venerdì 14 novembre 2025

La degenerazione produttivistica nella Lombardia gaddiana: genealogia di una satira e forma di una crisi epistemica


Il brano di Carlo Emilio Gadda dedicato alla "degenerazione della tendenza industriale" lombarda costituisce, a buon diritto, uno dei vertici più emblematici e corrosivi della sua riflessione critica sull’identità sociale e culturale dell’Italia del Novecento. Pubblicato originariamente sulle colonne del Corriere della Sera, il testo si colloca all’incrocio tra pamphlet moraleggiante e invettiva satirica, innervata di un’ironia amarissima, e rappresenta una testimonianza esemplare della disillusione gaddiana nei confronti della società borghese italiana – e lombarda in particolare – che egli stesso, per nascita e formazione, conosce dall’interno.

La pagina prende di mira, con una violenza stilistica controllata ma spietata, il mondo della media borghesia industriale milanese, che Gadda ritrae come preda di un cieco pragmatismo produttivista, indifferente non solo al sapere teorico, ma persino a qualsiasi forma elementare di educazione umanistica. È il ritratto, inquietante e comico al tempo stesso, di un sistema valoriale in cui il primato della produzione e dell'efficienza si è imposto su ogni altra dimensione della vita collettiva, sostituendo alla riflessione critica una retorica dell’utile e della concretezza, che si autorappresenta come superiore e “moderna” ma che, nei fatti, si rivela miope, regressiva, culturalmente atrofizzata.

L’immagine della pantegana – creatura sotterranea, scaltro relitto dei navigli lombardi – assurge a simbolo di questa condizione: l'animale saggio e prudente, e perciò pavido, diventa figura totemica della borghesia lombarda secondo Gadda, riflesso zoologico di un’antropologia collettiva segnata dalla ritrazione, dalla diffidenza verso l’altro e, soprattutto, dal sospetto verso la cultura. La satira si appunta su una serie di topoi che nel discorso gaddiano ricorrono: il fastidio per l’intellettuale, il disprezzo verso il “professore”, l’irrisione della speculazione filosofica, l’ossessione per la tecnica e il successo economico. In questo quadro, la figura dell’intellettuale non è semplicemente marginalizzata: è patologizzata, derisa, oggetto di una disapprovazione che rasenta il disprezzo. Colui che legge Kant o Spinoza, chi medita su Orazio o sull’Ariosto, è una sorta di relitto sociale, un deviante, una creatura non solo inutile ma potenzialmente dannosa in un mondo che ha fatto della “vita pratica” – e dei suoi strumenti – un feticcio indiscusso.

In questa impietosa disamina, Gadda non si limita a deridere la borghesia che ha dimenticato ogni forma di educazione estetica o storica. Egli solleva, più radicalmente, una questione epistemica: in quale misura una società che rimuove la riflessione, l’ambivalenza, la lentezza del pensiero, può dirsi davvero civile? E quale tipo di soggettività si produce in un contesto in cui l’unico sapere riconosciuto è quello immediatamente applicabile alla produzione industriale? Il sarcasmo di Gadda colpisce in profondità, non solo perché svela la brutalità nascosta sotto la maschera dell’efficienza, ma perché mostra il vuoto antropologico che si apre laddove il sapere viene ridotto a mero strumento di profitto.

Eppure – e qui si apre una tensione interna al testo – Gadda non è del tutto estraneo a quella stessa cultura dell’operosità che critica. In altri suoi scritti, come nella pagina tratta da Il tempo e le opere, egli riconosce una “sicura esattezza” nella laboriosità milanese, un senso di disciplina e di ordine che, se non degenerato, può costituire un principio etico e quasi metafisico del vivere. Si tratta di una contraddizione che attraversa tutta l’opera di Gadda: da un lato il rifiuto per l’ottusità borghese e il disprezzo della cultura, dall’altro una non celata ammirazione per una certa capacità di organizzare la vita intorno a un’etica del lavoro, alla progettazione, alla responsabilità concreta. È una tensione, questa, che risuona in molti altri punti dell’opera gaddiana, e che conferisce profondità al suo stesso moralismo: mai ridotto a semplice opposizione binaria tra cultura e incultura, ma sempre attraversato da un dubbio tragico, da un’irresolvibile ambivalenza.

Tuttavia, il testo qui considerato si colloca con chiarezza sul versante della denuncia. La degenerazione della “tendenza industriale” diventa, nel discorso gaddiano, una vera e propria patologia culturale: la sostituzione del pensiero con l’efficienza, della lettura con il catalogo commerciale, dell’università con il “salto” diretto nella fabbrica. Le immagini della maniglia d’ottone stampato e dello scaldabagno – simboli della produttività concreta e meccanica – diventano emblemi di un mondo che ha rinunciato a qualsiasi progettualità simbolica, a ogni tensione verso la complessità del reale. Il sapere, per dirla con Adorno e Horkheimer, è diventato strumentale; e ciò che non serve a produrre viene scartato come superfluo, bizzarro, o peggio ancora: sospetto.

Ma vi è nel brano anche una dimensione antropologica più sottile. La “codardia” della borghesia lombarda, secondo Gadda, non è solo culturale: è esistenziale. È la paura del dubbio, della complessità, della contraddizione, che induce a rifugiarsi in un sistema di valori rigido, dove ogni elemento deviante viene espunto. L’ironia che investe il “primo brianteo che capita” è solo apparentemente grottesca: in realtà, essa disegna il volto collettivo di una comunità incapace di accogliere l’alterità – che sia quella del filosofo, del poeta, o dello scienziato puro. E così il paesaggio lombardo, con le sue ville e le sue fabbrichette, si fa scenario tragico-comico di una marginalizzazione silenziosa, quella dell’intellettuale, figura ormai fuori contesto, anacronistica, e perciò derisa.

Proprio questa dimensione – il ridicolo che circonda chi legge Orazio a Casatenovo – segna il punto più alto e più doloroso della satira gaddiana. In essa si coglie non solo la denuncia di un fallimento culturale, ma anche il dramma dell’intellettuale che si scopre escluso, irriso, inascoltato, e che tuttavia continua a credere nella funzione del pensiero, nella dignità del sapere, nella possibilità – almeno immaginaria – di una cultura altra. In questo senso, il brano può essere letto come una vera elegia della sconfitta dell’intellettuale novecentesco, travolto dall’onda lunga di un’economia trionfante e da un ethos borghese ormai impermeabile a ogni forma di profondità spirituale o metafisica.

A chiusura, l’ultima notazione ironica – quella sull’azienda brianzola che brevettò il pomello “col pulsante in cima” – acquista un valore ambiguo. È insieme sberleffo e postilla indulgente, cenno affettuoso e beffardo a un mondo che, pur nella sua ottusità, ha saputo imporsi con l’astuzia delle cose piccole, concrete, ben progettate. Ma è anche il gesto malinconico di chi, nel mezzo del naufragio simbolico, sa ancora sorridere. Magari accarezzando, con un residuo di pietà aristocratica e amara, proprio quel primo brianteo che gli capita a tiro.