C’è un momento, in Dostoevskij, in cui il mondo si scolla dal suo stesso peso. Il protagonista dell’Adolescente osserva la città intorno e pone quella domanda che non dovrebbe essere mai detta ad alta voce: «E non potrebbe essere un sogno tutta questa gente che corre, si mescola, si affanna?». È una domanda semplice, eppure devastante, perché toglie alla realtà la sua ovvietà. In un istante, la folla che riempie la scena moderna – la città brulicante, la vita sociale, la convulsione dei gesti – può perdere la consistenza che le attribuiamo. Può rivelarsi come un’apparizione, una fantasmagoria, un teatro mal illuminato.
Il punto non è tanto l’ipotesi che tutto sia un sogno, quanto la facilità con cui questa ipotesi si inserisce nella percezione. La percezione, infatti, non è un veicolo neutro: è un atto che continuamente ricostruisce la realtà e che, a volte, si inceppa. In quei momenti il mondo appare come qualcosa che non ci riguarda del tutto, come un flusso di forme che si agitano senza convincerci della loro sostanza.
È una sensazione che tutti, almeno una volta, abbiamo provato. Qualcosa nel nostro sguardo si incrina, e la vita – quella degli altri, ma anche la nostra – appare come se fosse in attesa di una conferma. Una scena che esiste perché qualcuno la sogna, la pensa, la osserva. In quell’attimo, Dostoevskij trova una breccia per dire ciò che altrove diventa filosofia, altrove psicologia: la realtà non è una certezza, ma un’ipotesi ben costruita.
Da qui nasce la vera questione: che cosa rende reale la realtà?
I fenomenologi – molto dopo Dostoevskij – avrebbero spiegato che l’esperienza del mondo è sempre mediata, mai immediata. Non vediamo “le cose”, ma la relazione tra noi e le cose. Husserl avrebbe detto che ogni percezione ha un “orizzonte” che la contiene e la sorregge; Merleau-Ponty che il corpo, nel percepire, crea il mondo che percepisce.
Dostoevskij, senza nessuna pretesa di sistematizzare, ci mostra questo orizzonte mentre si incrina. Nel momento in cui il protagonista osserva la folla e pensa che potrebbe essere un sogno, non compie un gesto metafisico: compie un gesto percettivo. Sperimenta l’instabilità dell’esperienza.
Il mondo non è ciò che è, ma ciò che appare. E se ciò che appare per un istante perde la sua continuità, allora il mondo vacilla con lui.
Questa vacillazione è così radicata nell’esperienza moderna che attraversa l’arte e la letteratura come un basso continuo. L’io non è più saldo, la realtà non è più data, la comunità non è più un rifugio. Ci si muove tra scene, rappresentazioni, flussi di immagini.
Dostoevskij sembra percepire questo già nella metà dell’Ottocento: la realtà, nelle città moderne, è un apparato che può dissolversi. Una “fosca scena” che potrebbe scomparire “in un attimo”.
Questo dubbio non appartiene solo a Dostoevskij: è un tratto distintivo della letteratura russa quando affronta il mondo urbano e la febbre della vita moderna. In Gogol’ – che Dostoevskij idolatrava – la realtà è sempre sull’orlo di trasformarsi in una caricatura, in un sogno grottesco. Pensiamo all’Ispettore generale, al Cappotto, alle Anime morte: città che si deformano, impiegati che perdono identità, nomi scuciti, gesti meccanici. Ogni scena è reale e al tempo stesso sospesa, come se dovesse improvvisamente svanire lasciando solo polvere.
Qui la percezione non è mai stabile: Gogol’ è il primo grande architetto del dubbio ontologico moderno. Dostoevskij lo porta più in profondità: sotto la caricatura, mette l’abisso.
E c’è un dettaglio importante: la Russia di metà Ottocento è uno dei laboratori più precoci della crisi dell’esperienza moderna. Le città crescono, la burocrazia si estende, la folla diventa un fenomeno massiccio ma ancora irrisolto. Le persone non sono ancora “abituate” alla vita moderna; la città è un organismo troppo grande per essere naturalizzato. Da qui quel senso di irrealtà che Dostoevskij coglie con precisione chirurgica.
Il tema della vita come sogno attraversa tutta la modernità europea, ma in forme molto diverse. Lì dove Dostoevskij percepisce la dissolvenza della realtà collettiva, altri autori guardano l’oscillazione del tempo, della memoria, dell’identità.
In Proust, per esempio, il reale è continuamente rifatto dalla memoria. La sua domanda non è: “E se tutto fosse un sogno?”, ma: “Che cosa resta reale quando la memoria riplasma tutto?”. In À la recherche, la vita è un impasto di percezioni che mutano a seconda di chi le ricorda, e il ricordo ha lo stesso peso ontologico della presenza. Ciò che sembra passato torna ad avere corpo: un’altra forma di sogno.
In Musil, la dissolvenza è ancora più tecnica. L’“uomo senza qualità” percepisce il mondo come un insieme di possibilità. Il reale non è più un dato ma un’opzione. Ogni gesto che si osserva – la gente che corre, che parla, che afferma – è visto come una costruzione arbitraria, quasi assurda. In Musil, la crisi del reale è una crisi della logica stessa della vita sociale.
E in Pessoa, infine, la vita come sogno diventa la condizione permanente dell’esistenza. Il Livro do Desassossego è una liturgia dell’estraneità: le persone che passano per strada non sono reali, ma “marionette di passaggio”. L’io che osserva è un io molteplice, frammentato, spesso stanco del mondo. Pessoa porta al parossismo ciò che Dostoevskij lascia solo insinuare: la possibilità che la vita sia un teatro in cui nessuno conosce la propria parte.
Eppure c’è una differenza fondamentale.
Dostoevskij non accetta mai del tutto il sospetto che la vita sia un sogno: lo lascia vibrare, come una nota, ma non lo cantifica. Per lui, il dubbio è un passaggio, non una conclusione. È una fenditura che permette di guardare la realtà da nuova distanza. Non un rifiuto del reale, ma la sua interrogazione.
Il punto centrale della questione non è stabilire se la realtà sia un sogno, ma interrogare il modo in cui la coscienza costruisce il reale. La scena della folla, negli occhi dell’Adolescente, mostra che il mondo è costituito dal nostro modo di stare nel mondo. Non esiste un osservatore neutro. Non esiste un “fuori” della percezione. La realtà è una relazione.
E la relazione è instabile.
Ogni tanto – nei momenti di stanchezza, di eccesso, di chiaroveggenza improvvisa – il sipario si apre un po’ troppo e ci accorgiamo della fragilità dell’intero edificio. Il mondo continua a muoversi come se nulla fosse, ma noi non siamo più certi di esserne parte. È come se ci fossimo svegliati, per un istante, dentro la vita.
Questo paradosso – svegliarsi dentro la vita, non dalla vita – è il lascito più sottile di Dostoevskij.
La modernità ha trasformato la folla in un contesto permanente. Viviamo immersi in una rete di gesti, ruoli, corse, obblighi, movimenti che ripetiamo senza pensarci. In questo senso la folla è già di per sé un sogno: una coreografia collettiva inconsapevole.
Dostoevskij, come Gogol’ ma più profondamente, vede nel movimento collettivo una forma di automatismo. Gli uomini corrono perché devono correre, si affannano perché devono affannarsi. La vita appare come una sceneggiatura che nessuno ha scritto ma tutti recitano. Ed è qui che si innesta quel dubbio quasi infantile: sono veri?
Può sembrare ingenuo, ma è uno dei dubbi più radicali della modernità. Se gli altri sono sogni – figure che esistono solo perché le percepiamo – allora anche noi lo siamo.
La folla come sogno altrui.
La vita come scena condivisa.
La realtà come un immenso teatro privo di autore.
Eppure questo non è un pensiero cupo. Anzi. Se la realtà può dissolversi, significa che non è una condanna. Se la vita è un sogno, significa che può cambiare. Il risveglio, per Dostoevskij, non è la distruzione del mondo, ma il suo possibile reinventarsi.
Nella dissoluzione della scena fosca c’è un tratto di libertà.
La realtà non è necessaria; è solo una delle sue possibili forme.
Ed è precisamente qui che Dostoevskij dista anni luce dal nichilismo.
Il sogno non è il nulla: è un modo alternativo di esistere.
Si potrebbe dire che il pensiero di Dostoevskij, in questo punto, anticipa tutta la modernità. La vita non è un sistema chiuso, ma un campo aperto: un luogo dove sogno e veglia, realtà e apparenza, percezione e dubbio convivono. E la coscienza oscilla continuamente tra questi poli, senza fissarsi in nessuno.
La gente che corre, si mescola e si affanna è reale e al tempo stesso immaginaria.
È vera perché la percepiamo, ma anche fragile perché potrebbe smettere di sembrarlo.
Alla fine, il dubbio dell’Adolescente non va sciolto.
È un invito a guardare la realtà con la consapevolezza della sua porosità.
Noi viviamo in un mondo che prende la forma del nostro sguardo.
E ogni tanto, mentre osserviamo gli altri muoversi nella loro piccola convulsione quotidiana, torna quella domanda che vibra come un segreto condiviso tra chi ha visto oltre:
E se tutto questo fosse solo un sogno che si crede reale?
Forse non c’è risposta.
Forse la risposta è proprio la domanda.
E noi – splendide creature smarrite – continuiamo a camminare su quel confine, sospesi tra la veglia e il sogno, come Dostoevskij ci ha insegnato: senza smettere mai di percepire l’instabilità, la bellezza e la vertigine del mondo.