Nella Storia e nella Memoria, siamo condotti, non per mano, ma con quella feroce determinazione di chi sa che ogni passo verso il passato è un colpo, una sfida a quella scoria che tenta di soffocare le voci e i volti. E questi bambini, seminudi, quasi spogliati d’innocenza, brillano come figure eterne: le loro anche, ormai consumate, resistono come pilastri di un’antica giustizia data al capriccio, all’umore del tempo che passa.
C’è una monumentalità crudele, un’ostinazione senza scampo che si radica nei desideri – affamati e colmi di sconfitte – dove ogni passo è un prezzo che viene scontato senza sconto, come se il passato si ergese ancora, per riaffiorare in un’età lontana. E in quell’età, che ci guarda con occhi spenti, c’è una rapidità crudele nei tormenti, un correre in avanti verso un mondo remoto e stanco, dove persino il cielo stellato sembra sfuggire, rifugiandosi in un angolo della luna, in un paese silente, lontano da ogni “perché”.
In quel luogo, lo spasimo non trova né pace né furia, ma persiste come un eco stanco, portando con sé un “NO” che non conosce mezze misure, che si agita come un fiume in piena tra le pareti bianche, intinte del colore della sazietà, della stanchezza. È il bianco della resa, della fine, il bianco che spazza via ogni sfumatura fino a spegnere ogni luce, ogni vita, in una quiete che sa di conclusione.
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Ho cercato di evocare un’atmosfera ancora più intensa, mantenendo il tono epico e le immagini potenti del testo originale.