L’artista odierno si è messo ad annusare i fiori con l’anima invece che con il naso.
La frase di Gombrowicz ritorna oggi come una pietra lanciata contro una vetrina troppo lucida: rompe la superficie, fa entrare aria, costringe a guardare ciò che c’è davvero sotto.
L’immagine è semplice e basta da sola: un artista chinato su un fiore. Ma non un annusare diretto, corporeo, fisiologico, da creatura terrestre. No. È una posa solenne, trattenuta, spiritualizzata. L’artista chiude gli occhi, solleva il mento, inclina la testa: più simile a un monaco tibetano che a un essere umano alle prese con un tulipano. È un gesto che vuole significare profondità, che pretende di trasformare un atto naturale in un rituale. E dietro quel rituale c’è la rinuncia all’odore reale, all’incontro vero con la materia.
E allora eccoci qui, nel pieno della modernità avanzata, circondati da artisti che diffidano di tutto ciò che è immediato. Il naso no, non si usa. È troppo compromettente: rischia di svelare la banalità del fiore, la sua fragranza elementare, quella cosa umida, terricciosa, imperfetta che non si può teoricizzare. L’anima, invece, è un rifugio sicuro. È un luogo neutro, incontestabile, non misurabile. Perfetto per tutti quei gesti che devono sembrare profondi senza correre il rischio di essere verificati.
Si è creato un divario che attraversa tutta l’arte contemporanea: da una parte l’idea, dall’altra il corpo. Da una parte la dichiarazione, dall’altra l’esperienza. Il risultato è un artista che parla del mondo senza toccarlo più, che interpreta la realtà senza lasciarsi raggiungere da essa, che si sottrae al contatto diretto perché quel contatto lo renderebbe vulnerabile.
Tuttavia, la realtà resiste. Torna sotto forma di piccole incrinature: una performance in cui un corpo inciampa, un’installazione in cui un oggetto appare rotto, un materiale che non fa ciò che dovrebbe. L’arte, quando meno ce lo si aspetta, ricorda di essere fatta di peso, di strumenti, di superfici, di odori, di rischi tecnici. E in quei momenti l’artista si ritrova improvvisamente a fare i conti con ciò che voleva evitare: la concretezza.
Dal Romanticismo in avanti, questo tentativo di sublimazione è diventato un riflesso quasi automatico. I simbolisti trasformavano ogni fiore in allegoria; i romantici vedevano nella natura intera la scenografia del proprio tumulto interiore. Le avanguardie del Novecento hanno poi esasperato l’astrazione: Duchamp che sostituisce la percezione con il concetto, Klein che trasforma il corpo in strumento di stampa monocroma, Beuys che fa dell’azione un contenitore teoretico prima che sensoriale. È una genealogia che porta dritta alla figura dell’artista contemporaneo: un essere che si sente più autentico quando parla della percezione che quando percepisce.
E così, tra una galleria e l’altra, assistiamo a una coreografia precisa. Figure sottili, vestite in nero come se la serietà si misurasse in tonalità, parlano di “interrogare lo spazio”, “attivare dinamiche visive”, “decostruire l’oggetto”. E mentre tutto questo lessico è in scena, il fiore reale — quello concreto, fatto di petali, polline, linfa — resta completamente fuori dal discorso. Nessuno si abbassa davvero a toccarlo, annusarlo, guardarlo senza mediazione.
Ma l’odore manca. Manca come manca il sapore quando si parla troppo del mangiare. Manca come manca il tatto quando si discute di corporeità in astratto. E questa mancanza genera un disagio sottile: l’arte sembra sempre più sospesa in un territorio asettico, dove nulla può sporcarsi, nulla può rompersi, nulla può succedere davvero. È un territorio sterilizzato, in cui la vita reale entra solo clandestinamente.
Eppure basta poco per far crollare tutta l’impalcatura. Basta che l’artista resti solo nello studio, di notte, con un oggetto tra le mani, senza doverlo spiegare a nessuno. In quei momenti — i più sinceri — la spiritualità si dissolve. L’anima non annusa più. Il naso, finalmente, prende il suo posto. E ciò che arriva è un odore concreto: non necessariamente poetico, non necessariamente gradevole, ma vero. È da quell’odore che comincia il rapporto autentico con il mondo.
Togliamo di mezzo la sovrastruttura e guardiamo la questione per ciò che è: annusare è un atto che non può essere delegato all’anima. È un’azione incarnata, diretta, animalesca, priva di dignità metafisica. Proprio per questo è preziosa. Ci ricorda che siamo dentro il mondo, non sopra di esso. Ci obbliga a vedere le cose come sono, non come le vorremmo interpretare. L’odore non può essere addomesticato: dà risposte immediate, senza mediazioni. Questo, per l’artista contemporaneo, è quasi pericoloso. Perché impone una verità che sfugge al controllo concettuale.
E allora sì: annusare con il naso diventa un gesto radicale. Un gesto che dice basta alle parafrasi, alle intenzioni, alle dichiarazioni. Un gesto che restituisce dignità alla materia, alla concretezza, al contatto. Non si tratta di rifiutare il pensiero, ma di rimettere il pensiero al suo posto: dopo l’esperienza, non prima.
Gombrowicz, con la sua ironia tagliente, l’aveva intuito in anticipo: l’artista che finge di annusare con l’anima è un artista che teme la vita. Che teme il ridicolo di uno starnuto. Che teme la semplicità. Che teme la realtà.
Ma la realtà — vuoi o non vuoi — ritorna sempre.
Un fiore non chiede di essere interpretato. Chiede di essere annusato.
E quel gesto, così elementare da sembrare insignificante, contiene un’intera filosofia del mondo: la sola che non può essere falsificata.
Annusare davvero significa tornare vivi. E senza vita non c’è arte che tenga.