L’arrivo al MUDEC di Milano, fino all'8 febbraio 2026, della mostra “M.C. Escher. Tra arte e scienza” non è un semplice evento culturale: è un appuntamento che costringe la città e il pubblico a fare i conti con una figura che, nel corso del Novecento, ha incarnato una delle sfide più radicali al nostro modo di guardare. Se l’arte moderna ha spesso tentato di rompere con il passato attraverso la provocazione, Escher ha fatto qualcosa di diverso e forse più sottile: ha interrogato le regole stesse della percezione, mettendo in crisi i nostri strumenti più elementari – l’occhio, lo spazio, la logica prospettica – con la tenacia di un artigiano e la fantasia di un poeta.
A Milano arrivano novanta opere tra xilografie, incisioni e litografie, affiancate da più di quaranta manufatti islamici che fungono da controcanto, come a ricordarci che l’arte, prima di essere invenzione solitaria, è dialogo con una tradizione, un continuo attraversamento di frontiere. E mai come in Escher il tema del confine – tra linguaggi, culture, discipline – si fa fertile e vertiginoso.
Escher prima di Escher: il tempo della natura e delle origini
Nato nei Paesi Bassi nel 1898, Escher cresce in una cultura che porta ancora l’impronta dell’Art Nouveau. I suoi primi lavori, esposti al MUDEC nelle sezioni introduttive, sembrano modesti studi di piante, insetti, paesaggi. Eppure, a guardarli con attenzione, si nota già quella volontà di trasformare la natura in schema. Una foglia non è mai soltanto una foglia: è una sequenza ritmica di nervature, un gioco di simmetrie implicite, quasi un frammento di mosaico.
È come se fin dall’inizio Escher avesse percepito il mondo non come realtà da imitare, ma come struttura da decifrare. E proprio questo atteggiamento lo distingue dagli artisti della sua generazione: mentre altri inseguivano l’espressione soggettiva o la vibrazione emotiva del colore, lui sceglieva la strada del rigore, della precisione assoluta, senza mai perdere però la tensione verso il meraviglioso.
L’Italia: paesaggi che diventano labirinti
Gli anni italiani sono decisivi. Trasferitosi a Roma nel 1923, Escher percorre in lungo e in largo il Sud, attratto dai borghi che si arrampicano sulle colline e dalle architetture medievali. La mostra al MUDEC dedica una sezione ampia a questi lavori, nei quali si intravede già la germinazione delle sue ossessioni future.
I paesaggi calabresi e siciliani non sono mai realistici: diventano costruzioni mentali, città-labirinto in cui lo sguardo non trova un punto di fuga stabile. Le scale, le arcate, le torri si moltiplicano come organismi viventi, e tutto sembra predisposto a trasformarsi, un giorno, in una delle sue celebri architetture impossibili.
Ma è la Spagna, con l’Alhambra di Granada e la Mezquita di Cordova, a offrirgli la rivelazione. Nei mosaici islamici scopre l’arte della ripetizione, l’idea che la bellezza possa nascere non dall’unicità, ma dalla proliferazione modulare. Quelle geometrie lo ossessionano: trascorre giorni interi a copiarle, a decifrarne le regole, come un alchimista che ha intravisto la formula segreta dell’universo.
Metamorfosi: il divenire infinito
Tra le opere più significative presenti in mostra c’è “Metamorfosi” (nelle sue diverse versioni, dal 1937 al 1968). In questa xilografia monumentale, figure geometriche si trasformano gradualmente in uccelli, pesci, rettili, edifici, lettere. È un racconto visivo senza fine, in cui il mondo appare come un continuum fluido, dove nulla resta uguale a sé stesso.
Guardando “Metamorfosi” si comprende come Escher non fosse semplicemente un giocoliere ottico, ma un pensatore. Qui il tema non è solo la trasformazione grafica, ma il problema filosofico dell’identità: cosa significa dire che qualcosa “è” se tutto è destinato a mutare? L’opera diventa una meditazione sulla vita, sulla ciclicità, sulla possibilità che l’infinito non sia altrove, ma già inscritto nel dettaglio più piccolo.
Il MUDEC valorizza queste opere disponendole in modo che il visitatore percepisca la continuità del movimento, quasi un film inciso sul legno. Escher, infatti, non è lontano dal cinema d’animazione: le sue trasformazioni ricordano le metamorfosi continue dei cartoni sperimentali, con la differenza che qui ogni fase è fissata per sempre in una tavola.
Relatività: l’architettura impossibile
Un’altra icona assoluta, presente in mostra, è “Relatività” (1953). Tre scale si intersecano in uno spazio che non ha più gravità: uomini camminano su superfici che per noi sarebbero pareti o soffitti, eppure in quell’universo hanno la stessa naturalezza che noi riserviamo al pavimento.
“Relatività” non è solo un gioco visivo: è la rappresentazione di un mondo senza centro, senza alto né basso. È l’immagine perfetta di un universo relativistico, in cui ogni punto di vista è valido e nessuno è assoluto. Non a caso, la critica ha visto in quest’opera la traduzione grafica di un concetto scientifico che aveva già rivoluzionato il pensiero del Novecento.
Il MUDEC propone un allestimento che amplifica questa vertigine: lo spettatore, osservando “Relatività”, si trova a dubitare della propria stessa posizione nello spazio, come se fosse risucchiato in un labirinto percettivo. Non c’è uscita, non c’è soluzione: c’è solo la constatazione che la realtà è sempre più complessa di quanto crediamo.
Cascata: l’illusione del moto perpetuo
Tra le opere più celebri e più discusse c’è “Cascata” (1961), xilografia che mostra un acquedotto impossibile: l’acqua scorre lungo un canale che sembra rispettare le leggi della prospettiva, ma alla fine torna a cadere esattamente da dove è partita. È un moto perpetuo, una contraddizione che diventa immagine.
In “Cascata” convivono rigore e assurdità. L’acqua scorre secondo regole geometriche impeccabili, eppure lo fa in un circuito chiuso, impossibile. Qui Escher mette in scena il sogno (e l’incubo) della scienza: un ordine perfetto che, spinto alle estreme conseguenze, rivela il suo lato paradossale.
È un’opera che dialoga con il tema della tecnologia e dell’energia, e che oggi, in tempi di crisi ambientale, assume un valore quasi ironico: il desiderio di una fonte infinita che non esiste, la tentazione di credere che l’ingegno umano possa piegare le leggi della natura senza conseguenze.
Mani che disegnano: la creazione reciproca
Forse nessuna opera sintetizza meglio il pensiero di Escher quanto “Mani che disegnano” (1948). Due mani, incise con precisione fotografica, escono da un foglio e si disegnano a vicenda, in un circolo che non ha origine né fine.
Qui l’illusione ottica si trasforma in metafora filosofica: l’artista che crea è a sua volta creato dall’opera, il soggetto che disegna è anche oggetto del disegno. È una riflessione sull’arte stessa, ma anche sull’identità umana: non siamo entità autonome, ma creature che esistono solo nel reciproco riconoscimento.
“Mani che disegnano” ha avuto una fortuna iconica immensa, diventando un simbolo della filosofia postmoderna, che vede nell’arte non un atto di dominio ma un processo circolare, infinito.
Oltre il gioco ottico: Escher filosofo e visionario
Troppo spesso Escher è stato ridotto a “artista delle illusioni”, quasi un prestigiatore del disegno. La mostra del MUDEC lavora invece per restituirgli lo spessore che merita: non solo un abile incisore, ma un pensatore visivo che ha saputo interrogare temi universali come l’infinito, la metamorfosi, la relatività.
Ogni sua opera è al tempo stesso enigma matematico e parabola esistenziale. L’infinito non è solo una formula geometrica, ma una domanda sul senso della vita; la metamorfosi non è solo una variazione grafica, ma una meditazione sull’identità che muta; le architetture impossibili non sono solo giochi prospettici, ma metafore di un mondo privo di certezze assolute.
Escher e la cultura del Novecento
La fortuna di Escher nel XX secolo è stata straordinaria. I matematici lo hanno amato per il rigore con cui ha saputo visualizzare concetti complessi; i filosofi hanno visto in lui un interprete dell’assurdo e del paradosso; la cultura pop lo ha adottato come icona psichedelica, con le sue scale infinite e i mondi che si ribaltano.
Dai Pink Floyd ai fumetti underground, dalle copertine dei dischi alle pareti delle stanze degli studenti, Escher è diventato un simbolo universale. Eppure, dietro questa fortuna popolare, resta la precisione artigianale di un incisore che non ha mai perso la disciplina del mestiere.
Il MUDEC, mettendo accanto le opere più note e i lavori preparatori, rivela il laboratorio segreto: studi, schizzi, prove. Si scopre così che dietro ogni immagine c’è una pazienza infinita, un calcolo minuzioso, una mente che non lasciava nulla al caso.
Un messaggio per il presente
In un momento in cui l’intelligenza artificiale e le tecnologie digitali ridisegnano il nostro modo di percepire il mondo, Escher torna a interrogarci con urgenza. Le sue illusioni sembrano anticipare i mondi virtuali, i videogiochi, le architetture impossibili della realtà aumentata. Guardare oggi “Relatività” o “Cascata” è come osservare in anticipo gli scenari digitali che popolano il nostro immaginario.
Ma il messaggio è anche un altro: che l’arte e la scienza non sono mondi separati, ma forme diverse della stessa ricerca. Escher, con le sue opere, ci dice che la bellezza può nascere dal calcolo, e che la logica può diventare poesia.
Conclusione
“M.C. Escher. Tra arte e scienza” al MUDEC non è solo un tributo a un artista, ma un manifesto culturale. Mostra come sia possibile unire ciò che la modernità ha separato: arte e matematica, estetica e logica, Oriente e Occidente, rigore e immaginazione.
Il visitatore esce dalla mostra non con risposte, ma con domande: cosa significa guardare? Che rapporto c’è tra realtà e illusione? E, soprattutto, fino a che punto la nostra mente è capace di creare mondi che non esistono eppure ci sembrano reali?
Escher resta un enigma, un artista che si muove tra i confini, che ci ricorda che ogni certezza è relativa e che l’arte, quando osa confrontarsi con l’infinito, diventa la forma più alta di conoscenza.