mercoledì 31 maggio 2023

scrivere come dio: “Sono Malato”


Fabio Galli 07 - Vomitare Parole

 

sono malato,

 

in quello stato in cui l’uomo è ridotto a quello che è, ossia ridotto al nulla e alla disperazione. Ridotto alla disperazione, cioè all’arbitrario puro dell’essere, ove fosse salvata la capacità di agire. All’annientamento in caso diverso. Ho ragione di riconoscere nell’impossibilità di agire, nell’inerzia avanzante, qualcosa di molto peggiore del peccato di non scrivere più?

 

Ma bisogna andare ancora più in là e vedere nell’azione un irradiamento approssimativo. Che cosa me ne riserva l’analisi? Oltre un certo punto, un vuoto dove si diradano sempre più gli stessi atomi effimeri dell’energia. Una dissipazione illusoria.

 

Per questo ogni giudizio è fallace, ogni amore è personale. La verità è che l’esistenza è straordinariamente debole. Di qui la conclusione dell’estrema relatività delle morali, del fatto che la morale è – sempre – quella del vincitore, di chi grida più forte, quella che incide affermativamente un segno più volitivo sulla vaga materia del divenire.

 

Non scrivo quasi più. Le poche volte che mi accingo a riempire gli spazi bianchi di geroglifici, lo faccio con molta fatica e con un reale spreco di energie [delle quali avrei tanto bisogno, in questo periodo, per me stesso].

 

L’unica cosa che mi è rimasta è comporre equazioni: vere e proprie equazioni matematiche, con numeri immaginari..

 

Ritrovo Heidegger della mia giovanezza. Non dovrei farlo ma è un continuo ritorno, lo rileggo. Da qualche parte, riprendendo Holderlin, dice “ciò che rimane lo fondano i poeti”. Ma ciò che rimane è immondo, un ambito storico-culturale definito da un lessico, da una sintassi, da un complesso di regole per la distinzione tra vero e falso.. e basta?

 

Esisto a metà, e forse è giusto che sia così. Forse soltanto così riesco, fino a un certo punto, a durare.

 

Ma vorrei sapere: i volitivi, i dominatori, i sapienti hanno anch’essi i loro momenti di vuoto [quel senso dell’assoluto niente che riempie la mia vita di scrivente]? Dovrebbe essere così. Quanto li riempie è una specie di associazionismo, un non taglio, inversamente a quella presenza della quale di continuo mi svuoto.

 

La differenza di segno, positivo anziché negativo, consiste forse soltanto in questo: NON SI VERGOGNANO. Riescono, per lo più del tempo, a sostenere la commedia, l’insulsa commedia.

 

L’unica vera, sostanziale minaccia contro la loro presunta immortalità, mi pare questa: non riusciamo a sopportare troppa realtà.

 

Un caro saluto e grazie per la gentile attenzione che sempre mi concedete.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(18 gennaio 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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da “Cani d’amore”: Sente lui il gioco…


Topo Formaggiodi Bo Summer’s   twitter@fabiogalli61

 

 

 

 

 

 

 

 

In questa piccola sottosezione della mia pagina, tento fugacemente di ricostruire un percorso, una ricostruzione anacronistica di un tentativo di “fare poetico”.

Riesumanda rievoca, in questo caso, alcuni testi che sono parte integrante di una raccolta, Cani d’amore, che vennero inseriti in una rubrica a cura di Milo De Angelis pubblicata dalla rivista Poesia, n° 58, Anno VI, Gennaio 1993, Crocetti Editore.

 

 

sente lui il gioco di tutti i fiumi
ghiacciati, e il rumore del tempo,
sente, e il suo stesso volto: l’età

tra le brume rivela il canto,
rifugiandosi nell’avvilimento del fuoco,
appena riempito l’avvinghiato orlo

“ama e loda: i fiori, oh Impotente!
per arrivare, tingiti dove si parla
una lingua come questa!, poi rallegrati
come morte spezzata: negli stessi giorni
la nostra potenza, i miei rozzi insegnamenti!,
è quella Natura, è quel fine lassù – lo sento! –:
più d’ogni altra cosa va lentamente:
ah le più dolci afflizioni!:
lotta accompagnato dal cuore
e odora i ventri del piacere
e ridi e piangi e annusa la non facile
danza!”  – non rimane qui, è usato: come
un paziente, va a conoscersi nel meno
pieno argomento, egualmente viene
viene a proclamarsi ‘sostituzione del giorno’
“dov’è il Lemano?, lo vedi?, fu davvero vero?”  –

simile a gioiello che si risolve  – che ha maturata,
veramente!, l’occasione del tempo  –  va mutando:

col lume grigio del braccio,
luoghi diversi e ghiaccio
mutano raccolti e meraviglie seguenti,
acque di persone e presenze furenti:

delle volte è caparbio!, questo l’autorizza
già a dirigersi, a indossare sensatezza
fino all’insuccesso e al suo puro fallimento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(1 aprile 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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martedì 30 maggio 2023

essere frainteso


Bo Summer's 04 Piselli

… eccomi, di nuovo, con il solito timore di essere frainteso. O forse è questo che voglio. Quanto seguirà è dato sotto forma provvisoria o, comunque, se si preferisce, con l’aspetto di ipotesi appena abbozzate che presento con molti dubbi. Ma chi potrebbe, oggi, accampare certezze?

C’è, mi pare, un impaccio diffuso negli interventi letterari attuali. Come se mancasse una direzione e non restasse, allora, che rifugiarsi nelle dichiarazioni d’intenti personali di poetica.

Siamo in un momento di inerzia opaca. A un punto morto. O a un grado zero. C’è stata l’avanguardia storica, c’è stato il 1963, poi il 1968, poi la reazione a entrambi, e i poeti innamorati, e le letture pubbliche di poesia. Oggi, più nulla: non ci sono spinte né controspinte. Ogni voce suona alternata ad altre di segno diverso (non opposto) e insieme formano un concerto indifferenziato, ove tutto è permesso, niente è proibito, e ogni accento viene eliso da un altro, in una grande, innocua equivalenza. Non si produce movimento, neppure di reazione. Gomito a gomito. Tutti in fila.

Tutti sintomi d un declino? È il tramonto del senso della letteratura? Certo, qualcosa sta morendo, anche il confrontarsi e come territorio contaminato, inaffidabile. E molto altro sta cambiando nel gigantesco riequilibrio di fattori strutturali e sovrastrutturali (mai così intrecciati come ora) prodotto dal capitale informatico. Si dissolvono i tradizionali confini fra il “letterario scritto” e le altre forme di comunicazione. D’altra parte, nella rivoluzione culturale che si sta realizzando, il “letterario” è ridimensionato drasticamente, cero, ma non colpito a morte. Il precedente tessuto sociale e civile oppone resistenza e non si tratta soltanto di un residuo del passato: la resistenza è connessa alle strutture profonde (antropologiche) della civiltà.

Il “letterario” coincide con una parte non indifferente della cultura dei popoli moderni, con la loro stessa identità. Così, paradossalmente, può anche accadere che il processo della sua riduzione contribuisca a illimpidirne la funzione. Se, a questo volevo giungere, per un verso il mio “spazio letterario scritto” appare sempre più minacciato d’inquinamento e comunque ampiamente percorso e pervaso dall’extraletterario, per un altro verso appare come costretto a regredire su una trincea estrema, che tuttavia gli è propria e ne qualifica in profondità la funzione: ributtato indietro, tocca comunque un fondo che è suo.

Quale è il senso della scrittura. Risponderei con un aforisma di Blanchot, in L’écriture du désastre“Veiller sur le sense absent”. È quasi un imperativo, un’istanza cruciale. Il senso non viene alla presenza. E come a convinzione che “in ogni poesia vi è una contraddizione essenziale. La poesia è molteplicità triturata e restituisce fiamme. E la poesia, che riporta l’ordine, risuscita da prima il disordine, il disordine dagli aspetti infiammati”.

Il senso della scrittura consiste, allora, prima di ogni cosa, in quella voglia sul senso assente, nel rammemorare l’originaria infondatezza del linguaggio. Un Io che rinuncia alla propria sovranità immaginaria sul Mondo, che conosce l’abbandono e la nudità, che si rapporta al reale e agli oggetti dal lato della mancanza, del non consapevole, di quello che Lacan definiva il “non-réalisé”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(6 aprile 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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il poeta impotente


Fabio Galli 09 fiore

 

il poeta impotente che maledice il suo genio

attraverso un deserto sterile di dolori

 

è un’apertura che dovevo a questo post, si tratta di Mallarmé che è tornato prepotentemente fra le mie letture in queso periodo. Vecchi innamoramenti. Poeti che da tanto non riprendevo.

Adolescenza di ritorno. Le ore spese di fronte al foglio bianco, in una impotenza creativa che rasenta l’ostinato mutismo, con emozioni che un rumore esterno fa svanire e che una voce di casa, invece, richiama, la lampada accesa, il silenzio della notte, la convinzione che a poco a poco si viene maturando – con un senso di pena e di disfatta – che sia necessario eliminare ogni scoria comunicativa non meno che ogni consolazione e che la vera essenza della poesia vada ricercata al di là, molto oltre le cose, in quel limbo ineffabile dell’incomprensibile che del concreto ne suggerisce soltanto una nozione purificata o la vaga impressione del dire che riusciamo a subirne.

È forse tutto questo una scelta? Le parole si sostituscono e sostituiscono ogni senso. Esse sono come immerse, in preda ad una forza non concatenata entro la quale l’impotenza del poeta e del suo stesso poetare si sommano. Esse sono una presenza illusoria preda e dominatrice a un tempo della materia, immerse nella materialità assoluta.

Voci che vanno raccote e filtrate, filtrate prima di essere raccolte.

La poesia esiste già? E se esiste, dove può essere cercata?

Le parole scritte sono, forse, crisi il cui il punto di approdo è la scrittura stessa, là dove vive l’uomo che non viene a patto coi tempi ed è costretto dalle incontaminata purezza del proprio atto a scuotersi, sia pure involontariamente, di dosso ogni grossolanità della cronaca e della storia.

La poesia è uno stato di attesa, di parcheggio, al cospetto degli accessori più vani e deludenti dell’uomo.

La poesia non è soltanto un punto di arrivo ma un eterno punto di partenza.

(19 aprile 2016)


lunedì 29 maggio 2023

Dialogo in Versi III


Napoleone a Cavallo

 

L’ultima opera che occorrerebbe pubblicare in vita, non postuma, dovrebbe essere esattamente già come fosse postfazione agli ultimi versi di un qualunque poetucolo. Il peggio.

 

Parrebbe, così, avere una sottile vena polemico-nostalgica, come in una serie di caustici trionfi che segnerebbero la disfatta del presente di quel tal autore.

 

Dunque, si tratterebbe di una poetica amorosa che, tenenendo ben presente lo scrivere, conterrebbe il mondo che essa stessa continuerà ad abitare. Il nulla del non dire.

 

Al contrario, l’ultima opera è quasi sempre tutta protesa verso il fulgente splendore. Come se il lettore fosse dedicatario dell’opera – e non lo è, più – in un orrorifico esplicitato fin dall’epigrafe: l’opera riverbera il legame con la malattia e la morte della scrittura e della lettura ormai prossima: si tratta di una scrittura in apnea, che segue gli spasmi e sposa l’andamento, foss’anche fintamente liturgico, per la supplica a una stoica sopravvivenza [come se il resistere fosse infrequente in chi scrive, in specie quando non letto].

 

Occorrerebbe semplificare tutto: la metrica interna al prosar poetico e, specialmente, la lingua, come anche lo schema rimico interno al testo [la frequente frequentazione di rime identiche o equivoche], in direzione di un’immediatezza comunicativa.

 

«Cuore», «vita» e «amore» sono parole-chiave al lettore che, con la loro comprensibile ma ricca eredità semantica, conducono a un messaggio privato e commosso da rivolgere ora all’amato, ora a un dio qualunque, cui si affida l’onnipotenza della guarigione.

 

Pronunciare la parola, e quindi scriverla, sarà la guarigione. Quindi, la parola ribassata, spogliata, si affiderà a un potere salvifico più forte e assoluto rispetto alle precedenti opere. Che non c’è.

 

Il ruolo dell’ultima opera dovrebbe presentarsi come attraverso analessi d’intensa autobiografia dell’io-lirico, in cui affiorano spiegazioni senza giustificarne le difesa.

 

Non mancheranno ripensamenti metapoetici, nel finale, che riconsidereranno e ridimensioneranno la propria scrittura alla luce del dramma presente: le scemenze scritte nel combattere l’infanzia sempre mai finita e l’avvertimento incostante di incolpevolezza e impurità.

 

Tutta una denuncia aperta di dolore per la mancanza d’interlocutore e una critica aperta e sincera alla società letteraria, all’abbruttimento del lettore seriale, a peso, a chilo, a “leggo dove mi costa minor fatica”, a scrittura di basso ordine, contro cui la sola speranza è giusto motivo di inesausto ringraziamento per chi ha letto. Davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(14 febbraio 2016)

 

 

 

 

 

 

 

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Dialogo in versi


Fabio Galli 07

 

Prepotenza del verbo e invadenza del dire sono punti davvero focali in qualunque educazione poetica, ove le nominazioni effettive, la purissima matrice del dire, contrastano con la ruvidezza delle parole, più o meno violente.

Oltre al totale asservimento fisico, alla brutalità pornolalica, il poeta vuole squassare il suo stesso ordine interiore e annullare la pochezza della recita affabulatoria, smantellando la mente. La scrittura, umiliata esecutrice, è deresponsabilizzata da qualsiasi colpa del dire, mentre viene portata a confondere dolore e godimento linguistico.

Io-lirico è inserimento di considerazioni estemporanee e rare battute di dialogo col reale, sempre senza alcuna avvisaglia d’interiazione. Il poeta approva il comportamento di tutte le parole pur domandandosi se sia corretto, ancora, oggi, il “fare” poetico per godere dei tanti oltraggi al suo essere pudore nell’annunciare.

Un’accesa dimensione quasi sensoriale che porta epifanicamente al suo stesso passato, a ritroso nella falsità delle vecchie relazioni del dire assoluto fino a giungere alla posta in gioco di verità del presente di foucaultiano ricordo.

Per quanto la poesia cerchi di ridurre il rapporto a puro esercizio di narcisismo egoistico, il piacere del gioco linguistico subentra principalmente in una dimensione tutta psichica [quai onanismo fosse della parola] e, per quanto la poesia si veda lontana dall’attaccamento al vero reale, raggiunge un interno ed eterno riposo manifestandosi quale richiesta di un completamento reciproco con il poeta stesso, risposta ideale agli imperativi tutti.

Ma qui il desiderio dello scrivere è meno materialistico. Il poeta chiede, infatti, ciò che la poesia può dare, ovvero una traduzione dell’atto dello scrivere: come una libertà dimenticata e andata, congedata dal bacio minutale, in balia di quanto accaduto e deceduto.

L’io-lirico non si stupisce, mai. Solo questo senso dello scrivere esercita un simile potere. Niente altro e imputa la sua terribilità nel godere all’intasamento mnemonico della parola desiderata, che non si straccia per lasciare spazio al presente storico.

Solo nell’ineffabilità del poetare si vince la resistenza della mente che si sente compresa e presa per cosa realmente è, un intendimento che supera gli stilemi.

Essere in completa balia, fa saggiare l’esperienza della morte, da cui ci si risolleva di colpo col godere: ancora una volta, il superamento del principio di piacere freudiano porta l’io lirico a non ricercare affatto il proprio bene, ma a rincorrere ciò che intacca la capacità fisica ed emotiva di mantenere un equilibrio interno possibile.

 

 

 

 

 

 

 

(22 aprile 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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domenica 28 maggio 2023

scrivere come dio, “il mio problema continua ad assillarmi…”


Gerani Secchi

 

 

 

30.10.1982 come fosse oggi

 

 

Egregio Signore,

il mio problema continua ad assillarmi: sono al di sotto di me, lo so, ne soffro, ma vi acconsento per paura di morire completamente.

Queste poche righe, che sono dette molto male, rischiano di introdurre un temibile equivoco.

Ecco perché per riguardo al sentimento centrale che mi dettano le mie parole e alle immagini o ai modi forti nell’esprimermi che ho potuto trovare, malgrado tutto propongo quelle righe all’esistenza. Quei modi d’esprimemrmi, quei giri di frase, io li ho sentiti e accettati. Non li ho contestati. Provengono dalla profonda incertezza del mio pensiero. Ben contento quando quell’incertezza non è sostituita dall’inesistenza assoluta di cui talvolta soffro.

Anche qui temo l’equivoco. Vorrei che capisse che non si tratta di quella maggiore o minore esistenza che risulta da ciò che si è convenuto di chiamare ispirazione, ma di una assenza totale, di un vero sperdimento.

Quando parlo dei miei lavori, mi riferisco, per lo più, a un dispositivo altamente disorganizzato, a una scrittura tutta costruita intorno a deboli e irriconoscibili schemi.

Scrittura non in quanto espressione, ormai anacronistica, di un sapere, di un dire unitario i cui modelli di coerenza appaiono inevitabilmente riduttivi rispetto alla crescente complessità in cui consiste l'”anarchia dispersiva”. Un’anarchia, una molteplicità che non sembrano più lasciarsi ordinare nell’orozzonte unificante di un sistema meramente conoscitivo.

Il significato che attribuiamo alle parole si inscrive nella meccanica dell’automatismo. La realtà si semplifica in modo quasi brutale.

Nel mondo della precisione, sottoposto al dominio spietatto della legalità matematica, la complessità dell’esperienza viene ridotta al minimo, sino a toccare quasi il “grado zero”. È un’omogeneità, una normalità, una banalità, una logica di superficie al cui interno il nostro stesso io si trova collocato; esso assume la forma astratta di un’identità definitaper lo più dalla funzione di succube del ruolo o della forza del foglio scritto, riempito di segnali. Di gerani secchi. Dunque una scrittura il cui carattere fittizio, provvisorio e compromissorio salta agli occhi. Di qui l’esigenza di un mutamento, il bisogno di un’uscita e il conseguente tentativo che, a partire da una tale esigenza, viene talvolta a prodursi.

Nel caso delle connessioni qui stabilite, si può dunque circoscrivere e definire il luogo specifico al cui interno si afferma la forma reale del pensiero scritto. Sappiamo ora, infatti, che per cogliere l’effettivo prodursi di un simile potere non è indispensabile, in fondo, ispezionare l’universo dei massimi sistemi. Bisogna cercare là dove noi ssiamo, nello spazio abitabile e consueto della nostra esistenza, della nostra vita quotidiana.

E se il quotidiano si presentasse come l’effetto di una esperienza limite? (esperienza della non-esperienza, esperienza che non si produce più come un avvenimento vissuto, che non appare più come qualcosa di attivabile e assumibile: ai limiti estremi dell’utilizzabile). Esperienza impossibile del quotidiano o impossibilità dell’esperienza quitidiana.

V è una scrittura ordinaria organizzata, regolamentata, funzionalmente produttiva e tecnicamente efficace. Vi è, si può dire una dimensione diurna della scrittura, quella che abbiamo sinora considerato. Ma vi è anche, assieme a essa, una sorta di scrittura notturna inafferabile, indefinibile, sfuggente, insignificante. Qualcosa che non-è perché non è ancora una qualsiasi forma, determinabile e riconoscibile.

Una scrittura illegale, insomma. Non già la “scrittura media statisticamente constatabile (variando malamente Blanchot de L’infinito intrattenimento). E neppure ciò che può essere compreso nell’orizzonte di un qualsiasi dominio della parola sscritta, impersonale quanto si vuole ma pur sempre definito.

Ma allora si tratta, in questo mio caso, di una scrittura debole?

Mi sembra ora opportuno, sulla base di tale riflessione, riconsiderare quella nozione di scrittura di cui faccio problema in queste righe. Poiché vi è, nella scrittura, qualcosa che concerne, in modo essenziale, una simile dimensione di esperienza. Non s tratta più, però, della debolezza della scrittura nel suo rapporto col pensiero, è, invece, il segno di un indebolimento più radicale in quanto sotratto alla sfera del pensabile ecomunque estraneo ai suoi consueti strumenti di misura. Debolezza, potrei dire, di una parola che non si pensa, che non è coinvolta nel gioco della produzione prostituita di una senso. Nel volere, più, dire nulla. Abbandonare, cioè, il campo del dicibile, là dove la parola si mantiene nel luogo dell’intendere.

Potrei ancora dire, oltre alla debolezza della scrittura, vi è forse la debolezza della parola di una parola senzia pensiero. Parola che non significa, parola inutile e a suo modo eccessiva. Ma, d’altra parte, non è forse proprio il flusso indistinto della scrittura ciò che ci permette di ascoltare il suono, o il rumore, di una simile parola? Non è forse nella stessa eterna nullità e nel vuoto della chiacchiera che la parola eccede, almeno in parte, la sfera del voler dire?

Considerata secondo questa prospettiva, la chiacchiera non appare soltanto come il segno inautentico di quell’impersonale “si dice” analizzato da Heidegger in Essere e tempo. Se, ancora una volta, ci sappiamo collocare a una certa distanza dalla parola, se, cioè, sappiamo ascoltarla, possiamo forse percepire in essa qualcosa che inquieta e che turba. Non si tratta tanto del uo carattere, espressione di una superfcialità che può produrre, al più, disagio, irritazione o fastidio. Al contrario, ciò che turba o inqueta giunge forse anche ad affascinare.

È lo stupore di fronte all’enigma della banalità, l’autentico stupore per ciò che è totalmente insignificante. La parola di puro intrattenimento, la parola che non si trattiene più ma che va e viene, che fluisce e scorre, sottratta ad ogni consistenza , ad ogni rigidità, ad ogni blocco, questa parola lasciata e ri-lasciata (smarrita, perduta per sempre, abbandonata, trascurata, dimenticata, inutilizzabile), questa parola che si dice senza nulla avere detto, ci avvicina, assai più della parola pensante e semanticamente densa, a quello che è probabilmente l’autentico enigma del linguaggio. Essa, infatti, mostra come al fondo di ogni atto di parola vi sia qualcosa che precede l’intendere e il comprendere, il pensare e l conoscere, il capire e il sapere, il volere e il potere.

 

 

cordialmente, un saluto, a chi mi legge, non mi legge più, mai mi leggerà

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(11 marzo 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un coup de dés jamais n’abolirà le hasard


.. sì, sì, va bene. È Mallarmé.. c’è una necessaria contraddizione che devo dire. E parto da qui: il dovere di gettare il dado si lega al fatto, procurato dal gesto, di generare una vera e propria sensazione di asfissia. Esiste un totale spostamento che mantiene le proporzioni e i rapporti tra parte e parte e dentro ogni singola parte di una materia fisiologica pensante [la poesia]: pensante in quanto fisiologica, e viceversa, fisiologica in quanto pensante. Pensante, direi, in quanto pensante.

Pensare il mio male vuol dire pensare il mio male, una tautologia per dargli il corpo che lo libererebbe da me e che mi libererebbe. Raggiungere un peso specifico del pensiero. Certo, il Mondo non pesa davanti al pensiero ma se, nel movimento di liberazione totale dell’espressione, avviene un riassorbimento istantaneo di questo, ecco apparire la terrorifica, trasparente, vitrea bestia pensante. Il pensiero s’è tutto ritratto e il reale è come il guscio di cicala che contiene, in trasparenza, il pensiero che pesa di per sé, che ha tolto il peso al Mondo e l’ha reso non più immaginario [sarebbe immaginario se fosse imbevuto di pensiero libero] ma mostruosamente fittizio, un fragile recipiente di vetro.

Dove si tenta di spostare la proporzione, insomma di sproporzionarla verso una determinazione poetica, ecco che la poesia che ne esce è legata all’asfissia. La poesia strangola lontanamente la ragione stessa della propria esistenza materiale.

È la matera del Caos riflessivo che non può vivere senza depositarsi, senza aver lasciato la traccia della sua inesistenza. Ma proprio l’atto di depositarsi crea la condizione brutale data da una atemporalità emotiva. Questa atemporalità dell’emozione implica che l’idea divora la condizione che essa genera. L’impressione d’un’idea, d’un’immagine non nasce, in verità, dall’idealità assoluta della poesia, che si avverte al più come tale, cioè avverte la propria mancanza di concretezza e ancora, necessariamente, di sviluppo.

Insomma, questa espressione si riassorbe nella propria idealità di partenza, quasi che il flusso della poesia, non accolto nel tempo, non avendo facoltà distensiva, si potesse risolvere tutto nel nucleo centrale, di partenza, rifluendovi tempestosamente, provocandovi uno stato caotico, una precipitazione interna verso l’interno.

 

 

(3 maggio 2016)

 

 

 

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Dialogo in Versi


Renée Magritte Le Modèle Rouge 1936
Renée Magritte Le Modèle Rouge 1936



dunque: noi non leggiamo affatto delle sensazioni ma delle percezioni e questo accade, talvolta, a distanza di tempo e di luogo. Esse sono custodite con adorazione e levità [e soltanto questo verrebbe da domandare: che possano essere sempre, per quanto terribilmente cari orrori, leggere percezioni]; o parole rapite a graffi alla realtà, riproposte nella loro spudorata ingentilezza, senza i tarli mortiferi del quotidiano. Non mancano tuttavia incertezze, legate alla differenza di tempi e di luoghi, di rifugi in ombre, alla gelosia, alla paura della mancanza e della perdita. Questo perché il mancarsi, il perdersi, non è certo l’ultima delle sventure.

Nel perdurare inesorabile del Tempo, si percepisce un lento e inevitabile lasciarsi, dovuto all’approssimarsi della finitezza che il Poeta avverte su di sé, sul Mondo, fermo e immoto nella contemplazione opacamente incantata del Presente.

Talvolta, singolarmente, alcun Poeti si presentano come risposte a domande assenti nella Storia, ma ricostruibili leggendone gli interrogativi. Questo fanno, e questo sono, i Poeti. Fuori dal Presente e immersi nell’attuale del quotidiano. E sono l’unica speranza al silenzio.

Il silenzio è un campo semantico ferocissimo, che tuttavia non è da interpretarsi quale negazione angosciante della comunicazione, ma come scelta per proteggere da rivelazioni perturbanti. Chi è Visionario non rivela al Mondo, non eccede al commento. Non si mostra. O è finzione.

Questa attenzione attesta, quindi, in brevi lampi trasversali la felicità sgomenta [perché disattesa] della prima conoscenza, avvinta alla contemplazione estatica di particolari anatomici, caratteriali e vezzi. In tutta questa attenzione, si ritrovano anche tutte le risposte alle domande implicite in un vano tentativo di rassicurazione basato sulla ribattitura della negazione della parola.

Noi non siamo vittime o carnefici, nessuno di noi lo è. Anche se c’è qualcosa per il cuore. E così, ancora, il Poeta risponde a domande che si fanno allusioni all’indagine del Presente, non commentando, rivisitando con piacere le memorie condivise, le sembianze degli amori e le tracce di una veglia tanto simile al falso sonno.

Dunque, il Poeta è ben oltre la visione esacerbata e sentimentalmente precaria delle proprie opere: oltre il suo stesso dire o non dire. Coerentemente con la sua stessa poetica Egli è la preminenza affettiva e si esprime nell’elezione di dettagli quotidiani a materia di Poesia, singoli ricordi, di per sé insignificanti, che sono rivalutati alla luce della condivisione privata. Scrivere non è perversione patologica, cura, rimasuglio psicanalitico, masturbazione manuale o mentale ma una modalità espressiva per comunicare l’urgenza del desiderio.

Basterebbero queste poche suggestioni per attestare quanto, pur nell’eterogeneità dei varii approcci, sperimentino la Poesia o la Scrittura contengano in sé una Sacralità del desiderio e, da un punto all’altro, testimonino la soggettività estrema nella comunicazione attraverso la scrittura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(30 novembre 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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sabato 27 maggio 2023

scrivere come dio: “Lei ha il diritto d’ignorarmi..”


Hiddencity 00

 

Egregio Signore,

Lei ha il diritto d’ignorarmi. Nelle mie lettere avevo fatto delle piccole confessioni mentali. E avevo posto delle domande. Mi voglia permettere oggi di completare quelle stesse confessioni, di riprenderle, di andare fino in fondo a me stesso. Non cerco di giustificarmi ai suoi occhi, m’importa poco di avere l’aria di esistere di fronte a chiunque. Non veda in questo nessuna insolenza, la prego, ma il riconoscimento fedelissimo, l’esposizione penosa di un doloroso stato di pensiero.

Per il suo silenzio, ho serbato a lungo rancore. Mi ero dato come un caso mentale, una vera anomalia psichica ma in seguito, preso da rimorsi, avevo deviato tutto sul fatto letterario, sulla descrizione puntigliosa della mia struttura poetica, su una analisi clinica della mia scrittura. Mi lusingai di non essere stato capito. Mi accorgo oggi che forse non ero stato abbastanza esplicito.

Credevo d’interessare, se non per la preziosità dei miei versi, almeno per la rarità di certi fenomeni d’origine intellettuale che facevano sì che, appunto, quei versi non fossero, non potessero essere differenti, mentre avevo appunto in me di che portarli all’estremo della perfezione. Affermazione vanitosa, io esagero, ma di proposito.

Forse le mie domande erano effettivamente speciose ma le ponevo a Lei, a Lei e a nessun altro. Mi lusingavo di portarle un caso, un caso mentale caratterizzato, pensavo, allo stesso tempo, di attrarre l’attenzione sul valore reale, il valore inizile del mio pensiero.

Questo sparpagliamento, questi vizi di forma, questo cedimento costante del mio pensiero, sono da attribuire non a una mancanza d’esercizio, di possesso dello strumento che maneggiavo, di sviluppo intellettuale ma a uno sprofondarsi centrale dell’anima, a una specie d’erosione, essenziale e insieme fugace, del pensiero, al non-possesso passeggiero dei benefici materiali del mio sviluppo, alla separazione anormale degli elementi del pensiero (l’impulso a non pensare,a ciascuna delle stratificazioni terminali del pensiero, passando attraverso tutti gli stati, tutte le biforcazioni del pensiero e della forma).

Dunque c’è un qualcosa che distrugge il mio pensiero; un qualcosa che m’impedisce d’essere ciò che potrei essere ma che mi lascia, se posso dire, in sospeso. Un qualcosa di furtivo che mi toglie le parole che ho pensato, che fa diminuire la mia tensione mentale, che distrugge man mano, nella sua sostanza, la massa del mio pensiero, che mi toglie perfino il ricordo dei giri di frase con cui ci si esprime e che traducono con esattezza le modulazion più insperabili, più localizzate, più esistenti del mio pensiero, non voglio insistere. Non devo descrivere il mo stato.

Lei ha il diritto di ingnorarmi ma io ho il dovere di propormi. E questo mi basta per continuare a sopravvivermi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(17 marzo 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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scrivere come dio: “… il problema è che i dubbi..”


Fabio Galli 05 macchina da scrivere

…forse il mio vero problema è che i dubbi, le angosce che mi tormentano durante la stesura dei miei lavori, e di queste lettere, sono traccia e riflesso dei continui spiazzamenti e contraddizioni di cui una certa cultura è intessuta. Scrittura frammentata, costruita attraverso aggiunte successive in conflitto fra loro, costellata di interruzioni, ripetizioni, lacune (tutto ciò è la mia scrittura, ma come indice e rivelazione insieme della condizione stessa di quella stessa cultura) non più occultabile, che nessuna pietas religiosa è più in grado di nascondere. Ma questo risultato non sta affatto in continuità con la tradizione culturale che rivela, bensì la interrompe, poiché ne impedisce il senso essenziale: la possibilità di confidare in essa, di stare nella sua radice, di intrattenere, con essa, un religioso rapporto.

Se vi è scrittura dominata dall’impazienza, se vi è hybris interpretante, questa è proprio la mia scrittura: qualche indizio soltanto e uno schema generale dovrebbero fare in modo di lascire che avvenga un’interpretazione delle sue origini, del suo sviluppo, del suo rapporto con la letteratura in senso ampio. Eppure, proprio tale smisurata pretesa, mette a nudo l’impossibilità di risalire a fondamenti certi, che soli ne permetterebbero la realizzazione. Mette a nudo, essa, la smisurata pretesa, ripeto, di una certa cultura, e finisce coll’indicare l’inesplicabile in cui quest’ultima necessariamente finisce. E da cui si origina.

 

10,10,1985, come oggi

 

 

 

 

 

 
(25 maggio 2016)

 

 

 

 

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venerdì 26 maggio 2023

da “Cani d’Amore”


Risaia

 

all’incubo di quel sogno, poi, d’un colpo,

strazia una pausa – non lo stesso

sperdimento aumenta il tono basso

ove è proibito, alle segrete cure,

il guarito pianto: camera mia, mio fiele

fedele!: ora piango ma langue pure questo

e opprime le dirupate valli

del riso fra Mortara e Sartirana nel più

sommerso solco –: non sempre quello snodo

di mostri dirama l’avanzata

ma sempre più sorprende il bel bosco,

il diletto lume, il cielo fosco

 

almeno uno, perfetto davanti a questo

ventivo controllo – piuma dorata, qualcosa

è avvenuto: un passamento, un tumultare:

un moto immoto che si muove obliquo! –, è

riuscito, nello scintillio di smalti,

al rosso accendere i gerani:

qui è registrato come umile animale

tanto che il mio grido rivela mari

di terra: è queste fate, è questa lenta

pupilla e insegna le strade così

ai rivelati come

ai danzanti lumi

fino a somigliare a una tenebra

[là dove pioggia battesse orribilmente]

 

“queste falle, nemmeno possono sentirsi!

qualcosa, però, improvvisamente diviene

la corona di spine ma come ordigno perché

si è dovuto colpire!: lo stesso specchio

ha le sue consistenze fino a strafare,

 

qui alla parabola, questa serata nuova”

è provincia nel riporto proprio mentre

ripete, di un altro moto, il perpetuo

stancarne l’addirittura detto ‘strumento’

 

 

 

 

(questo componimento, parte integrante di una intera raccolta che mai vide luce, apparì all’interno del quaderno collettivo “a Marino per Moretti” di Casa Moretti, Comune di Cesenatico, datato maggio 2000. L’ultima cosa pubblicata su carta stampata da Fabio Galli. Seguì il silenzio, forzato)

 

da “Cani d’amore”: Sente lui il gioco…


Topo Formaggio


In questa piccola sottosezione della mia pagina, tento fugacemente di ricostruire un percorso, una ricostruzione anacronistica di un tentativo di “fare poetico”.

Riesumanda rievoca, in questo caso, alcuni testi che sono parte integrante di una raccolta, Cani d’amore, che vennero inseriti in una rubrica a cura di Milo De Angelis pubblicata dalla rivista Poesia, n° 58, Anno VI, Gennaio 1993, Crocetti Editore.

 

 

sente lui il gioco di tutti i fiumi
ghiacciati, e il rumore del tempo,
sente, e il suo stesso volto: l’età

tra le brume rivela il canto,
rifugiandosi nell’avvilimento del fuoco,
appena riempito l’avvinghiato orlo

“ama e loda: i fiori, oh Impotente!
per arrivare, tingiti dove si parla
una lingua come questa!, poi rallegrati
come morte spezzata: negli stessi giorni
la nostra potenza, i miei rozzi insegnamenti!,
è quella Natura, è quel fine lassù – lo sento! –:
più d’ogni altra cosa va lentamente:
ah le più dolci afflizioni!:
lotta accompagnato dal cuore
e odora i ventri del piacere
e ridi e piangi e annusa la non facile
danza!”  – non rimane qui, è usato: come
un paziente, va a conoscersi nel meno
pieno argomento, egualmente viene
viene a proclamarsi ‘sostituzione del giorno’
“dov’è il Lemano?, lo vedi?, fu davvero vero?”  –

simile a gioiello che si risolve  – che ha maturata,
veramente!, l’occasione del tempo  –  va mutando:

col lume grigio del braccio,
luoghi diversi e ghiaccio
mutano raccolti e meraviglie seguenti,
acque di persone e presenze furenti:

delle volte è caparbio!, questo l’autorizza
già a dirigersi, a indossare sensatezza
fino all’insuccesso e al suo puro fallimento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(1 aprile 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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