Omar El Akkad è una di quelle figure letterarie e intellettuali che non si possono leggere senza tener conto del suo vissuto biografico e professionale. Nato in Egitto, cresciuto in Qatar, trasferitosi poi in Canada e negli Stati Uniti, porta in sé le tracce di un’identità plurale, stratificata, capace di guardare al mondo da una prospettiva che non appartiene mai del tutto a un solo luogo. La sua formazione giornalistica e il lavoro come reporter in zone di guerra, in particolare in Medio Oriente e in Afghanistan, hanno lasciato un segno profondo nella sua scrittura.
Questo bagaglio emerge in ogni pagina di Un giorno tutti diranno di essere stati contro. Non si tratta di un romanzo nel senso tradizionale, né di un saggio accademico con note a piè di pagina: è piuttosto un testo ibrido, sospeso tra testimonianza, manifesto politico, meditazione morale. Un libro che nasce dall’urgenza di parlare subito, senza l’intermediazione della storia che arriva sempre troppo tardi. El Akkad scrive con la consapevolezza che certe parole non si possono rimandare, che il silenzio, quando regna di fronte alla violenza, diventa esso stesso complicità.
Il punto di partenza di questo libro è una frase che, inizialmente, circolava come un tweet. Siamo nell’ottobre 2023, mentre i bombardamenti su Gaza si intensificano e le immagini di distruzione e morte scorrono sugli schermi di tutto il mondo. In questo contesto, El Akkad scrive:
“Un giorno, quando sarà sicuro, quando non ci sarà alcun rischio personale nel chiamare le cose con il loro nome, quando sarà troppo tardi per ritenere qualcuno responsabile, tutti diranno di essere stati contro.”
Questa frase, apparentemente semplice, contiene già la struttura del libro: è un atto d’accusa rivolto non tanto ai carnefici, ma agli spettatori. Non è la brutalità della violenza a sorprendere l’autore, ma l’ipocrisia con cui viene percepita, l’omertà collettiva che diventa la vera protagonista del nostro tempo. Da qui nasce il testo: un approfondimento, una riflessione amplificata di quel pensiero originario, una lunga meditazione sulla complicità silenziosa dell’Occidente.
El Akkad non costruisce una narrazione tradizionale. Un giorno tutti diranno di essere stati contro si muove in un terreno volutamente fluido, quasi senza confini. È lettera aperta, pamphlet, saggio, confessione. Questa struttura ibrida non è un limite, ma una scelta: l’autore rifiuta le gabbie letterarie perché il contenuto ha urgenza di uscire senza mediazioni.
Il linguaggio alterna passaggi lirici ad affondi brutali. A volte sembra di leggere una poesia in prosa, altre volte un editoriale infuocato. Questa oscillazione è parte del fascino del libro: non offre mai al lettore la comodità di un registro unico, ma lo costringe a passare dal pathos alla denuncia, dalla commozione alla rabbia.
Il libro è la denuncia della doppia morale occidentale. Parole come “libertà”, “diritti umani”, “giustizia” vengono presentate come universali, ma la loro applicazione è selettiva, condizionata dal colore della pelle, dalla religione, dal peso geopolitico delle vittime. El Akkad mostra con lucidità come i morti palestinesi non vengano pianti con la stessa intensità dei morti occidentali; come le sofferenze di interi popoli vengano derubricate a “danni collaterali”; come la terminologia dei media contribuisca a rendere invisibile l’orrore.
Qui il libro si avvicina a figure come Edward Said e la sua critica all’orientalismo: il modo in cui l’Occidente costruisce l’“altro” non è mai neutrale, ma serve a mantenere il proprio potere. Allo stesso modo, si può leggere El Akkad accanto a Frantz Fanon, che già negli anni ’60 denunciava la violenza coloniale e le sue giustificazioni morali. In filigrana si può intravedere anche la voce di Gayatri Spivak, quando parla di chi “non può parlare”, perché privo di accesso alle strutture linguistiche del potere: i palestinesi diventano un soggetto ridotto al silenzio, parlato dagli altri ma raramente ascoltato nella propria voce.
Uno dei passaggi più potenti del libro è il rovesciamento della prospettiva. Non ci si concentra tanto sui colpevoli materiali — i governi, gli eserciti, le istituzioni internazionali — quanto sugli spettatori. El Akkad rivolge lo sguardo a noi, lettori occidentali, cittadini apparentemente estranei al conflitto ma in realtà coinvolti.
Il silenzio non è neutrale. Il non schierarsi equivale a schierarsi dalla parte del più forte. Il non nominare l’oppressione la rende accettabile. Questa riflessione è scomoda, perché toglie al lettore l’alibi della distanza. Non si può dire “non mi riguarda”: il libro ci costringe a riconoscere che riguarda tutti.
La scrittura di El Akkad non cerca compromessi. È diretta, scarna, priva di abbellimenti inutili. A tratti violenta nella sua chiarezza, a tratti quasi poetica. Questo stile non è semplicemente un fatto estetico: è una scelta politica. Scegliere un linguaggio che non edulcora significa rifiutare l’ipocrisia che il libro denuncia.
Il testo dialoga con una lunga tradizione di letteratura di guerra e di resistenza. Vengono in mente gli scritti di Primo Levi, che denunciava i rischi della memoria tardiva; o di Jean-Paul Sartre, che vedeva nello scrittore l’obbligo morale di prendere posizione. L’eco più forte, però, è forse quella di Mahmoud Darwish, il grande poeta palestinese, che trasformava la sofferenza collettiva in parola universale.
Un lettore abituato a testi ordinati e lineari potrebbe trovare la struttura frammentaria difficile da seguire. A volte l’intensità emotiva sembra prevalere sulla costruzione argomentativa, e questo può risultare pesante. Inoltre, il libro non offre soluzioni concrete: non indica strategie politiche o sociali, ma si limita a denunciare. Alcuni critici hanno sottolineato che questa assenza rischia di lasciare il lettore in una condizione di impotenza.
Eppure, è proprio questa mancanza a rendere il testo più radicale. Non è un manuale di attivismo, ma un grido. Non vuole risolvere, ma destabilizzare.
L’importanza del libro va oltre il suo contenuto. È un gesto, un posizionamento. Nel panorama editoriale occidentale, dove parlare apertamente di Palestina è ancora percepito come rischioso, pubblicare un testo del genere significa rompere un tabù. La sua uscita nel 2025 si inserisce in un contesto di crescente polarizzazione, in cui il discorso pubblico tende a minimizzare le responsabilità occidentali.
Per questo, Un giorno tutti diranno di essere stati contro non è soltanto un libro da leggere: è un documento da tramandare, una testimonianza che servirà a ricordare, in futuro, chi parlava e chi taceva.
Se dovessi sintetizzare, direi che questo libro è un atto di resistenza contro il silenzio. Non è facile da leggere, non vuole esserlo, e non è pensato per piacere. È un testo che divide, che può persino irritare. Ma proprio per questo è necessario.
La sua forza non risiede nell’offrire risposte, ma nel porre domande. Domande che non lasciano scampo: dove eravamo mentre succedeva tutto questo? Che cosa abbiamo detto, o non detto? Quanto vale la nostra indignazione se arriva solo quando è sicuro esprimerla?
In un’epoca in cui la memoria collettiva viene continuamente manipolata, Un giorno tutti diranno di essere stati contro ci ricorda che il vero coraggio sta nel parlare prima, quando il rischio è alto e la storia non ha ancora scelto i suoi vincitori.
Per questo, al di là dei suoi limiti, considero il libro di Omar El Akkad un testo imprescindibile. Non tanto perché ci offra soluzioni, ma perché ci costringe a guardare in faccia le nostre omissioni. E, forse, a fare un passo in più verso la responsabilità.