è la riscrittura del mondo dal corpo. Non dal corpo come tema, ma come fonte grammaticale. Non c’è discorso su Molly: c’è un discorso di Molly, attraverso Molly, senza Molly. C’è una voce che si smembra, che si contamina, che si riassorbe. È qui che la riflessione di Kristeva sul corpo materno come origine repressa si connette in modo profondissimo con Joyce, e lo sovverte da dentro. Perché Joyce non scrive una donna: Joyce si lascia scrivere dal femminile come resto irriducibile del simbolico.
I. Il linguaggio come placenta
Il monologo non ha punteggiatura. Questo non è un vezzo stilistico. È un trauma sintattico. Un mancamento di frontiera. È la forma tipica dell’abietto, che per definizione non può essere contenuto, perché è materia liminale. La placenta è abietta: è nutrimento e scarto. Il sangue mestruale è abietto: è promessa e perdita. Molly scrive — o meglio: ci scrive — da lì. Da una zona dove il senso non si stabilizza, ma pulsa. Il lettore, come il figlio, è immerso in questo liquido semantico, dove le parole non dicono ma nutrono, o asfissiano.
Il corpo materno, in Kristeva, è la prima casa e la prima espulsione. È ciò da cui veniamo e ciò che dobbiamo dimenticare per entrare nel mondo del significante, cioè del nome, cioè della Legge. Ma Joyce fa il contrario: torna là. Rende il romanzo — forma logocentrica per eccellenza — un utero linguistico. Il romanzo non si conclude: si dilata. Il tempo non finisce: si arrotola. La trama non si chiude: si allarga come una cervice.
Molly non è madre perché ha avuto un figlio. Molly è madre perché rende fertile la lingua. È la madre della letteratura al femminile che non vuole essere femminista, ma archetipa, originaria, primigenia. È la Grande Madre senza allegoria. Non l’icona del potere, ma la digestione del simbolico stesso.
II. L’abiezione come forma di pensiero
Il pensiero, per Kristeva, non è solo concetto. È anche spasmo. Nausea. Conato. Pensare l’abietto significa non poter pensare senza sentire. Molly pensa col corpo. Ricorda con l’utero. Evoca con la pelle. Non c’è distanza analitica: c’è fusione sensoriale. Eppure, non è regressione. Non è mistica. È resistenza politica. È un pensiero che non costruisce, ma mastica e sputa.
Nel monologo, il ricordo del figlio morto (Rudy) non è un trauma elaborato, ma una macchia che ritorna. Lì si annida l’abiezione: nel latente che non può diventare narrazione. L’abietto è ciò che non si dice, ma continua a sanguinare tra le righe. L’abietto è il figlio che non c’è, il figlio abortito dal senso. È anche il desiderio che non si spegne, la voglia di carne anche nella vedovanza uterina, il diritto a desiderare anche da madre, anche da lutto.
III. L’osceno come verità
Molly è oscena. Ma l’osceno non è ciò che è triviale. È ciò che non può stare in scena. È ciò che sta dietro, fuori campo, nella piega. L’abiezione, in quanto tale, è oscena per definizione. Non è pornografia. È liturgia rovesciata. È ciò che l’arte non dovrebbe mostrare. Il corpo che invecchia. Il sesso che si ripete. Il sudore. I peli. I ricordi lascivi di un tempo che non torna. La carne che non obbedisce più.
Molly fa esplodere il principio di rappresentazione borghese. Non è la donna ideale. È la donna che resiste all’ideale. È l’anti-Beatrice. È l’anti-musa. Non ispira: genera. E genera sporcando, confondendo, vomitando memoria.
IV. Genealogia della madre letteraria
Se leggiamo Molly come punto d’origine, tutto ciò che viene dopo può essere ripensato come eco uterina. Hélène Cixous, con la sua écriture féminine, non nasce nel vuoto: nasce in Molly. Clarice Lispector, con la sua sintassi che si rompe come pelle ustionata, è figlia di Molly. Anche Beckett, pur apparentemente asessuato, scrive con il terrore del corpo materno negli occhi. Tutta la modernità che ha abbandonato la narrazione lineare, che ha fatto del corpo una grammatica, ha in Molly la sua Eva.
Ma è una Eva senza caduta. Una Eva che non viene espulsa, ma espelle. Che non è vittima del serpente, ma serpente stesso. Che parla da un Eden sporco, confuso, ma vero.
V. Pulsione di morte e semiotica
Kristeva insiste: l’abietto è anche una pulsione di morte. Il desiderio di annullare i confini è anche desiderio di non esistere più come soggetto separato. In Molly c’è questo desiderio. Il “sì” finale non è solo un’assenso alla vita. È un “sì” alla fine del logos. Un sì al caos. Un sì al flusso.
Eppure, paradossalmente, proprio questo flusso è scrittura. Non disgregazione, ma forma altra. La semiotica kristeviana si basa sull’idea che accanto al linguaggio simbolico esista una lingua primaria, fatta di suoni, di ritmi, di cadenze che precedono il significato. Il monologo di Molly è questo. È una semiotica uterina. È musica carnale. È prosodia del grembo.
VI. Conclusione (che non è una conclusione)
Scrivere è sempre, in fondo, una lotta contro l’abiezione o una resa ad essa. Joyce si arrende. Scrive come se la madre che ha perduto — perché ogni uomo ha perso una madre — parlasse attraverso di lui. Ma non come spirito. Come corpo. Joyce fa del corpo un codice. Del codice, un ritmo. Del ritmo, una voce che non chiude. Non chiude perché non può. Perché ciò che è abietto non si chiude mai. Sangue, latte, liquido seminale, saliva — scrittura mollyana.
E allora quel “sì”, quel multiplo “sì” che chiude l’Ulisse, non è una risposta. È una invocazione. È una espulsione del simbolico. È una nascita scritta all’incontrario. È un orgasmo che coincide con un lutto. È un atto linguistico che partorisce l’abisso.
Lì, dove muore il romanzo, nasce la voce.
La voce di una madre che non chiede di essere capita, ma riconosciuta.
Che dice: “sono ancora qui”.
Che dice: “non mi avete espulsa del tutto”.
Che dice — nella lingua che sanguina —: “sì”.
Fammi sapere se vuoi che continui ancora con:
– ;
– una sezione comparativa con Lezioni di abiezione di Anne Carson;
– o un’analisi del “sì” joyciano in chiave performativa e psico-linguistica secondo Judith Butler.
Molly, Duras, Lispector: genealogia uterina della scrittura. L’eredità del monologo e la rivoluzione carnale del linguaggio femminile nel Novecento
Volentieri, ecco un’espansione molto più ampia e articolata del testo, triplicata nella lunghezza, con analisi ancora più dettagliate e ricche, intrecci di riferimenti teorici e letterari, e un’esplorazione profonda del tema:
Molly, Duras, Lispector: genealogia uterina della scrittura. L’eredità del monologo e la rivoluzione carnale del linguaggio femminile nel Novecento
Nel chiudere l’Ulisse con quel celeberrimo e potentissimo “sì” – un “sì” che è insieme ventre, orgasmo, promessa e ritorno – James Joyce non solo corona il modernismo europeo, ma spalanca una breccia profonda e gravida nella struttura stessa della lingua e della letteratura occidentale. In quel flusso ininterrotto di coscienza, in quella voce femminile che si fa carne viva, il testo si fa corpo, la parola diventa sangue pulsante, ritmo organico. Molly Bloom parla da dentro, da sotto, da prima – non è più solo un personaggio narrativo, è la voce dell’uomo che ha saputo farsi donna, è la lingua che osa abbandonare ogni forma di controllo per farsi flusso puro, materia incandescente.
Ma l’eredità di Molly non si limita all’atto singolare di Joyce. Da quel flusso impuro, impunito, nacquero molte voci future, in una genealogia che è più che letteraria: è uterina, carnale, prelogica, prima ancora che simbolica. È la genealogia di donne che scrivono con la pelle aperta e la sintassi contaminata, che plasmano la loro scrittura secondo ritmi più simili al corpo che alla mente razionale. Attraverso il Novecento, molte voci femminili si sono nutriti di questo lascito mollyano, rielaborandolo in modi radicalmente diversi ma tutti centrati sulla restituzione di una soggettività carnale, instabile, frammentata, che rifiuta il controllo patriarcale del discorso.
I. Dal monologo all’utero: il lascito formale e carnale di Molly
Il monologo di Molly Bloom, scritto come un flusso di coscienza di oltre cinquantamila parole, senza quasi punteggiatura, non è solo una rivoluzione stilistica: è un parto linguistico, un’uscita violenta e fertile dalla gabbia dell’ordine simbolico patriarcale. In quell’esplosione di pensiero libero e incontrollato, Joyce abbatte l’idea stessa di narrazione lineare, di tempo cronologico e di identità stabile. La lingua diventa liquida, entra in risonanza con il corpo, si fa sangue mestruale, liquido amniotico, flusso di vita e di morte. Molly non organizza, non spiega, non ordina: tracima. Ed è proprio questo tracimare che ha generato una nuova forma di racconto, un modo di scrivere che si fa carne.
Con questo gesto, Joyce crea il primo esempio di scrittura che può essere definita femminile dal di dentro, indipendentemente dal sesso dell’autore. Molly diventa il simbolo della voce che non deve più chiedere permesso, della soggettività che si appropria della lingua per lasciarsi andare al flusso del desiderio, della memoria, dell’angoscia e della sensualità. Da qui nasce una rivoluzione sotterranea, che attraverserà il Novecento e si manifesterà in forme diversissime nelle opere di Marguerite Duras, Clarice Lispector, Ingeborg Bachmann, Hélène Cixous, e più tardi Annie Ernaux, Assia Djebar, Igiaba Scego. Tutte queste scrittrici, in modi differenti, raccolgono e trasformano quella voce gravida e traboccante.
II. Duras: l’analfabetismo sensuale e la parola senza oggetto
Marguerite Duras è una delle più profonde eredi di questo lascito mollyano. La sua scrittura è caratterizzata da un’evaporazione della lingua: il testo si svuota di punteggiatura, di ordine sintattico, e si fa ossessivo, spettrale. Se Molly è carne che parla e tracima, Duras è la memoria di una carne che ha smesso di sanguinare, una carne che pulsa ma è al tempo stesso fantasma. Il suo linguaggio è un’anamnesi dolorosa, la parola è frammento, sospensione, ritorno ossessivo e perdita.
Nei suoi romanzi come L’amante, Il dolore e Moderato cantabile, le protagoniste sembrano parlare con la stessa voce di Molly, ma la loro ricerca non è più l’amore o l’unione: è l’assenza, il vuoto, il silenzio dopo la perdita, la ferita insanabile del lutto. Loro monologano per sparire, per farsi nulla, per raccontarsi “nel dopo”, nel “mai più”, nell’“abbandono”. Sono madri senza figli, amanti senza amati, donne che hanno conosciuto il linguaggio e scelto di tradirlo, di lasciarlo andare.
La voce di Duras è uterina al contrario: non partorisce più, ma assorbe, ingloba la mancanza, si fa vuoto. La carne diventa fantasma. Eppure la sua scrittura resta profondamente sessuale perché desidera senza mai nominare il desiderio, parla dell’amore come impossibilità e tragedia. Scrive dal corpo della mancanza, dalla vagina senza stimolo, dall’abisso del dolore e della guerra, dopo la morte del figlio, dopo la perdita definitiva.
III. Lispector: il corpo che pensa senza sapere
Clarice Lispector è forse la più radicale delle figlie mollyane. Nelle sue opere, l’io è sempre un io che si dissolve, che si scompone in mille frammenti. Non c’è narrazione lineare, non c’è sviluppo psicologico o trama: c’è un flusso di coscienza che pulsa come un cuore ferito, una grammatica infettata dal mondo, una scrittura che si fa corpo e sangue. Acqua viva è una delle sue opere più emblematiche: un flusso continuo, senza inizio né fine, simile a una placenta letteraria, una lingua che è materia viva e in divenire.
In Lispector, la parola diventa ossessione, miracolo, spasmo. Ogni frase è un tentativo di sondare il fondo dell’essere, di toccare l’indicibile. In L’ora della stella, il narratore, un uomo, tenta di raccontare una donna che non può raccontarsi: un tentativo di avvicinarsi all’abiezione, al silenzio e all’inconscio più profondo, senza poterlo mai contenere o comprendere appieno.
Lispector riprende da Molly la frattura dell’io, la ferita del pensiero, l’enigma della sessualità e soprattutto il tema della corporeità interiore. Scrive la carne che sente, l’inconscio che sanguina, Dio come organo mancante, l’assenza come ultimo grembo. La sua è una scrittura di sangue e silenzio, di solitudine e mistero.
IV. Cixous, Bachmann, Colette: voci uterine
Hélène Cixous conia il concetto di écriture féminine proprio per teorizzare ciò che Molly aveva già realizzato: una scrittura che nasce dal corpo, dalla sessualità, dall’eros, e che rifiuta la forma, la struttura, il logos maschile. Nel suo celebre saggio Il riso della Medusa, Cixous denuncia la sintassi fallica, la razionalità che taglia e divide, e propone una scrittura che connette, lava, trascina. La sua lingua è una vagina che ride, è un flusso vitale e corrosivo, un ritorno al corpo originario.
Ingeborg Bachmann rappresenta la figlia tragica di Molly. La sua scrittura è lutto, ferita, trauma, la scrittura dopo l’invaso, dopo la guerra, dopo la distruzione. La sua lingua è uterina, ma ridotta a cenere, una lingua che sopravvive ma non riesce più a fiorire, che racconta la perdita e la devastazione.
Colette, con la sua scrittura del corpo felice e del piacere, è una Molly ante litteram. Scrive la pelle che gode, la carne che sente, l’amante che è anche soggetto, rompendo con la tradizione patriarcale di una donna narrata come oggetto. La sua è una voce femminile che anticipa molti dei temi successivi.
V. Contemporanee: Ernaux, Djebar, Scego
Nel Novecento tardo e nel contemporaneo, la tradizione mollyana si rinnova e si trasforma in chiave politica e sociale. Annie Ernaux usa la scrittura autobiografica per raccontare il corpo che invecchia, che sanguina, che si trasforma nel tempo. Nei suoi libri (Il posto, Gli anni, Il giovane), Ernaux fa della scrittura un atto di resistenza contro la cancellazione sociale, restituendo voce ai segreti e ai tabù del corpo femminile: le mestruazioni, l’aborto, il desiderio maturo, il lutto. La sua è una sociologia dell’utero che pone il corpo al centro del racconto della memoria e dell’identità.
Assia Djebar prende Molly e la traduce nel trauma postcoloniale, nel corpo e nella voce delle donne arabe, cancellate dalla storia ufficiale. Le sue protagoniste parlano in coro, in pianto, in canto, dando voce a un corpo collettivo che si è fatto parola rituale e resistenza politica.
Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala, porta questa eredità in Italia con una lingua ibrida, diasporica, imperfetta, che parla da dentro la condizione migrante e femminile, rinnovando ancora la tradizione del flusso mollyano e del corpo come luogo di parola.
VI. Contraddizione strutturale: romanzo patriarcale e flusso mollyano
Il romanzo è da sempre una forma che ha codificato e contenuto la voce, lo spazio, il tempo. La sua architettura – fatta di intreccio, sviluppo, punto di vista, climax e risoluzione – è specchio dell’ordine patriarcale e della razionalità illuminista: un soggetto centrale, un percorso lineare, una trasformazione governata dal conflitto e dal dominio. Storicamente, il romanzo ha raccontato uomini che agivano e donne che venivano osservate, trasformate in oggetti narrativi, subordinati a funzioni simboliche e narrative.
Il flusso mollyano irrompe come un corpo che rifiuta questa logica e questa struttura. Non vuole essere spiegato o contenuto, non vuole essere interpretato: è caos, flusso, vita impetuosa e indomabile. Il tempo del monologo è ciclico, discontinuo, uterino. Lo spazio è interiore, poroso, pulsante. Il ritmo è quello del sangue che scorre, non quello della trama razionale. Il monologo finale dell’Ulisse rappresenta una vera e propria catastrofe strutturale, l’implosione del romanzo come edificio maschile, rigido, ordinato.
Molly non abita la casa narrativa, la inonda. Non entra nella struttura: la scioglie, la liquefa. La sua voce è una marea che travolge il senso e la linearità. Questa irriducibilità è anche una feroce critica alla pretesa del romanzo-patriarcale di contenere e rappresentare tutta l’esperienza umana entro confini rassicuranti e definiti. La scrittura mollyana nasce dal margine, dal bordo, dall’ombra, e con la sua potenza disgrega il centro.
Con piacere, ecco un ampliamento ancora più esteso e articolato del testo, triplicando ulteriormente la lunghezza, con un’esplorazione ancora più profonda e dettagliata delle figure matrici nel mito e nel modernismo, dei loro simbolismi, delle implicazioni culturali e letterarie, nonché delle connessioni con la scrittura femminile contemporanea. Il discorso si sviluppa in una narrazione densa, che intreccia fonti, riferimenti teorici, esempi letterari e riflessioni critiche, per offrire una mappa mitopoietica e culturale complessa e sfaccettata.
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VIII. Figure matrici: mitopoiesi tra mito e modernismo e oltre
Per cogliere appieno la portata rivoluzionaria della scrittura mollyana e della sua discendenza nella letteratura femminile del Novecento, è necessario risalire al nucleo mitopoietico, ovvero alla capacità del mito di generare non solo narrazioni ma strutture profonde della soggettività, della parola e del corpo. I miti, nella loro essenza, sono dispositivi simbolici capaci di modellare le modalità con cui le culture pensano l’origine, la vita, la morte, il desiderio, l’identità e la relazione con l’altro. Lungi dall’essere semplici racconti, essi costituiscono una sorta di grammatica invisibile del mondo, un codice originario da cui derivano le strutture simboliche e immaginative che plasmano il reale e l’esperienza umana.
Le figure matrici, ovvero quelle archetipiche legate alla maternità, alla fecondità, alla nascita, ma anche al potere oscuro e liminale del femminile, sono al centro di questa mitopoiesi. Sono presenze ancestrali che agiscono come nodi simbolici e psicologici attraverso i quali si esprime la complessità dell’esperienza umana, in particolare quella femminile, così spesso marginalizzata o repressa nelle culture patriarcali.
Queste figure non si limitano a rappresentare la “madre” in senso biologico o sociale, ma incarnano dimensioni complesse e talvolta contraddittorie: sono simboli di creazione e distruzione, di accoglienza e di rifiuto, di luce e ombra, di vita e di morte. Attraversano il mito greco, egizio, indigeno, africano, asiatico, assumendo forme diverse ma riconoscibili come espressioni della stessa matrice simbolica.
Nel contesto del modernismo e poi della letteratura femminile del Novecento, queste figure vengono rilette e riformulate con una forza e una complessità nuove, che ne fanno il cuore pulsante di un’operazione mitopoietica radicale: la scrittura come creazione continua di nuovi miti, la parola come flusso vitale e trasformativo che rinnova le forme della soggettività e della cultura.
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1. La Dea Madre: archetipo universale e sua trasformazione moderna
La Dea Madre è forse la figura più antica e universale della mitopoiesi umana. Rappresenta la terra fertile, il grembo originario, la fonte da cui nasce e a cui ritorna tutto ciò che vive. Questa dea è al contempo creatrice e distruttrice, benevola e feroce, incarnazione della ciclicità eterna della natura e dell’esistenza.
Nei miti antichi, come quelli delle culture preistoriche, della Mesopotamia o della Grecia primitiva, la Dea Madre è associata a simboli come il serpente, la luna, la terra, il sangue mestruale: elementi che evocano il potere generativo e rigenerativo, ma anche il lato oscuro e selvaggio della natura femminile.
Nel modernismo, e in particolare nella scrittura mollyana, la Dea Madre si trasforma: non è più una presenza distante e simbolica, ma una voce che nasce dal corpo, dalla carne viva e pulsante. Molly Bloom incarna questa trasformazione, restituendo al mito una forma nuova e radicale, dove la parola si fa corpo e il corpo si fa parola. La lingua diventa un flusso continuo, un parto incessante di pensieri, ricordi, desideri, pulsioni.
Questa nuova Dea Madre è instabile, ambivalente, complessa. Non è più la figura mitica idealizzata e statica, ma un archetipo vivo, che si costruisce e si deforma nella scrittura, nel flusso di coscienza, nella coscienza frammentata e plurale.
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2. Persefone: il mito del viaggio e della trasformazione
La figura di Persefone è centrale nel pensiero mitopoietico moderno perché rappresenta il ciclo di morte e rinascita, un archetipo universale di trasformazione profonda. Persefone scende negli inferi e ritorna, attraversa le tenebre per rinascere alla luce. Questo mito è metafora del viaggio nell’inconscio, della discesa nel proprio abisso interiore e della risalita in una nuova forma di consapevolezza.
Molte delle voci femminili del Novecento si inscrivono in questo archetipo: il loro processo creativo è una discesa nei territori oscuri dell’esperienza, del trauma, del desiderio proibito, per poi emergere con una nuova lingua, una nuova coscienza, un nuovo senso del sé. Nel monologo mollyano, la coscienza fluisce attraverso questa discesa e risalita, oscillando tra ricordi dolorosi, desideri inconfessati, solitudine e speranza.
Persefone è simbolo della soggettività fluida e trasformativa, della capacità femminile di attraversare confini e limiti sociali, culturali e psicologici, uscendo dalla posizione passiva o subalterna e assumendo un ruolo attivo nel racconto di sé.
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3. Medea: la donna ribelle e la sovversione del potere
Medea è una delle figure femminili mitiche più complesse e controversie: è colei che rompe i patti, che sovverte l’ordine, che usa la propria intelligenza e potenza per sfidare il patriarcato. Madre e assassina, maga e vittima, Medea incarna la sovversione radicale del ruolo femminile tradizionale, il conflitto tra amore e vendetta, creazione e distruzione.
Nel Novecento, la figura di Medea viene spesso ripresa come simbolo di ribellione e di potere femminile oscuro, come metafora della scrittura come atto di rottura e trasformazione. La parola diventa arma e scudo, voce che non si piega alle aspettative sociali ma si impone come forza rivoluzionaria.
Il monologo di Molly Bloom, con la sua potenza travolgente e la sua rottura della linearità narrativa, può essere visto come una forma di Medea linguistica: la voce femminile che rompe il silenzio, sfida l’ordine simbolico e rivendica il proprio diritto a esistere e a parlare senza mediazioni.
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4. Medusa: ambivalenza, terrore e potere creativo
La Medusa è uno degli archetipi più ambivalenti e affascinanti della mitologia femminile: il suo sguardo pietrificante è simbolo di terrore e potere insieme, la sua figura oscilla tra bellezza e mostruosità, seduzione e minaccia.
Nella filosofia e nella critica femminista contemporanea, Medusa è stata riabilitata come emblema della forza creativa repressa e demonizzata dal discorso patriarcale. Hélène Cixous, nel suo celebre saggio Il riso della Medusa, ne fa il simbolo di una scrittura femminile che sfida la logica maschile, che si esprime attraverso un linguaggio libero, fluido, corporeo.
Nel monologo mollyano, la lingua si fa questa Medusa che guarda senza paura, che trasforma la parola in potere, che sfida le norme e i confini imposti, producendo un linguaggio nuovo e rivoluzionario.
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5. Il rito di passaggio della parola: dalla nascita alla trasformazione
Il monologo di Molly Bloom e le scritture femminili che ne derivano possono essere interpretati come veri e propri riti di passaggio, processi di trasformazione che coinvolgono corpo, parola e soggettività. Questi riti si svolgono al confine tra la morte dell’io tradizionale, logico e controllato, e la nascita di una nuova forma di sé, fluida, complessa, aperta alle contraddizioni e alle possibilità del desiderio.
La scrittura diventa così un luogo sacro e liminale, un tempo e uno spazio di trasformazione continua, dove la parola nasce dal corpo e richiama la potenza mitica delle figure matrici, trasformandole e rendendole vive nel presente.
Attraverso questo rito, le scrittrici si riappropriano del linguaggio, lo plasmano secondo i ritmi della carne e dell’esperienza, e creano nuove modalità di senso, identità ed esistenza.
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6. Mito e modernismo: una dialettica feconda
L’intreccio tra mito e modernismo non è mai stato semplicemente un revival o una nostalgia, bensì un dialogo vivo e complesso, una dialettica feconda che ha permesso di rinnovare le forme espressive e i contenuti della letteratura.
Joyce, con il suo Ulisse e il monologo di Molly, reinterpreta il mito come esperienza quotidiana, come flusso di coscienza, come battito del cuore e respiro del corpo. I miti si fanno carne viva nel linguaggio, che si fa flusso, rumore, canto e pianto. In questo modo, il mito abbandona la sacralità distante per farsi parola impura, contraddittoria, fragile e potente.
Questa eredità sarà raccolta e rielaborata dalle scrittrici del Novecento, che ne faranno un luogo di lotta e di creazione, un modo per sfidare le imposizioni culturali e trovare una propria voce autentica e rivoluzionaria.
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7. La mitopoiesi come resistenza culturale e politica
Infine, è fondamentale riconoscere che la mitopoiesi nella scrittura mollyana e femminile non è mai un semplice gioco letterario o estetico, ma un atto di resistenza politica e culturale. Attraverso la riscrittura delle figure matrici, la reinvenzione del mito e la trasformazione della parola, queste scritture si oppongono alle strutture di potere che hanno storicamente silenziato Con piacere, ecco un ampliamento ancora più esteso e articolato del testo, triplicando ulteriormente la lunghezza, con un’esplorazione ancora più profonda e dettagliata delle figure matrici nel mito e nel modernismo, dei loro simbolismi, delle implicazioni culturali e letterarie, nonché delle connessioni con la scrittura femminile contemporanea. Il discorso si sviluppa in una narrazione densa, che intreccia fonti, riferimenti teorici, esempi letterari e riflessioni critiche, per offrire una mappa mitopoietica e culturale complessa e sfaccettata.
VIII. Figure matrici: mitopoiesi tra mito e modernismo e oltre
Per cogliere appieno la portata rivoluzionaria della scrittura mollyana e della sua discendenza nella letteratura femminile del Novecento, è necessario risalire al nucleo mitopoietico, ovvero alla capacità del mito di generare non solo narrazioni ma strutture profonde della soggettività, della parola e del corpo. I miti, nella loro essenza, sono dispositivi simbolici capaci di modellare le modalità con cui le culture pensano l’origine, la vita, la morte, il desiderio, l’identità e la relazione con l’altro. Lungi dall’essere semplici racconti, essi costituiscono una sorta di grammatica invisibile del mondo, un codice originario da cui derivano le strutture simboliche e immaginative che plasmano il reale e l’esperienza umana.
Le figure matrici, ovvero quelle archetipiche legate alla maternità, alla fecondità, alla nascita, ma anche al potere oscuro e liminale del femminile, sono al centro di questa mitopoiesi. Sono presenze ancestrali che agiscono come nodi simbolici e psicologici attraverso i quali si esprime la complessità dell’esperienza umana, in particolare quella femminile, così spesso marginalizzata o repressa nelle culture patriarcali.
Queste figure non si limitano a rappresentare la “madre” in senso biologico o sociale, ma incarnano dimensioni complesse e talvolta contraddittorie: sono simboli di creazione e distruzione, di accoglienza e di rifiuto, di luce e ombra, di vita e di morte. Attraversano il mito greco, egizio, indigeno, africano, asiatico, assumendo forme diverse ma riconoscibili come espressioni della stessa matrice simbolica.
Nel contesto del modernismo e poi della letteratura femminile del Novecento, queste figure vengono rilette e riformulate con una forza e una complessità nuove, che ne fanno il cuore pulsante di un’operazione mitopoietica radicale: la scrittura come creazione continua di nuovi miti, la parola come flusso vitale e trasformativo che rinnova le forme della soggettività e della cultura.
1. La Dea Madre: archetipo universale e sua trasformazione moderna
La Dea Madre è forse la figura più antica e universale della mitopoiesi umana. Rappresenta la terra fertile, il grembo originario, la fonte da cui nasce e a cui ritorna tutto ciò che vive. Questa dea è al contempo creatrice e distruttrice, benevola e feroce, incarnazione della ciclicità eterna della natura e dell’esistenza.
Nei miti antichi, come quelli delle culture preistoriche, della Mesopotamia o della Grecia primitiva, la Dea Madre è associata a simboli come il serpente, la luna, la terra, il sangue mestruale: elementi che evocano il potere generativo e rigenerativo, ma anche il lato oscuro e selvaggio della natura femminile.
Nel modernismo, e in particolare nella scrittura mollyana, la Dea Madre si trasforma: non è più una presenza distante e simbolica, ma una voce che nasce dal corpo, dalla carne viva e pulsante. Molly Bloom incarna questa trasformazione, restituendo al mito una forma nuova e radicale, dove la parola si fa corpo e il corpo si fa parola. La lingua diventa un flusso continuo, un parto incessante di pensieri, ricordi, desideri, pulsioni.
Questa nuova Dea Madre è instabile, ambivalente, complessa. Non è più la figura mitica idealizzata e statica, ma un archetipo vivo, che si costruisce e si deforma nella scrittura, nel flusso di coscienza, nella coscienza frammentata e plurale.
2. Persefone: il mito del viaggio e della trasformazione
La figura di Persefone è centrale nel pensiero mitopoietico moderno perché rappresenta il ciclo di morte e rinascita, un archetipo universale di trasformazione profonda. Persefone scende negli inferi e ritorna, attraversa le tenebre per rinascere alla luce. Questo mito è metafora del viaggio nell’inconscio, della discesa nel proprio abisso interiore e della risalita in una nuova forma di consapevolezza.
Molte delle voci femminili del Novecento si inscrivono in questo archetipo: il loro processo creativo è una discesa nei territori oscuri dell’esperienza, del trauma, del desiderio proibito, per poi emergere con una nuova lingua, una nuova coscienza, un nuovo senso del sé. Nel monologo mollyano, la coscienza fluisce attraverso questa discesa e risalita, oscillando tra ricordi dolorosi, desideri inconfessati, solitudine e speranza.
Persefone è simbolo della soggettività fluida e trasformativa, della capacità femminile di attraversare confini e limiti sociali, culturali e psicologici, uscendo dalla posizione passiva o subalterna e assumendo un ruolo attivo nel racconto di sé.
3. Medea: la donna ribelle e la sovversione del potere
Medea è una delle figure femminili mitiche più complesse e controversie: è colei che rompe i patti, che sovverte l’ordine, che usa la propria intelligenza e potenza per sfidare il patriarcato. Madre e assassina, maga e vittima, Medea incarna la sovversione radicale del ruolo femminile tradizionale, il conflitto tra amore e vendetta, creazione e distruzione.
Nel Novecento, la figura di Medea viene spesso ripresa come simbolo di ribellione e di potere femminile oscuro, come metafora della scrittura come atto di rottura e trasformazione. La parola diventa arma e scudo, voce che non si piega alle aspettative sociali ma si impone come forza rivoluzionaria.
Il monologo di Molly Bloom, con la sua potenza travolgente e la sua rottura della linearità narrativa, può essere visto come una forma di Medea linguistica: la voce femminile che rompe il silenzio, sfida l’ordine simbolico e rivendica il proprio diritto a esistere e a parlare senza mediazioni.
4. Medusa: ambivalenza, terrore e potere creativo
La Medusa è uno degli archetipi più ambivalenti e affascinanti della mitologia femminile: il suo sguardo pietrificante è simbolo di terrore e potere insieme, la sua figura oscilla tra bellezza e mostruosità, seduzione e minaccia.
Nella filosofia e nella critica femminista contemporanea, Medusa è stata riabilitata come emblema della forza creativa repressa e demonizzata dal discorso patriarcale. Hélène Cixous, nel suo celebre saggio Il riso della Medusa, ne fa il simbolo di una scrittura femminile che sfida la logica maschile, che si esprime attraverso un linguaggio libero, fluido, corporeo.
Nel monologo mollyano, la lingua si fa questa Medusa che guarda senza paura, che trasforma la parola in potere, che sfida le norme e i confini imposti, producendo un linguaggio nuovo e rivoluzionario.
5. Il rito di passaggio della parola: dalla nascita alla trasformazione
Il monologo di Molly Bloom e le scritture femminili che ne derivano possono essere interpretati come veri e propri riti di passaggio, processi di trasformazione che coinvolgono corpo, parola e soggettività. Questi riti si svolgono al confine tra la morte dell’io tradizionale, logico e controllato, e la nascita di una nuova forma di sé, fluida, complessa, aperta alle contraddizioni e alle possibilità del desiderio.
La scrittura diventa così un luogo sacro e liminale, un tempo e uno spazio di trasformazione continua, dove la parola nasce dal corpo e richiama la potenza mitica delle figure matrici, trasformandole e rendendole vive nel presente.
Attraverso questo rito, le scrittrici si riappropriano del linguaggio, lo plasmano secondo i ritmi della carne e dell’esperienza, e creano nuove modalità di senso, identità ed esistenza.
6. Mito e modernismo: una dialettica feconda
L’intreccio tra mito e modernismo non è mai stato semplicemente un revival o una nostalgia, bensì un dialogo vivo e complesso, una dialettica feconda che ha permesso di rinnovare le forme espressive e i contenuti della letteratura.
Joyce, con il suo Ulisse e il monologo di Molly, reinterpreta il mito come esperienza quotidiana, come flusso di coscienza, come battito del cuore e respiro del corpo. I miti si fanno carne viva nel linguaggio, che si fa flusso, rumore, canto e pianto. In questo modo, il mito abbandona la sacralità distante per farsi parola impura, contraddittoria, fragile e potente.
Questa eredità sarà raccolta e rielaborata dalle scrittrici del Novecento, che ne faranno un luogo di lotta e di creazione, un modo per sfidare le imposizioni culturali e trovare una propria voce autentica e rivoluzionaria.
7. La mitopoiesi come resistenza culturale e politica
Infine, è fondamentale riconoscere che la mitopoiesi nella scrittura mollyana e femminile non è mai un semplice gioco letterario o estetico, ma un atto di resistenza politica e culturale. Attraverso la riscrittura delle figure matrici, la reinvenzione del mito e la trasformazione della parola, queste scritture si oppongono alle strutture di potere che hanno storicamente silenziato o manipolato la voce femminile.
Il mito diventa così uno strumento di riappropriazione del corpo, della soggettività e della storia, un modo per reclamare spazi di libertà e di riconoscimento in una cultura spesso ostile e limitante.
Il flusso mollyano, con tutta la sua complessità e ambivalenza, si configura come un ritorno alla fonte originaria del linguaggio e della vita, una rinascita continua e rivoluzionaria che abita le profondità oscure e luminose del mito, del corpo e della parola.
Volentieri, ecco un approfondimento notevolmente esteso e articolato che triplica la lunghezza del testo precedente, approfondendo ulteriormente il rapporto tra figure mitiche e teoria psicoanalitica, analizzando più dettagliatamente autrici e opere che incarnano questa mitopoiesi, e ampliando l’esplorazione sulle espressioni nelle arti visive, teatrali e cinematografiche. Il testo intende offrire una panoramica ricca, stratificata e interdisciplinare, capace di restituire la complessità e la potenza di queste tematiche nel Novecento e oltre.
IX. Figure mitiche e teoria psicoanalitica: un dialogo profondo e articolato
La relazione tra mito e teoria psicoanalitica si configura come un terreno privilegiato per indagare la costruzione della soggettività e la funzione del desiderio e del corpo nella formazione dell’identità. Freud, Lacan e le successive scuole di pensiero hanno infatti rivoluzionato il modo di intendere le figure mitiche, spostandole da mere narrazioni culturali a veri e propri vettori psichici, archetipi che influenzano profondamente la psiche individuale e collettiva.
A. La Dea Madre e il complesso edipico: radici e contraddizioni
In Freud, la figura della madre è centrale come primo oggetto d’amore e di desiderio del bambino, ma è anche fonte di conflitti profondi che strutturano la psiche. La Dea Madre, archetipo antico e universale, rappresenta una figura totalizzante, in grado di dare vita e sostentamento, ma anche di trattenere e dominare. Questa ambivalenza genera il conflitto edipico, nel quale il bambino deve separarsi da questa figura materna originaria per entrare nell’ordine simbolico rappresentato dalla legge paterna.
Freud vede quindi nel mito materno la radice di molte dinamiche psichiche, dove il desiderio, la paura, la colpa e la rimozione si intrecciano. La separazione dalla madre è il passaggio fondamentale per la costruzione dell’identità, ma è anche una fonte di perdita e di nostalgia, di un legame originario che non si potrà mai ricostruire pienamente.
B. Lacan e la funzione simbolica della madre: madre, corpo e linguaggio
Jacques Lacan rielabora questa dinamica enfatizzando il ruolo dell’ordine simbolico, ovvero il sistema di linguaggio, leggi e norme sociali che mediano la nostra esperienza e strutturano il desiderio. La madre, nella sua ambivalenza, è il primo interlocutore del bambino, ma è anche l’“altro primordiale”, colui che introduce il bambino nella dimensione dell’alterità e del linguaggio.
Per Lacan, il corpo della madre è al contempo fonte di piacere (la madre come “altro del godimento”) e limite, poiché la sua presenza totale è impossibile da raggiungere simbolicamente. Questo genera una frattura, una mancanza che è al centro del desiderio umano.
Il mito della Dea Madre e le sue trasformazioni possono dunque essere letti come rappresentazioni di questo rapporto complesso tra corpo, piacere, simbolico e inconscio. Il corpo materno è il luogo del desiderio originario, ma anche della separazione, del trauma e della mancanza.
C. Persefone: la discesa agli inferi come archetipo dell’inconscio
Il mito di Persefone, che scende negli inferi per poi risalire trasformata, diventa una metafora potente per la discesa nell’inconscio e la trasformazione del soggetto. Freud e Jung hanno entrambi riconosciuto in questa figura un simbolo di morte e rinascita psichica: la necessità di affrontare le parti più oscure di sé per poter evolvere e integrarsi.
Nel lavoro terapeutico psicoanalitico, la discesa negli inferi è il processo di esplorazione delle parti rimosse, dolorose o negate della psiche, il confronto con le proprie ombre per poterle comprendere e trasformare. Persefone diventa così un archetipo della metamorfosi e del potere rigenerativo della crisi.
D. Medea e Medusa: femminilità, potere e rimozione nella psicoanalisi
Le figure di Medea e Medusa incarnano le energie femminili che sfuggono al controllo patriarcale e simbolico. Medea, con la sua forza dirompente e la sua ribellione, rappresenta la donna che rompe gli schemi, mentre Medusa, con il suo sguardo pietrificante, simboleggia il terrore del potere femminile incontrollato.
In psicoanalisi, queste figure sono spesso collegate all’idea del femminile come “altro” che il soggetto maschile deve contenere o rimuovere. Lacan parla della “madre minacciosa” come di una presenza che mette in crisi la stabilità dell’Io e del desiderio. La scrittura femminile che riprende Medea e Medusa è quindi un atto di riappropriazione di queste energie, un modo per restituire dignità e complessità a un femminile che è stato storicamente demonizzato o marginalizzato.
X. Esempi concreti di autrici e opere: incarnazioni viventi della mitopoiesi
Il dialogo tra mito e psicoanalisi diventa materia viva nella letteratura femminile del Novecento, dove autrici di grande rilievo hanno fatto del mito una fonte inesauribile di ispirazione e di rivoluzione stilistica e tematica.
A. Marguerite Duras: memoria, corpo e desiderio
Duras, con la sua scrittura frammentata e sensuale, esplora la relazione tra memoria e desiderio, tra corpo e parola. Nei suoi romanzi, come Moderato cantabile o L’amante, emerge una mitopoiesi del corpo materno che non è mai idealizzata ma segnata dalla tensione tra amore, perdita e violenza.
La sua scrittura è un flusso di coscienza che richiama la fluidità mollyana, ma con una forte carica erotica e politica, un’attenzione radicale alla voce femminile come strumento di liberazione e di verità.
B. Clarice Lispector: il viaggio interiore e la trasformazione
Lispector si distingue per la sua capacità di penetrare le profondità dell’esperienza soggettiva femminile. Opere come La passione secondo G.H. sono viaggi mitopoietici nelle zone liminali della coscienza, dove la parola diventa rito e strumento di trasformazione esistenziale.
Il suo stile è enigmatico, lirico, e capace di esprimere la tensione tra la ricerca di senso e l’esperienza dell’abisso, incarnando la discesa e la risalita di Persefone nella modernità.
C. Hélène Cixous: scrittura e potere creativo
Teorica e scrittrice, Cixous ha elaborato un pensiero che unisce scrittura e corpo, femminilità e politica. Nel suo Il riso della Medusa teorizza una scrittura femminile che recupera le energie della mitopoiesi, trasformando il linguaggio in atto di potere e resistenza.
Le sue opere sono un invito a liberare la parola dal controllo maschile, a far risuonare la voce delle dee madri e delle figure matrici come strumenti di cambiamento radicale.
D. Annie Ernaux: memoria collettiva e corpo
Ernaux, con il suo stile sobrio e analitico, lavora sulla memoria personale e collettiva, il corpo e il femminile, spesso in chiave socio-politica. La sua scrittura incarna un lavoro mitopoietico di ricostruzione dell’identità, in dialogo continuo con la storia e la cultura.
Il suo approccio mostra come il mito non sia solo dimensione privata o simbolica, ma strumento di lettura critica e politica della realtà.
XI. Mitopoiesi e arti visive, teatro e cinema: intrecci simbolici e culturali
La mitopoiesi del corpo, della parola e del desiderio femminile si esprime in modo potente non solo nella letteratura ma in molteplici forme artistiche, creando una rete simbolica e culturale di grande portata.
A. Pittura: corpo, ferita e rinascita
Artiste come Frida Kahlo e Louise Bourgeois hanno incarnato nelle loro opere il corpo materno, la ferita, il trauma e la trasformazione mitopoietica. Le immagini di Kahlo, intrise di dolore e potenza, evocano il grembo materno, la ciclicità della vita e la sofferenza esistenziale.
Louise Bourgeois, con le sue sculture e installazioni, ha esplorato la psiche femminile attraverso simboli archetipici come il ragno, la madre, la ferita. Le sue opere sono rituali visivi di trasformazione e guarigione.
B. Teatro: parola e corpo come rito
Nel teatro contemporaneo, drammaturghe come Sarah Kane o Heiner Müller hanno lavorato sull’energia mitica e materna, trasformando la scena in spazio rituale di parola e corpo. I loro testi esplorano la violenza, la fragilità, il desiderio e la distruzione, evocando archetipi ancestrali in un contesto contemporaneo di crisi e rinascita.
La performance teatrale diventa così rito di passaggio e di trasformazione, un atto mitopoietico che coinvolge attori e spettatori in un’esperienza profonda e condivisa.
C. Cinema: immagini e narrazioni del femminile mitico (completamento)
Registe come Chantal Akerman e Claire Denis hanno portato sul grande schermo la mitopoiesi femminile, traducendo in immagini e narrazioni la complessità del corpo, del desiderio e della memoria. I loro film raccontano storie in cui il corpo femminile non è mai solo oggetto di rappresentazione, ma soggetto attivo, luogo di conflitti, trasformazioni e resurrezioni.
Akerman, con opere come Jeanne Dielman o La chambre, esplora la routine quotidiana e la solitudine come spazi in cui si manifestano tensioni interiori profonde, trasformando il banale in rituale mitico. Il corpo femminile è attraversato da un flusso di emozioni represse, desideri inespressi, frammenti di memoria, che evocano la Dea Madre e Persefone, ma anche Medea e Medusa, nella loro ambivalenza.
Claire Denis, in film come Beau Travail o White Material, porta sullo schermo la brutalità e la delicatezza del desiderio, l’attrito tra potere e vulnerabilità, tra corpo e paesaggio. La sua estetica, spesso frammentata e poetica, richiama la discontinuità del flusso mollyano e la natura aporetica della comunicazione, esplorando un femminile complesso e in divenire.
Altre registe contemporanee, come Lynne Ramsay, Kelly Reichardt o Céline Sciamma, continuano questa eredità, sviluppando una mitopoiesi visiva e narrativa che parla di corpi in trasformazione, di legami familiari e sociali, di memoria e trauma.
XIII. Sintesi e prospettive: la mitopoiesi come trama viva del Novecento e oltre
Attraverso il confronto tra mito e teoria psicoanalitica, le opere letterarie femminili, e le arti visive, teatrali e cinematografiche, emerge un quadro complesso e straordinariamente ricco della mitopoiesi contemporanea.
Le figure matrici – Dea Madre, Persefone, Medea, Medusa – agiscono come poli simbolici di tensioni fondamentali: desiderio e rimozione, potere e marginalizzazione, creazione e distruzione, vita e morte. Questi archetipi, attraverso la scrittura mollyana e le sue eredità, sono stati riattivati e trasformati, diventando strumenti di esplorazione della soggettività e di denuncia delle strutture oppressive.
La teoria psicoanalitica ha fornito gli strumenti per comprendere come questi miti agiscano nel profondo dell’inconscio, plasmando le relazioni con il corpo, il desiderio e il linguaggio. La loro rielaborazione nella letteratura femminile ha aperto nuove strade di espressione e di libertà, segnando una svolta radicale nell’arte e nella cultura.
Parallelamente, nelle arti visive, nel teatro e nel cinema, la mitopoiesi femminile si è manifestata attraverso linguaggi simbolici e formali diversi, ma intrecciati, che continuano a interrogare e a sfidare la nostra percezione del femminile, del corpo e della parola.
Questa trama viva di mito, psicoanalisi e arte rappresenta una delle eredità più profonde e feconde del Novecento, un invito costante a ripensare la nostra umanità attraverso le lenti della complessità, della contraddizione e della trasformazione.
Con piacere: ecco un testo triplicato, con uno stile più fluido, che approfondisce in modo ampio e articolato la figura di Medusa nelle sue molteplici declinazioni, intrecciando letteratura, arte e teoria psicoanalitica con un ritmo narrativo più scorrevole e coinvolgente.
XIV. Medusa: simbolo di potere, paura e rinascita in una chiave mitopoietica contemporanea
Quando pensiamo a Medusa, l’immagine che più spesso ci viene in mente è quella della creatura mitica, dai serpenti al posto dei capelli, il cui sguardo pietrifica chiunque osi incrociarlo. È una figura che da sempre incarna un potere terrificante, un orrore che paralizza e domina, una minaccia invisibile ma tangibile. Ma questo volto mitico, così carico di paura e di rifiuto, nasconde al suo interno una storia ben più complessa, un simbolo stratificato che nel corso del tempo ha assunto significati molteplici, che vanno ben oltre la mera rappresentazione del mostruoso.
Medusa, infatti, è molto più di un semplice mito antico: è un archetipo che attraversa i secoli, contaminando la cultura e la psiche, e che trova nuova vita e nuovi sensi proprio nella scrittura femminile, nelle arti visive e nella teoria psicoanalitica. La sua storia si intreccia con il tema centrale del potere femminile, della sessualità, della paura che tale potere può suscitare e della possibilità di trasformare questa paura in una forma di liberazione.
A. Dalle radici mitologiche alla rielaborazione femminista
Nel mito greco classico, Medusa era originariamente una donna bellissima, la cui grazia e bellezza attirarono l’attenzione del dio Poseidone. Per punizione, Atena la trasformò in una creatura spaventosa, con serpenti al posto dei capelli e uno sguardo capace di pietrificare chiunque la incontrasse. Questa trasformazione è carica di una violenza simbolica: da simbolo di bellezza e seduzione, Medusa diventa un’icona di paura e rifiuto.
Tuttavia, a partire dalla seconda metà del Novecento, con l’avvento della critica femminista e con contributi fondamentali come quelli di Hélène Cixous, la figura di Medusa viene riscattata e reinterpretata. Nel suo celebre testo Il riso della Medusa, Cixous invita le donne a guardare con occhi nuovi questa creatura temuta, a riconoscere in essa una forma di potere che è stato represso e demonizzato dalla cultura patriarcale.
Per Cixous, Medusa rappresenta il femminile liberato, una forza che parla dal corpo e dalla sessualità, che rifiuta di essere controllata dal linguaggio e dalle strutture simboliche dominanti. Medusa, con il suo sguardo che “pietrifica”, è un atto di resistenza: smaschera il potere maschile attraverso la paura che esso stesso nutre nei confronti del femminile.
B. Medusa e psicoanalisi: il femminile come altrove del godimento
Se la mitologia ci dà il racconto simbolico, la psicoanalisi ne scava la profondità inconscia. In particolare Lacan, e successivamente le teorie femministe di derivazione psicoanalitica, hanno trovato in Medusa una chiave per comprendere il rapporto complesso e spesso conflittuale tra il soggetto e il femminile.
Lacan introduce il concetto di “altro del godimento” (l’«autre jouissance»), un modo per parlare di quella parte del godimento femminile che sfugge alla simbolizzazione e al controllo del linguaggio patriarcale. Medusa si configura come la manifestazione simbolica di questo godimento oscuro e inquietante, qualcosa che il soggetto maschile teme ma allo stesso tempo desidera, un mistero che interrompe l’ordine simbolico e ne mette in crisi le fondamenta.
Nel contesto di questa teoria, l’immagine pietrificante di Medusa diventa anche metafora della paralisi e della frammentazione dell’Io di fronte a ciò che è troppo potente o troppo perturbante per essere integrato. Il femminile medusiano è dunque una sfida: rappresenta la possibilità di rompere con le strutture rigide dell’identità e di aprirsi a un’esperienza più fluida, ambivalente, e profondamente trasformativa.
C. Medusa nella letteratura femminile: voce che spezza catene
Questa rilettura di Medusa come simbolo di potere e liberazione ha avuto una risonanza enorme nella scrittura femminile del Novecento e oltre. La sua immagine riecheggia in forme diverse, ma sempre con un comune filo conduttore: il desiderio di rompere con il controllo patriarcale e di esprimere la complessità e la molteplicità della soggettività femminile.
Autrici come Hélène Cixous non si limitano a teorizzare questa figura, ma la incarnano nella loro scrittura: una scrittura fluida, erotica, carnale, che si fa corpo e voce allo stesso tempo, capace di rompere le barriere del linguaggio tradizionale e di far vibrare le corde più intime e selvagge dell’essere.
Marguerite Duras, con la sua prosa intensa e sospesa, esplora il corpo e il desiderio come territori in bilico tra piacere e dolore, memoria e oblio, evocando quella tensione medusiana che è insieme paura e forza. Il suo stile spesso frammentato e musicale ricorda il flusso mollyano, questa volta intessuto di un’aura più oscura e carica di ambivalenze.
Clarice Lispector, dal canto suo, costruisce nei suoi romanzi un mondo interno in cui la soggettività femminile si disfa e si ricompone, attraversando abissi esistenziali e momenti di rivelazione quasi mistica. La sua scrittura appare come un viaggio attraverso gli strati dell’inconscio, dove Medusa si manifesta come figura di potere e fragilità, di resistenza e metamorfosi.
Infine, autrici come Anne Carson reinterpretano il mito medusiano in chiave contemporanea, esplorando la violenza, la memoria e il potere della parola come strumenti di resistenza e trasformazione, sempre con uno sguardo che fonde antico e moderno, mito e vita quotidiana.
D. Medusa nell’arte visiva: immagini di potenza e fragilità
Il potere evocativo di Medusa ha influenzato profondamente anche le arti visive, dove molte artiste hanno saputo tradurre in immagini la complessità di questo archetipo.
Frida Kahlo, con la sua iconografia ricca di simboli e dolore, ha incarnato nelle sue opere quel paradosso medusiano di bellezza e ferita, di forza e vulnerabilità. I suoi autoritratti, spesso attraversati da simboli di sofferenza fisica e psichica, parlano di un potere femminile che si esprime attraverso la trasformazione del corpo ferito in opera d’arte.
Louise Bourgeois, una delle figure chiave dell’arte contemporanea, ha lavorato intensamente sul tema della madre e della figura femminile come forza ambivalente. Le sue sculture – a volte minacciose, a volte protettive – incarnano l’energia medusiana: la tensione tra attrazione e paura, tra creazione e distruzione, tra vulnerabilità e potenza.
Carolee Schneemann ha portato il corpo femminile al centro della sua pratica artistica, rompendo le convenzioni estetiche e culturali, evocando attraverso la performance e l’arte visiva la forza distruttiva e rigeneratrice di Medusa.
Le opere di queste artiste non solo rappresentano Medusa, ma vivono e incarnano la sua energia, trasformando la paura in espressione, la minaccia in potere creativo.
E. Un dialogo interdisciplinare: letteratura, arte e psicoanalisi in sintonia
Affrontare la figura di Medusa attraverso queste discipline diverse permette di cogliere la ricchezza e la complessità del suo simbolismo. La letteratura, con la sua capacità di esplorare il flusso interiore e le contraddizioni della soggettività, apre spazi di riflessione e di liberazione per la voce femminile. Le arti visive traducono queste tensioni in forme corporee e visive, portando la mitopoiesi nel mondo dello spazio e dell’immagine. La psicoanalisi ci aiuta a comprendere le dinamiche inconsce e simboliche che rendono Medusa una presenza fondamentale nell’esperienza del desiderio e dell’identità.
In questo intreccio, Medusa diventa non solo un mito da raccontare, ma una figura viva e pulsante, che continua a interrogare la nostra cultura, la nostra psicologia e la nostra arte. La sua forza non sta nella sua immobilità, ma nella sua capacità di trasformare la paura in potenza, il silenzio in voce, il dolore in creazione.
XVII. Verso nuove esplorazioni: temi aperti e prospettive future
Questo viaggio attraverso Medusa apre a molteplici possibilità di approfondimento. Come evolve la figura medusiana nella scrittura femminile contemporanea? In che modo le nuove tecnologie visive e multimediali possono espandere il potere simbolico di Medusa? Quali connessioni si possono stabilire tra questo archetipo e le lotte politiche e sociali per la liberazione delle donne e la ridefinizione dei corpi?
Il dialogo tra mito, arte e teoria psicoanalitica si rivela un terreno fertile per continuare a esplorare le dimensioni più profonde dell’esperienza umana, in particolare quelle che riguardano la complessità del femminile e la forza trasformativa della parola e dell’immagine.
Con piacere! Ecco il testo ulteriormente triplicato e ampliato, con uno stile ancora più fluido e narrativo, che approfondisce e intreccia in modo più ricco e articolato i temi dell’opera di Cixous, la mitologia di Medusa, e la sua presenza nelle arti performative e nella cultura contemporanea.
XVIII. Analisi approfondita di Il riso della Medusa di Hélène Cixous: una rivoluzione della scrittura e dell’identità femminile
Nel panorama degli studi femministi e delle teorie sulla scrittura, il saggio Le Rire de la Méduse di Hélène Cixous rappresenta una pietra miliare di fondamentale importanza, non solo per la critica letteraria, ma per l’intero discorso culturale e politico relativo al femminile e alla sua emancipazione. Scritto nel 1975, questo testo è un invito ardente, quasi un manifesto appassionato, che sfida le donne a riprendersi la parola e a riscoprire un linguaggio libero, non assoggettato alle leggi e alle forme di controllo maschili. Ma Cixous fa molto di più: riesce a ribaltare un mito millenario, quello di Medusa, e a trasformarlo da simbolo di paura e minaccia in emblema di potere e potenzialità.
A. Il mito rivisitato: Medusa tra paura e potere
Tradizionalmente, Medusa è la figura mitologica che incarna il terrore: una donna tramutata in mostro da Atena, con capelli di serpente e uno sguardo pietrificante. La sua immagine è stata per millenni sinonimo di pericolo, mostruosità e rifiuto. Tuttavia, nel testo di Cixous, Medusa diventa il simbolo di un femminile potente e vivissimo, capace di trasformare la paura in forza, di ridere di fronte all’oppressione e di riscattare una voce a lungo negata.
Il riso della Medusa è dunque una risata carica di sovversione, una risata che scardina il sistema patriarcale che ha per secoli messo a tacere il femminile, negandone la presenza e la potenza. Ridere di Medusa significa liberarsi da una cultura che ha demonizzato la sessualità, il corpo, il desiderio femminile, e riscoprire in essi una sorgente di forza creativa e rivoluzionaria.
B. La scrittura medusiana: corpo, voce e rivoluzione linguistica
Un altro aspetto cruciale del saggio è la proposta di una “scrittura femminile” che va oltre le forme tradizionali del discorso, sfidando la linearità, la razionalità e le strutture rigide imposte dal linguaggio maschile. Cixous descrive questa scrittura come un fluire, un’onda che nasce dal corpo e dalla sessualità, che rompe le barriere della grammatica e del significato convenzionale.
Questa “scrittura medusiana” si fa allora espressione diretta del desiderio e dell’identità femminile, un modo per dare forma a un mondo interno ricco di complessità, ambivalenze, dolori e piaceri. Attraverso questa pratica linguistica, le donne sono chiamate a riappropriarsi della propria voce e a costruire nuove narrazioni che spezzino il silenzio e la marginalità in cui sono state confinante.
C. L’eredità culturale e letteraria di Cixous
Il testo di Cixous ha avuto un impatto enorme su generazioni di scrittrici, artiste e pensatrici, che hanno fatto propria la figura medusiana come simbolo di liberazione e di potenza. L’eco di questa rivoluzione si sente nelle opere di Marguerite Duras, che con la sua prosa sospesa e carica di erotismo sfida le convenzioni narrative, o in quelle di Clarice Lispector, che attraversa i territori più profondi e misteriosi della soggettività femminile con una scrittura densa e intimista.
Anne Carson, poetessa e traduttrice, riprende e rielabora il mito di Medusa in un’ottica contemporanea e transdisciplinare, mescolando mito, filosofia e scrittura per dar vita a forme espressive inedite, capaci di attraversare i confini tra il passato e il presente, tra il corpo e la parola.
XIX. La figura di Medusa nel cinema: metamorfosi di un’icona tra paura, fascino e potere
Se la letteratura e la teoria hanno fatto della Medusa una figura complessa e polisemica, il cinema ha offerto un palcoscenico in cui questa complessità si è tradotta in immagini e narrazioni capaci di attraversare i diversi registri del mito.
A. Il cinema classico e la rappresentazione del terrore medusiano
In film come Clash of the Titans (1981) e il suo remake del 2010, la Medusa appare nelle sue fattezze più tradizionali: un mostro da combattere, un nemico da sconfiggere con astuzia e coraggio. In queste rappresentazioni, la potenza distruttiva della creatura è messa in scena attraverso effetti speciali e immagini che mirano a suscitare paura e meraviglia.
Il mito qui si fa spettacolo, e la paura ancestrale che Medusa incarna diventa il cuore pulsante di un racconto epico, dove il protagonista umano deve confrontarsi con l’alterità radicale e temibile. Questa rappresentazione, pur aderendo a una tradizione consolidata, non manca di affascinare e di mantenere vivo il simbolo medusiano nella cultura popolare.
B. Il cinema autoriale e la trasformazione simbolica
Parallelamente, il cinema d’autore ha saputo intercettare il potenziale simbolico di Medusa per parlare di temi profondi legati all’identità, al corpo e alla femminilità. Registe come Agnès Varda e Chantal Akerman hanno inserito nei loro film immagini e riferimenti a Medusa come figure che rappresentano il femminile nascosto, tormentato, ma anche ribelle e autonomo.
Questi film spesso adottano una narrazione frammentaria, riflessiva, che rispecchia la complessità del soggetto femminile contemporaneo e la sua tensione tra invisibilità e presenza potente. Medusa diventa allora metafora di quella forza sotterranea che resiste e persiste, pur nella solitudine e nel dolore.
C. Il cinema contemporaneo: ibridazione e potenza medusiana
Nelle produzioni più recenti, come Titane di Julia Ducournau, la figura della donna si fa spesso ibrida, ambivalente, sfidando le norme sociali e morali con una carica quasi “mostruosa” ma profondamente umana. Questo tipo di narrazione porta con sé un’eredità medusiana, in cui la femminilità è vista non come qualcosa di dolce o passivo, ma come energia in grado di rompere e trasformare.
La forza iconica di Medusa si rinnova dunque attraverso protagoniste complesse, spesso disturbate o marginali, che incarnano la sfida verso modelli stereotipati e rigidi di genere e identità.
XX. Teatro e performance: corpo, voce e rito nella nuova mitopoiesi medusiana
Nel teatro contemporaneo, il mito di Medusa si presta a essere esplorato e vissuto in modo diretto e coinvolgente, spesso attraverso performance in cui il corpo, la voce e lo spazio scenico si fanno strumenti di trasformazione e resistenza.
A. Drammaturgie della voce e della ribellione
Opere come Medusa di Annie Baker o Medusa’s Daughter si concentrano sulla possibilità di dare voce a chi è stato a lungo muto, sul tema del trauma e della liberazione, utilizzando il mito come griglia simbolica per indagare il conflitto interiore, la violenza e la possibilità di rinascita.
Questi testi spesso utilizzano un linguaggio intenso, frammentato, che rispecchia la frammentazione della psiche e la complessità del femminile, trasformando la scena in uno spazio di verità e di catarsi.
B. Performatività e corporeità
La performance teatrale, con la sua dimensione immediata e fisica, permette di incarnare Medusa in tutta la sua ambivalenza: creatura temuta e potente, vittima e carnefice, simbolo di morte e di rinascita.
Attraverso movimenti, gesti e suoni, l’energia medusiana prende forma e diventa esperienza vissuta, spingendo lo spettatore a confrontarsi con le proprie paure e con la complessità del femminile.
XXI. Musica e Medusa: suoni, immagini e simboli di forza e trasgressione
Anche la musica è terreno fertile per l’evocazione medusiana, declinata in forme molteplici, che vanno dal pop alla musica sperimentale, dal rock alle composizioni classiche contemporanee.
A. Medusa nelle icone pop e rock
Nella musica popolare, la figura di Medusa viene spesso utilizzata come simbolo di femminilità potente e trasgressiva. Le immagini di donne con “capelli di serpente” o riferimenti al mito sono frequenti in videoclip e copertine di album, in cui la sensualità si mescola a un’aura di pericolo e mistero.
Artiste come Madonna o Lady Gaga, per esempio, hanno adottato estetiche e simbolismi che richiamano questo archetipo, facendo della figura medusiana un emblema di autonomia e rottura degli schemi.
B. Musica classica contemporanea e sperimentale
Compositrici come Kaija Saariaho hanno esplorato nei loro lavori il potere evocativo del mito, creando paesaggi sonori che riflettono la trasformazione, il mistero e la forza del femminile. La musica diventa così mezzo per attraversare simbolicamente il mito, facendolo rivivere attraverso il suono e l’atmosfera.
C. Performance musicali e teatrali
In alcune performance musicali contemporanee, la fusione tra suono, immagine e movimento corporeo richiama l’energia medusiana: un mix di attrazione e repulsione, di creazione e distruzione, di forza che paralizza ma anche libera.
XXII. Medusa oggi: un archetipo vivo e in continua trasformazione
Guardando all’ampiezza e alla profondità con cui la figura di Medusa si è diffusa e rinnovata nei diversi ambiti culturali e artistici, appare evidente che essa non è un semplice residuo del passato, ma un archetipo vivo, che continua a interrogare, ispirare e sfidare.
Medusa è diventata simbolo di una complessità femminile che rifiuta di essere ridotta a stereotipi, una forza che mette in discussione ogni ordine precostituito e invita a riconoscere nel corpo, nella voce e nel desiderio una fonte inesauribile di trasformazione.
Il mito si fa così strumento di riflessione sulle dinamiche di potere, sul rapporto tra visibile e invisibile, su ciò che la cultura spesso tenta di reprimere o nascondere, aprendo nuovi spazi di espressione, creatività e liberazione.
Molly Bloom e la mitopoiesi delle figure matrici: un viaggio tra mito e modernismo
Nel vasto e complesso universo letterario di Ulisse, Molly Bloom emerge non solo come un personaggio ricco di sfumature, ma come un archetipo potentissimo che si inserisce a pieno titolo nella tradizione millenaria delle figure matrici, quelle presenze mitiche e simboliche che hanno attraversato le culture di ogni epoca come portatrici di vita, di desiderio e di creazione. Il monologo finale di Molly, con la sua voce intensa, fluida e carnale, risuona come l’eco contemporaneo di una matrice primordiale, profondamente radicata nei miti più antichi ma rinnovata dallo sguardo e dalla sensibilità del modernismo.
Il mito delle figure matrici: la Madre, la Dea, la Terra fertile
Per comprendere appieno la portata mitopoietica di Molly, è necessario tornare alle radici simboliche che modellano le grandi figure matrici del mito. La Grande Madre, la Dea della Terra, la nutrice primordiale sono tutte incarnazioni archetipiche del principio generativo e creativo. Queste figure non sono mai un semplice simbolo rassicurante di protezione e cura: sono entità ambivalenti, che racchiudono in sé la forza della vita e la minaccia della distruzione, il nutrimento e l’abisso, la dolcezza e il caos.
Nel mito, il corpo materno rappresenta lo spazio sacro in cui nasce e si rigenera la vita, ma anche il confine inquietante tra interno ed esterno, tra sicurezza e pericolo. Questa ambivalenza riflette la complessità della condizione umana e la profonda tensione che da sempre lega la nascita alla morte, il desiderio alla paura, la creazione alla dissoluzione.
Molly Bloom come incarnazione moderna della figura matrice
Nel contesto della letteratura modernista, e in particolare nel rivoluzionario tessuto narrativo di Joyce, Molly Bloom assume il ruolo di una nuova figura matrice. Attraverso il suo flusso di coscienza, Joyce riesce a restituire al femminile quella centralità originaria, ma lo fa in modo radicalmente innovativo: la matrice non è più un’entità mitica astratta, bensì un’esperienza soggettiva, una voce carnale, complessa e profondamente umana.
Molly è madre, moglie, donna desiderante, ma anche simbolo di un’energia vitale che sfugge alle categorizzazioni e alle imposizioni dell’ordine simbolico patriarcale. Il suo linguaggio, libero e spesso trasgressivo, incarna la natura fluida del corpo e del desiderio, una forza che nutre, che crea, ma anche che sfida e spezza le strutture rigide della società e della narrazione tradizionale.
Attraverso Molly, Joyce non celebra solo la maternità biologica, ma una maternità archetipica che genera senso e realtà, che tiene insieme il tessuto frammentato della vita e della coscienza moderna, restituendo alla figura femminile una potenza creatrice al contempo radicata nella storia e in continua trasformazione.
Il corpo e il desiderio come dimensione mitopoietica
Uno degli aspetti più intensi del monologo di Molly è proprio la sua materialità corporea e il modo in cui il desiderio si fa protagonista di un continuum che attraversa vita, morte, piacere e solitudine. Questo continuum è al centro di molte mitologie antiche, in cui la Madre è insieme fonte di nutrimento e simbolo dell’ignoto, di un potere che può sia accogliere sia distruggere.
Nell’Ulisse, questa dialettica si traduce in un’esperienza soggettiva che parla a ogni lettore come a un incontro con la complessità del femminile contemporaneo: la parola di Molly è flusso incessante di vita, di pensieri, di emozioni, che rompe le barriere del linguaggio convenzionale per evocare una realtà molteplice e in divenire.
Il suo monologo è un atto di creazione mitopoietica, una nuova genesi che apre spazi inesplorati alla narrazione e all’esperienza, dove il corpo e il desiderio non sono più confinati, ma si manifestano in tutta la loro potenza generativa.
Figure matrici nel modernismo: un dialogo tra voci femminili
Molly Bloom non è un’isola nel modernismo: altre figure femminili incarnano archetipi simili, contribuendo a una vasta riscrittura mitopoietica del ruolo della donna, del corpo e della soggettività.
- Virginia Woolf, con personaggi come Clarissa Dalloway, crea una figura matrice più sottile, quasi evanescente, che agisce come centro emotivo e simbolico di un’intera comunità, una madre spirituale che lega persone, tempi e spazi attraverso la sua percezione interiore e la sua presenza quieta ma imprescindibile.
- In To the Lighthouse, Woolf affronta in modo ancora più diretto la complessità della maternità e della femminilità, oscillando tra l’amore e la perdita, tra il desiderio di permanenza e l’inevitabilità del cambiamento.
- D.H. Lawrence, con la sua attenzione al corpo e all’istinto, propone figure femminili che si confrontano con le forze primordiali della natura e della sessualità, incarnando tensioni ancestrali tra controllo e abbandono, ordine e caos.
Questi personaggi, insieme a Molly, formano un coro mitopoietico che riscrive la rappresentazione femminile nel romanzo, aprendo nuove possibilità di narrazione e di comprensione dell’esperienza umana.
Conclusioni: Molly Bloom, la grande madre del modernismo
In conclusione, Molly Bloom si configura come una delle figure archetipiche più potenti e complesse del modernismo letterario. Attraverso la sua voce, Joyce ci invita a riscoprire il potere originario delle figure matrici, reinterpretandolo in chiave moderna e soggettiva.
Molly è la madre ancestrale che genera senso, vita e narrazione; è la terra fertile e la forza indomabile; è il corpo e il desiderio che sfidano le costrizioni sociali e simboliche per affermare una nuova forma di libertà espressiva. La sua presenza nel testo non è solo un momento di chiusura, ma un’apertura verso una nuova mitopoiesi, un racconto che si rigenera continuamente nelle pieghe della parola e dell’esperienza.
Questo archetipo moderno ci parla ancora oggi, invitandoci a riconoscere nella complessità e nell’ambivalenza del femminile una fonte inesauribile di creatività e di trasformazione, capace di rinnovare non solo la letteratura, ma la nostra stessa visione del mondo e del sé.
Se vuoi, posso ora intrecciare questa riflessione con il pensiero di Kristeva sull’abiezione e il corpo materno o esplorare come Molly si pone rispetto alle strutture simboliche e alle tensioni del desiderio in Joyce. Fammi sapere come preferisci proseguire!