venerdì 5 settembre 2025

Mario Praz e l'estetica della scrittura erudita: Un viaggio nelle stanze letterarie dell’intellettuale solitario


I. Introduzione – La lingua come dimora dell’eccesso

Mario Praz ha abitato la letteratura come si abita una casa. Ogni frase, ogni digressione, ogni allusione letteraria è per lui un oggetto da disporre con attenzione, come un vaso cinese su un tavolino Luigi XV. E proprio come nella sua celebre Una casa alla vita, la scrittura di Praz non si limita a riflettere un ordine interiore, ma lo costruisce, lo plasma, lo difende dalla volgarità del tempo e dalla dissoluzione del gusto. Scrivere, per Praz, è abitare lo spazio della memoria: un’operazione estetica, etica e psicologica insieme. Il critico, l’autobiografo, il filologo e il collezionista si fondono in un’unica figura, solitaria e refrattaria alle mode, dedita all’esercizio di una lingua decorativa ma rigorosa, a tratti perfino respingente, eppure seducente nella sua esattezza barocca.

Questo saggio intende esplorare la scrittura praziana attraverso sette direttrici critiche: il culto dell’erudizione come stile, la prosa museale e il senso della memoria, il confine tra autobiografia e catalogo, l’aristocratica solitudine stilistica, la sensualità dell’analisi letteraria, il lessico della decorazione e, infine, la condizione di isolamento cronico rispetto alla tradizione critica italiana. Ci muoveremo, come il lettore delle sue opere, attraverso stanze che sono anche sezioni del suo io narrante, mosaici di testi e oggetti, parole e reliquie. Una visita guidata, dunque, alla casa della sua lingua.


II. L’erudizione come arte dello stile

“L’erudizione è per me ciò che per altri è la sensualità”: così avrebbe potuto scrivere Praz, se non fosse che per lui la sensualità stessa passava attraverso l’erudizione. La sua prosa si fonda su un uso selettivo e intensamente personale della cultura: non accumula riferimenti, li scolpisce. In La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930), l’apparato di citazioni – da Baudelaire a Swinburne, da Poe a Huysmans – non serve a dimostrare un punto, ma a costruire un’atmosfera mentale, a delineare una rete simbolica entro cui il lettore è invitato a perdersi.

Critici come Alfonso Berardinelli hanno colto con precisione la natura performativa della scrittura praziana: l’erudizione non è contenuto ma gesto estetico, forma di seduzione intellettuale. Il lettore non viene guidato verso una tesi, bensì inizializzato a un culto. Il rigore con cui Praz organizza le sue fonti è inversamente proporzionale alla libertà con cui le dispone. La sua è una scrittura che si abbandona alla voluttà del dettaglio, all’ossessione per la coerenza figurativa, costruendo una sintassi della vertigine.

In questo senso, la lingua praziana si avvicina a quella di certi prosatori tardo-ottocenteschi inglesi come Walter Pater o Vernon Lee, i cui testi sono più simili a cattedrali gotiche che a saggi critici. E non è un caso che proprio l’Inghilterra sia per Praz una seconda patria, non solo culturale ma linguistica: vi si rifugia anche stilisticamente, cercando nella retorica vittoriana un modello di resistenza al nichilismo moderno.


III. La prosa “museale” e il culto della memoria

Nella scrittura di Mario Praz, la metafora museale non è un accessorio: è la struttura portante dell’intero edificio letterario. Le sue frasi, minuziose e composte, sembrano spesso allinearsi come oggetti in una teca. Ogni parola è selezionata con il rigore di un curatore, ogni immagine si offre come reperto di una civiltà in via d’estinzione. In Mnemosyne, ma anche in opere apparentemente più intime come Il patto col serpente o la già citata Una casa alla vita, la scrittura procede come un allestimento permanente, che però non è mai immobile: l’ordine museale di Praz è dinamico, continuamente rilanciato da richiami interni, e persino disturbato da irruzioni inquietanti.

Si è spesso detto che Praz scriva "come se vivesse in una galleria del XVIII secolo", ma questo giudizio, seppure calzante, rischia di ridurre la sua operazione a una forma di nostalgia estetizzante. In realtà, la sua è una memoria che non consola, ma inquieta. Il tempo non è rievocato come idillio, bensì come traccia spettrale: ogni oggetto descritto porta con sé una contaminazione di morte, un alone funerario che trasforma la bellezza in memento mori. Si pensi alle pagine in cui descrive il suo appartamento romano: il lessico del gusto si fonde al lessico della sepoltura. L’eleganza è un modo di conservare, certo, ma anche di imbalsamare.

Pietro Citati ha osservato come Praz incarni una figura critica totalmente aliena allo strutturalismo: la sua è una forma di pensiero che prende corpo solo attraverso l’accumulo ordinato e affettivo di frammenti. È come se la lingua stessa fosse per lui un mobile antico: lo apre, lo accarezza, lo descrive, lo dispone nella sua camera interiore. Questo atteggiamento non è reazionario, come alcuni lettori frettolosi hanno sostenuto: è al contrario una forma di lotta contro l’oblio. Il gusto, in Praz, non è mai una posa: è una postura difensiva, una forma estrema di sopravvivenza.


IV. L’ambiguità tra autobiografia e catalogo

In Una casa alla vita, Mario Praz racconta la propria esistenza attraverso gli oggetti che ha disposto con ossessiva dedizione nelle stanze del suo appartamento. Ma ciò che colpisce, fin dalla prima pagina, è che non esiste una vera distinzione tra la vita e la casa, tra l’io e i mobili, tra la scrittura e l’inventario. È come se il soggetto biografico si fosse dissolto in una serie di oggetti parlanti, oggetti carichi di significato, ciascuno capace di raccontare una parte del suo vissuto. L’autobiografia si trasforma in catalogo, ma un catalogo pieno di sussurri, di segreti, di ombre.

Questo procedimento rovescia completamente le aspettative del genere autobiografico moderno, dove il cuore dell’io si svela nel trauma, nella confessione, nel ricordo narrativizzato. Praz, invece, spersonalizza la memoria, la trasforma in una coreografia estetica. Non piange, non supplica, non spiega: dispone. La narrazione è indiretta, oggettivata, spesso implicita. Ma proprio per questo, il lettore viene risucchiato in un’intimità straniante, in cui il linguaggio del gusto diventa il linguaggio della perdita. Ogni sedia, ogni arazzo, ogni cornice contiene una persona amata, una città vissuta, un dolore rimosso. In questa intersezione tra discorso autobiografico e pratica collezionistica, alcuni critici hanno visto l’anticipazione di una modalità narrativa che diventerà centrale nella seconda metà del Novecento: l’autofiction museale, quella di un Sebald, per esempio, o persino di un Perec.

Roland Barthes, che Praz non cita mai ma di cui è parente spirituale, scriveva in La camera chiara che la fotografia è “il certificato di presenza di ciò che è morto”. Potremmo dire lo stesso degli oggetti di Praz: sono fotografie tridimensionali di una memoria impossibile, fossilizzata in forme decorative. Ma la loro verità non è documentale: è emotiva, evocativa, sensuale.


V. Uno stile da “aristocratico decadente”

Se c’è una parola che ricorre nelle critiche alla scrittura di Praz, è "snobismo". E in parte non si tratta di un’accusa infondata: Praz scrive come se parlasse a un lettore selezionato, come se si rivolgesse non a un pubblico, ma a un simposio immaginario di spiriti affini, raccolti in un salotto del 1820. La lingua è volutamente arcaica, selettiva, spesso provocatoriamente inattuale. Il suo vocabolario sembra ignorare deliberatamente le evoluzioni della lingua italiana del secondo dopoguerra, rifiutando ogni scivolamento verso il quotidiano, il prosaico, il moderno. Ma è proprio in questo rifiuto che si gioca il carattere radicale del suo stile.

Non c’è compiacimento in questa distanza: c’è resistenza. Praz costruisce il proprio isolamento come forma etica. Il suo “aristocratismo” non è quello della classe, ma della forma: egli crede nel potere salvifico del dettaglio, nella disciplina della precisione, nella bellezza come ordine contro il caos del mondo. In questo senso, il suo stile può essere letto anche come una forma di opposizione alla barbarie del Novecento: mentre la storia distruggeva, uniformava, semplificava, Praz restaurava, differenziava, complicava. Non per reazionarismo, ma per fede nell’intelligenza del gusto.

Giuseppe Montesano ha scritto che “Praz scrive come se dovesse essere letto solo da spiriti eletti”, ma anche questo giudizio può essere rovesciato: forse Praz scrive per farci diventare spiriti eletti, per costringerci a rallentare, a guardare, a pesare le parole come si pesa l’oro. In un’epoca che cominciava a glorificare la rapidità e la semplificazione, egli opponeva la lentezza dello sguardo critico, la durezza di un lessico selettivo, la fedeltà a un tempo in cui le parole non servivano a comunicare, ma a costruire mondi interiori.


VI. La sensualità della scrittura critica

L’opera più celebre di Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, è una vera e propria tragedia in forma di saggio, un affresco nerissimo e al tempo stesso sensuale, dove la critica letteraria si trasforma in anatomia del desiderio, autopsia del delirio estetico, esposizione di corpi in decomposizione morale e iconica. Praz non analizza i testi romantici: li brucia con lo sguardo, li interroga come si farebbe con i quadri di un’esposizione dannata. L’erotismo, la morte e il culto del diavolo non sono per lui soltanto oggetti tematici, ma campi semantici dell’immaginario, matrici ossessive del discorso artistico europeo.

La sua scrittura non è fredda, non è oggettiva, non è didascalica: è carica di tensione, attraversata da un’emozione trattenuta, eppure quasi viscerale. In molte pagine si percepisce una vera e propria attrazione per gli abissi che descrive. La figura del dandy, del sepolcro erotico, del corpo sublimato o della femmina fatale non viene studiata con distacco accademico, ma adottata come specchio deformante. Praz vive le sue figure, le insegue, le carezza con le parole, come se potessero davvero incarnarsi attraverso la lingua.

In questo senso, la sua scrittura critica è corporea, sinestetica, quasi carnale. La letteratura, per lui, è un corpo su cui lasciare impronte, e lo stile è una carezza e insieme una ferita. Non sorprende che questo approccio abbia avuto una grande influenza su generazioni successive di studiosi che hanno cercato nella critica una forma di partecipazione, non di distanza: basti pensare a Georges Bataille, a Michel Leiris o, sul versante italiano, a Giorgio Manganelli, la cui scrittura erudita e visionaria deve molto all’esempio praziano.

Ma in Praz, a differenza di quei suoi discendenti più destrutturati, rimane un rigore ferreo, una struttura retorica costruita con precisione neoclassica. Il piacere, l’erotismo, l’ambiguità della bellezza non giustificano mai la sciatteria, la dissoluzione del discorso. Anzi: è proprio grazie alla sua lingua marmorea che riesce a contenere il magma oscuro dell’estetismo romantico. La sensualità della scrittura diventa allora anche una forma di castità espressiva, una tensione tra passione e dominio, che rende la sua prosa vibrante come una corda tesa tra due estremi.


VII. Il lessico della decorazione

Una delle più straordinarie innovazioni stilistiche di Mario Praz consiste nell’introduzione di un lessico decorativo nel corpo della critica letteraria. Non si tratta solo di metafore prese dall’architettura, dalla tappezzeria o dall’arredo settecentesco. Si tratta di un vero e proprio codice linguistico, attraverso cui egli rilegge interi secoli di cultura europea. Le sue descrizioni di ambienti, stili, correnti artistiche, non sono mai neutre: ogni volta che nomina un paravento, una stampa giapponese, una cornice dorata, non sta solo descrivendo un oggetto, ma attivando una costellazione di significati.

Il linguaggio di Praz è quindi figurativo, e non solo in senso retorico: è visivo, concreto, plastico. Le parole funzionano come materiali: si possono toccare, disporre, valutare per la loro texture, la loro opacità o trasparenza. Scrivere è per lui una forma di artigianato decorativo, in cui la sintassi deve rispettare i vincoli dell’armonia, della proporzione, dell’equilibrio. Ma non è un esteta del vuoto: ogni parola, anche la più ornamentale, conduce a un’idea, a un’emozione, a una visione.

In questa sensibilità decorativa, Praz si collega idealmente ai grandi artisti delle arti minori, da William Morris a Fortuny, da Piranesi a Beardsley. Il suo stile è una forma di traduzione: trasforma i linguaggi visivi in linguaggio letterario. Ma lo fa mantenendo intatta la loro carica evocativa. La decorazione, nel suo universo, non è accessoria, ma strutturale. Non orna il pensiero: lo fonda.


VIII. La solitudine dello stile

Nel panorama della critica letteraria italiana del Novecento, Mario Praz rappresenta un corpo estraneo. Non appartiene né al crocianesimo, né allo strutturalismo, né all’esistenzialismo, né al marxismo. Non è un filosofo, non è un linguista, non è un sociologo della letteratura. È un lettore assoluto, un individuo che ha trasformato la lettura in una forma di esistenza, e la scrittura in una risposta personale all’enigma del gusto.

Questa condizione di solitudine è stata spesso scambiata per eccentricità, o peggio ancora, per snobismo ideologico. In realtà, è il segno di una radicale alterità epistemologica: Praz non vuole spiegare il mondo, né cambiarlo, né interpretarlo alla luce di una teoria. Vuole evocarlo, restituirgli la sua aura, salvarlo dalla dissipazione. E in questo senso è più vicino a Walter Benjamin che a Benedetto Croce, più affine al Benjamin di Angelus Novus che al filologo di scuola.

Claudio Magris ha scritto che la scrittura di Praz “parla come un ritratto in una casa abbandonata: con un muto e inquietante splendore”. È un’immagine che coglie perfettamente la natura della sua prosa: essa è testimonianza di un mondo in rovina, ma senza rimpianto. La lingua di Praz non piange la perdita: la accetta con disciplina, e nel farlo la sublima. È una lingua che non consola, ma custodisce. E nella sua solitudine, ci offre un rifugio raffinato e inospitale, come tutte le dimore di valore.


IX. Conclusione – La scrittura come ultima dimora

Nel corso di questo saggio abbiamo attraversato le molte stanze della scrittura praziana, scoprendo una lingua che è insieme casa, museo, corpo, reliquiario, specchio. Ogni elemento del suo stile – l’erudizione vertiginosa, il culto del dettaglio, la sensualità critica, l’isolamento intellettuale – concorre a costruire un modello alternativo di critica, dove il sapere non è mai disincarnato, ma sempre vissuto, amato, arredato.

Scrivere, per Mario Praz, non è mai stato un atto neutro. È un gesto intimo e pubblico, un modo di lasciare una traccia tra le rovine. Il saggio diventa così il suo ritratto più fedele, non perché racconti la sua vita, ma perché ne riproduce la struttura mentale, il ritmo percettivo, la grammatica segreta. E come i suoi mobili, le sue incisioni, i suoi tappeti orientali, anche le sue parole continuano a parlare in sua assenza, con quella voce educata e inquietante che sa trasformare il silenzio in eleganza.

Oggi, nel disordine comunicativo contemporaneo, leggere Praz è come entrare in una stanza d’altri tempi, dove tutto è armonia, eppure tutto vibra di un’inquietudine sommessa. È un’esperienza estetica, certo. Ma è anche, più profondamente, un atto di ascolto. Di ascolto del modo in cui un uomo può sopravvivere alla storia non rinunciando alla forma.