venerdì 26 settembre 2025

Robert Mapplethorpe. La trilogia dei corpi

Introduzione critica

Ci sono artisti che, più di altri, hanno trasformato il loro tempo, imprimendo nell’immaginario collettivo una forma visiva che continua a riverberare anche decenni dopo la loro scomparsa. Robert Mapplethorpe (1946–1989) appartiene a questa categoria rara: i suoi scatti, in apparenza semplici fotografie in bianco e nero, sono diventati icone che oscillano tra il mito e lo scandalo, tra l’ideale e la carne. Vederli oggi, in un contesto museale come quello delle Stanze della Fotografia di Venezia, non significa soltanto ammirare una ricerca estetica; significa riattraversare un’intera epoca, fatta di sperimentazioni artistiche, di lotte per la libertà sessuale e di riflessioni radicali sulla bellezza.

Il progetto espositivo che si inaugura in Italia tra il 2025 e il 2026 – articolato in tre mostre, a Venezia, Milano e Roma – non è un semplice omaggio retrospettivo. È un tentativo di leggere Mapplethorpe come un autore classico contemporaneo, capace di parlare ancora oggi con un’urgenza sorprendente. Questa scelta curatoriale, definita come “trilogia dei corpi”, non si limita a dividere la sua produzione in temi: la trasforma in un percorso che dialoga con la storia dell’arte, con la filosofia del corpo, con la politica del desiderio.


I. Venezia. Le forme del classico

Il primo capitolo della trilogia, ospitato a Venezia dal 10 aprile 2025 al 6 gennaio 2026, si intitola “Le forme del classico”. Non è casuale che si sia scelto proprio questo punto di partenza. La classicità, in Mapplethorpe, non è mai un semplice riferimento decorativo o un gioco citazionistico, ma una vera e propria matrice formale.

Le sue fotografie di nudi maschili e femminili – in particolare quelle dei modelli neri che posano con la dignità ieratica di statue greche – richiamano alla mente i canoni proporzionali di Policleto o le forme levigate di un Canova. Ogni muscolo è esaltato dalla luce, ogni linea del corpo è modellata con una precisione che rimanda al marmo più che alla carne. La macchina fotografica diventa scalpello.

Come scrisse Susan Sontag nel celebre saggio dedicato a lui: «In Mapplethorpe l’eros non è mai soltanto carne: è geometria, è architettura. La bellezza diventa una costruzione intellettuale che si veste di pelle». (On Photography e i suoi scritti successivi hanno avuto un ruolo decisivo nella consacrazione critica dell’artista).

Ma non si tratta solo di un’operazione estetica. Mapplethorpe si appropria del canone classico per inserirvi un contenuto nuovo: la bellezza omosessuale, i corpi marginali, i desideri che la società dell’epoca tendeva a reprimere. La sua classicità è sempre contaminata: lo sguardo apollineo si mescola con il dionisiaco, l’armonia con l’eccesso.

È significativo, in questo senso, che le sale veneziane ospitino non solo i nudi, ma anche i ritratti di Patti Smith, musa e amica dell’artista. Nel memoir Just Kids, Patti ricorda così le giornate passate con Robert negli anni Settanta: «Eravamo giovani, non avevamo nulla, eppure avevamo la bellezza. Robert sapeva trovarla ovunque: nel mio viso stanco, in una rosa spenta, in una catenina d’argento. La bellezza era la sua religione».


II. Milano. Le forme del desiderio

Se Venezia è il regno della compostezza, Milano sarà quello del desiderio. Nel 2026, al Palazzo Reale, si aprirà la mostra “Le forme del desiderio”, dedicata al lato più provocatorio e controverso di Mapplethorpe.

Qui incontriamo le fotografie che lo hanno reso celebre ma anche oggetto di censure e processi: le immagini sadomaso scattate nei club newyorkesi degli anni Settanta, i corpi maschili avvolti in pelle e catene, i dettagli anatomici mostrati senza alcun pudore, ma sempre con un rigore formale che li trasforma in composizioni quasi astratte.

La forza di queste opere sta proprio in questa ambivalenza: sono scandalose, eppure composte; trasgressive, eppure disciplinate. Ogni inquadratura è studiata come un quadro rinascimentale, ogni corpo è messo in posa con una precisione che richiama la statuaria classica. Ma qui il canone è piegato, sovvertito, erotizzato.

Il desiderio, in Mapplethorpe, non è mai solo sessuale. È desiderio di possedere la forma, di catturare la perfezione, di trasformare il corpo in un oggetto di contemplazione assoluta. Come dichiarò lui stesso in un’intervista del 1988: «Non mi interessa la pornografia. Mi interessa la forma. È la forma che rende un’immagine immortale».

A Milano, questa tensione troverà risonanza con la città stessa: capitale della moda e del design, abituata a trasformare il corpo in superficie estetica, Milano diventa la cornice ideale per esporre il desiderio come linguaggio visivo. Qui il confronto con il minimalismo americano (Donald Judd, Richard Serra) e con la ricerca sul corpo degli artisti performativi europei degli anni Settanta (Marina Abramović, Gina Pane) sarà particolarmente fertile.


III. Roma. Le forme della bellezza

Il percorso si concluderà a Roma, al Museo dell’Ara Pacis, con la mostra “Le forme della bellezza”. Dopo il rigore classico e la vertigine del desiderio, il discorso si allarga alla bellezza in senso universale.

Mapplethorpe, infatti, non fu soltanto il fotografo del corpo nudo: dedicò grande attenzione anche ai fiori, alle nature morte, ai volti. I suoi tulipani, le sue orchidee, le sue rose – fotografate in un bianco e nero essenziale, talvolta con intensi contrasti – rivelano la stessa carica erotica dei suoi nudi. Il fiore, per lui, non era mai un oggetto neutro: era un simbolo fallico o vaginale, una metafora del desiderio e della caducità.

Collocare questi scatti a Roma significa intrecciarli con la tradizione millenaria della bellezza come valore estetico e politico. L’Ara Pacis, monumento augusteo, celebra la bellezza come ordine e armonia sociale. Mapplethorpe, al contrario, mostra la bellezza come enigma, come ambiguità. Ma entrambi condividono l’idea che la bellezza non sia mai un fatto privato: è sempre un linguaggio pubblico, collettivo, capace di plasmare la comunità.


Mapplethorpe e la tradizione artistica

Per comprendere davvero la portata di questa trilogia, bisogna collocare Mapplethorpe all’interno di una genealogia più ampia. Egli raccoglie l’eredità del Caravaggio, non solo per il drammatico uso della luce, ma per la centralità scandalosa che assegna al corpo maschile. Così come Caravaggio, nel Seicento, pose al centro del quadro ragazzi di strada, trasformandoli in santi e martiri, allo stesso modo Mapplethorpe eleva corpi marginali, desideri sotterranei, dandogli dignità artistica.

Ma i suoi riferimenti vanno anche alla fotografia modernista di Edward Weston e Ansel Adams, da cui eredita il rigore formale e l’attenzione per la composizione. Weston fotografava conchiglie e peperoni trasformandoli in forme erotiche; Mapplethorpe fa lo stesso con i fiori e con i corpi.

Critici come Arthur Danto hanno sottolineato come Mapplethorpe abbia portato la fotografia nel campo delle arti maggiori, costringendo i musei e le istituzioni a confrontarsi con un linguaggio che fino ad allora era stato considerato minore. Non è un caso che il grande scandalo delle sue mostre americane negli anni Ottanta – con processi per oscenità e dibattiti pubblici – abbia contribuito a ridefinire non solo il concetto di fotografia, ma anche quello di libertà artistica.


Un’eredità ancora viva

Oggi, vedere Mapplethorpe in Italia attraverso questa trilogia significa riscoprirlo come artista attuale. In un’epoca in cui il corpo è costantemente esibito sui social, manipolato digitalmente, mercificato e frammentato, le sue fotografie ci obbligano a guardare di nuovo la carne come forma, come statua vivente, come linguaggio.

Come scrisse Patti Smith, ricordando la morte dell’amico: «Robert non ha mai smesso di cercare la bellezza. Anche quando era malato, anche quando la sua fine era vicina, la bellezza era per lui una necessità, un’arma, una preghiera». (Just Kids, 2010).

La trilogia dei corpi diventa allora un percorso non solo espositivo, ma anche spirituale. Venezia, Milano e Roma non sono soltanto tre città ospitanti: sono tre stazioni di un viaggio che ci porta dal rigore al desiderio, dalla forma alla bellezza, dall’antico al contemporaneo.


Conclusione

Robert Mapplethorpe non è mai stato un fotografo “comodo”. Ha sfidato la morale, ha costretto il pubblico a interrogarsi, ha spezzato le barriere tra arte alta e cultura underground. Ma oggi, a distanza di anni, la sua opera appare come una delle più coerenti e raffinate ricerche sulla forma del Novecento.

Questa trilogia italiana ne restituisce la complessità: un artista che ha saputo essere classico e trasgressivo, erotico e spirituale, scandaloso e sublime. La sua lezione, come scrisse Susan Sontag, «non è quella di scandalizzarci, ma di mostrarci che la bellezza può vivere ovunque, anche negli angoli più oscuri del desiderio».