Ho iniziato come un’ombra di carne scolpita dall’ossessione, trascinato da forze invisibili che squarciavano le pareti della mia testa. Proust mescolato a chimica organica, come un veleno distillato da formule oscure, si infiltrava nelle vene della mia mente, mentre botanica e sociologia danzavano in un circolo di fuoco con le dottrine occulte, divorando ogni frammento di comprensione, facendomi a pezzi. E mentre leggevo, libri su libri, ogni pagina era come uno strappo nella carne del mondo.
Poi vennero i colori, il movimento, il suono: pittura, danza, teatro, musica, un’orgia di sensi, un’eco che risuonava nelle cavità vuote del mio essere. Ogni nota, ogni pennellata era una lama, ogni scena un’apocalisse. Il mio corpo non era che una bocca, un vuoto senza fine, un cratere di fame. Fame di tutto. Fame di niente.
La sete di velocità mi bruciava dentro. Patente per auto, camion, elicottero, motoscafo, aereoplano: ogni mezzo di fuga diventava un’arma, un coltello per incidere lo spazio e il tempo, per tagliare la mia esistenza in pezzi sempre più piccoli. E allora mi sono lanciato: paracadutista, pugilatore, sommozzatore, lottatore. Ogni pugno, ogni immersione, ogni caduta era un’invocazione al nulla. Combattevo ovunque: Roma, Beirut, Nicaragua, come un demone che cercava la sua estinzione.
Mi sono fatto marchiare, la bocca di uno squalo divorava la mia pelle mentre l’interno esplodeva in deliri di macumba, voodoo, tarantolate. La mia carne si scioglieva in ogni droga conosciuta: eroina, cocaina, acidi, funghi. Ogni sostanza era una nuova lingua della disperazione che si attorcigliava attorno alla mia anima, e la realtà si piegava in bordelli di carne, un mare di spermi vaganti in cerca di preda, di annientamento.
E mentre il mio corpo si dissolveva in malattie e mutilazioni—epatite, malaria, sifilide, colera, lebbra—la mia anima si frammentava in religioni, in analisi, in fedi costruite sull’assenza. E quando finalmente il vuoto mi possedeva completamente, il sangue di chi uccidevo si mescolava al mio. Non ero più io, ma qualcosa di altro, un perfetto assassino senza volto.
Poi, come un miracolo malato, ho scoperto il cibo. Ho imparato a mangiare, a divorare tutto: carne di amici, carne di nemici, carne che pulsa ancora, carne che non c’è più. Carne di ogni specie e di ogni senso. Carne sacra, carne maledetta, carne che si scioglieva nella mia bocca come un’ultima preghiera.
Ora sono qui, un mostro che si è nutrito di tutto, che ha annientato ogni traccia di sé, felice come un porco satollo, a sorseggiare birra davanti alla televisione, a guardare la mia ombra diventare l’unica cosa reale. Noi, barbari di un’era perduta, ridiamo della nostra miseria, così teneri, così fragili.