Quando mi trascino nell'incognita delle ombre indistinte, un tutt'uno con l'irreparabile densità della massa – che mai si spezza ma sempre si inclina come un trapezista cieco su un filo di seta bagnata – è lì che sento il rantolo della civiltà farfalla, il ragazzino-polvere mai nato, incatenato nella bocca della terra. Senza occhi né orecchie, depondo qui parole come ali scucite su un deserto d’aria.
E là, Lei, la maestosa Vestita d’Azzurro, fatta di pietre liquide che scivolano via dalle mani del Tempo, s’incarna nella sua propria inesplicabile vertigine.
Sento il nervo del mondo sussultare, come un’onda che si ferma appena prima di rompersi, il penultimo respiro dell’acqua marina che si frantuma e ritorna. In quella voragine amata, mi sembra di percepire un eco divino – un riflesso vibrante di ciò che è e ciò che mai sarà.
"Rifategli eco!" gridano gli abissi, come se la nascita stessa fosse un rifiuto, come se ogni immersione fosse un ritorno al Nulla, un riversarsi nell’indistinto. Tornate, dite! Rifate eco!"
Tutto questo è dolcezza per me, una dolcezza così densa da infrangere il vetro del reale. E lì, intrappolato nella dolcezza di ciò che non è, il padrone del sogno si condanna, vittima e carnefice della sua stessa impossibilità.