martedì 18 novembre 2025

L'ultima speranza di Sylvia Plath: una lettera tra furia e disperazione


Il 19 novembre del 1962, Sylvia Plath, una delle voci più potenti e tormentate della poesia del Novecento, si trova a fare i conti con un’esistenza che, giorno dopo giorno, sembra volerla inghiottire senza tregua. La sua vita, già segnata da un matrimonio fallito, dalla responsabilità di crescere due bambini piccoli da sola e da una depressione che non le dà scampo, la conduce in quella che è da sempre la sua unica via di fuga: la scrittura. La penna diventa ancora una volta la sua arma, un’estensione del suo stesso corpo, quasi un prolungamento della sua anima ferita. Piglia carta e penna come un naufrago che si aggrappa a una zattera di salvezza, e si immerge in una lettera destinata a un’altra poetessa, Anne Sexton, una donna che Sylvia non ha mai incontrato di persona ma che, in qualche modo, sente come un’anima affine.

La lettera è breve ma intensa, ogni parola scava profondamente nel suo stato d’animo, ogni frase trasuda il dolore e il desiderio di connessione che da sempre caratterizzano la sua vita. Si apre con una confessione che colpisce come un fulmine: “Mi creda: sono drogata dalla sua poesia, sono disperatamente ossessionata, una tossica-di-Smith.” Quelle parole non sono semplici complimenti né un’esagerazione poetica: sono il grido di un’anima che cerca disperatamente un punto di riferimento, un’ancora in un mare in tempesta. Anne Sexton, con la sua poesia cruda, viscerale, che affronta senza paura i temi più oscuri della vita, rappresenta per Sylvia non solo un modello, ma una sorta di specchio in cui riflettersi e riconoscersi.

In queste righe, Sylvia rivela molto di più di quanto possa sembrare a un primo sguardo. Non si tratta solo di un omaggio alla poesia di Sexton, ma di una confessione profonda che parla del suo stesso bisogno di sentirsi capita, accolta, vista per quella che è realmente. Le parole “drogata” e “ossessionata” non sono metafore casuali: riflettono il suo rapporto viscerale con l’arte e con la vita stessa, un rapporto che oscilla tra un’intensità febbrile e un senso di disperazione profonda. La scrittura, per Sylvia, è una dipendenza, un bisogno primario, una necessità che le permette di dare un senso al caos che la circonda. Allo stesso tempo, però, la costringe a confrontarsi con i suoi demoni interiori, rendendo ogni parola scritta un atto tanto liberatorio quanto doloroso.

Mentre scrive, Sylvia ripercorre mentalmente gli ultimi mesi della sua vita, che sono stati un continuo alternarsi di speranza e disillusione. Per quasi un anno, aveva cercato rifugio nella quiete della campagna inglese, trasferendosi con Ted Hughes e i loro due figli in una casa nel Devon. L’idea era quella di trovare pace nella semplicità della vita rurale, lontano dal caos delle città e dalle pressioni della società letteraria. Sylvia si era dedicata con entusiasmo a occupazioni che sembravano promettere una forma di equilibrio: coltivare mele nei frutteti circostanti, prendersi cura delle api, immergersi nella routine quotidiana dettata dai ritmi della natura. Ma ben presto quella tranquillità apparente si era rivelata un’illusione.

Il matrimonio con Ted Hughes, che Sylvia aveva sempre vissuto con un’intensità quasi feroce, si era sgretolato sotto il peso delle infedeltà di lui e delle tensioni creative che da sempre li avevano accompagnati. Ted, con il suo carisma e il suo talento, era stato per Sylvia una figura tanto ispiratrice quanto ingombrante, un uomo capace di accendere in lei una passione straordinaria ma anche di alimentare insicurezze e frustrazioni profonde. A luglio del 1962, dopo una serie di tradimenti che Sylvia non poteva più ignorare, il loro legame si era spezzato definitivamente, lasciandola sola a crescere i loro figli.

Frieda, di appena due anni, e Nicholas, nato a gennaio dello stesso anno, rappresentavano per Sylvia un motivo di gioia ma anche una fonte di enorme pressione. Essere madre, per lei, era un’esperienza ambivalente: da un lato, le offriva un senso di scopo, un motivo per andare avanti; dall’altro, le imponeva responsabilità che spesso sentiva come un peso insostenibile, soprattutto ora che si trovava a gestirle da sola. La sua mente, già fragile, veniva messa alla prova ogni giorno da questa duplice realtà, e il senso di isolamento che ne derivava non faceva che peggiorare la situazione.

Nonostante tutto, la lettera a Anne Sexton lascia intravedere una scintilla di speranza, un desiderio di ricominciare, di costruire un nuovo capitolo della sua vita. “Spero, per magia, di trasferirmi con i miei bambini a Londra: mi piacerebbe allora invitarla a prendere un tè o un caffè… è da tempo che vorrei incontrarla.” La scelta della parola “magia” è significativa: per Sylvia, l’immaginazione e la creatività sono sempre state strumenti di trasformazione, mezzi attraverso cui cercare di riscrivere la propria storia e dare un senso al caos della sua esistenza.

A dicembre, Sylvia riesce davvero a trasferirsi a Londra, portando con sé i suoi bambini e una determinazione feroce a ricominciare. Ma la città non le offre il rifugio che aveva sperato. L’appartamento in Fitzroy Road, che un tempo era stato abitato dal poeta W.B. Yeats, sembra carico di un simbolismo che Sylvia non può ignorare, ma è anche freddo, angusto, lontano da quel senso di casa di cui avrebbe avuto disperatamente bisogno. Londra, con le sue strade affollate e il suo clima rigido, diventa per Sylvia una prigione. Isolata dal mondo, con due bambini piccoli da accudire e i demoni della depressione che si fanno sempre più invadenti, Sylvia si ritrova intrappolata in un inverno che sembra non avere fine.

Quel tè o caffè con Anne Sexton, che tanto aveva desiderato, non si realizzerà mai. Il 1963 inizia con una solitudine opprimente, un vuoto che nessuna poesia o immaginazione riesce più a colmare. A febbraio, sopraffatta dal dolore e dalla disperazione, Sylvia decide di mettere fine alla sua vita. Con questo gesto estremo, lascia dietro di sé non solo due bambini, ma anche un’eredità letteraria straordinaria, un corpus di poesie e scritti che continueranno a risuonare attraverso le generazioni. La sua lettera a Anne Sexton, con la sua sincerità disarmante e il suo tono febbrile, rimane un documento struggente della sua lotta contro il dolore, un grido che ancora oggi riecheggia nella sua opera, rendendo la sua figura un simbolo eterno di fragilità e genio creativo.